martedì 30 luglio 2013

Atene ora può dire addio all'euro!


di Wolfgang Munchau

A due mesi dalle elezioni in Germania, non si può imputare al ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble di aver rifiutato di considerare la cancellazione parziale del debito greco nella sua recente visita ad Atene. L'approccio di Berlino alla crisi, sostiene Wolfgang Munchau in A Grexit is starting to look more feasible for Athens, è però semplicemente non applicabile nel breve periodo. Ma la domanda che pone il Columnist del Financial Times è sempre più pressante: è economicamente razionale per la Grecia seguire il sentiero indicato dal ministro delle finanze tedesco, oppure dovrebbe lasciare l'eurozona o, terza opzione, dichiarare default ma restando nell'euro?
La principale difficoltà che si incontra nel cercare di rispondere a questa domanda, prosegue Munchau nella sua analisi, risiede nelle opzioni politiche in gioco non a conoscenza dei media: ad esempio, il governo greco potrebbe aver ricevuto assicurazioni ufficiose sulla ristrutturazione del debito – estensioni del prestito, riduzioni del tasso d'interesse, ulteriori aiuti - che non sono pubbliche. Del resto, in conversazioni con uomini politici europei, Munchau sottolinea come solo raramente qualcuno si espone sulla possibilità che Atene potrà mai consolidare il suo debito e riportare l'economia alla piena occupazione. 
Valutando le condizioni attuali, un'uscita sarebbe l'opzione più semplice. 
Con una bilancia dei pagamenti primari in attivo – senza considerare gli interessi accumulati - un paese può avere meno difficoltà da questo punto di vista. E nelle sue ultime previsioni rilasciate a maggio, la Commissione europea ha stimato a zero la bilancia fiscale primaria della Grecia per quest'anno ed un surplus dell'1,8% per il prossimo anno. Da un punto di vista economico, la Grecia andrebbe incontro ad una recessione nel primo periodo, ma una deprezzamento reale della nuova moneta potrebbe presto restaurare il sentiero della crescita soprattutto per il boom del turismo. L'argomento economico contro l'uscita è che il guadagno immediato in competitività sarebbe stato assorbito dall'aumento salariale, lasciando il tasso di cambio immutato.
Dopo aver sottolineato che la sua critica alla politica europea non riguarda il grado di riforme imposte – anzi Atene dovrà continuare a farle per i prossimi anni soprattutto per il settore pubblico – Munchau sottolinea come le riforme e l'austerità, in modo paradossale ed ironico, costituiscono oggi una precondizione simultanea per restare nell'euro-zona ed una per la sua uscita.
Il contesto economico e finanziario creato lascia ad Atene due opzioni solamente: la prima è di riformare e dichiarare default all'interno della zona euro – una strategia che sarebbe accolta solo da alcune capitali europee – la seconda è di riformare e dichiarare default al di fuori dell'euro zona – una decisione che la Grecia può prendere unilateralmente se accompagnata dalle scelte macroeconomiche giuste. Dato che non è percorribile a lungo, l'opzione di Schäuble - riformare senza default - ha senso solo se si considera la possibile uscita di Atene nel breve periodo. 
Un paese può decidere di restare all'interno dell'eurozona per ragioni politiche e di sicurezza, conclude Munchau, ma il dibattito è arrivato ad un livello diverso, vale a dire se ci sia la convenienza di un'uscita da un punto di vista economico. E quando ci sarà la scelta definitiva, gli esiti diventeranno sempre più difficili da prevedere.

Contro le parodie semplicistiche del liberismo: Brancaccio spiega Keynes

                              John Mainard Keynes

Riporto integralmente la lunga postfazione che Emiliano Brancaccio ha scritto per la ristampa di "Esortazioni e profezie" (Il Saggiatore 2011), una raccolta di opuscoli e articoli pubblicati su quotidiani o riviste, ai quali si aggiungono alcuni estratti di celebri pamphlet politici, come "Le conseguenze economiche della pace", o di opere teoriche, come "La riforma monetaria" e il "Trattato della moneta".
Una descrizione del pensiero del grande economista britannico che fa giustamente strame delle interpretazioni parodistiche e semplicistiche che gli esponenti del liberismo economico continuano a proporre e ne svela la grandissima capacità di previsione e la libertà di porsi contro il pensiero economico dominante, con l'indicazione di soluzioni che, spesso, si sono mostrate corrette.

La rivoluzione da Mosca a Cambridge
di Emiliano Brancaccio

Pareva destinato a diventare una reliquia, un polveroso cimelio del periodo tra le due guerre. Ed invece, dopo il fallimento di Lehman Brothers dell’ottobre 2008 e l’inizio della cosiddetta Grande Recessione, il nome di Keynes è tornato improvvisamente a risuonare nei dibattiti di politica economica. Si tratta, beninteso, di una evocazione ancora spettrale, che per adesso incide solo in termini marginali e confusi sulle azioni pratiche delle autorità monetarie e di bilancio. Ma già il solo fatto che Keynes venga nuovamente menzionato nell’agorà politica appare a molti un segnale minaccioso, un potenziale incentivo all’eversione del precario ordine finanziario costituito.

Il rinnovato interesse per l’eresia keynesiana costituisce un segno del terremoto che dall’inizio della crisi ha iniziato ad agitare il campo di battaglia delle teorie e delle politiche economiche. Come però tipicamente capita alle visioni per lungo tempo sommerse e dimenticate, il pensiero di Keynes risulta oggi appannato da una vulgata approssimativa, per molti versi fuorviante. Si consideri ad esempio una delle sue più celebri affermazioni: «Nel lungo periodo saremo tutti morti». Questa frase viene spesso affiancata ad un’altra sua

lunedì 29 luglio 2013

Italia s'è Desta:L'€uro-Grecia al collasso: bambini lasciati negli orfanotrofi per non morire di fame!

Dal Daily Mail, uno speciale report sulla situazione sempre più disperata della Grecia lì dietro l'angolo... una faccia una razza.

Genitori della classe media in Grecia lasciano i loro bambini negli orfanotrofi per non farli morire di fame.
Dei bambini giocano in un cortile dal profumo di pino, in una calda serata d'estate.
L'eccitazione sale febbrile quando si taglia un cremoso dolce al cioccolato. Sembra una scena idilliaca senza tempo - ma in realtà si tratta di una moderna tragedia greca.
Perché questo edificio di mattoni rossi situato in un ricco sobborgo di Atene è un istituto per l'assistenza all'infanzia. Eppure, molti di questi ragazzi non sono orfani né figli di famiglie disfunzionali.Invece, sono vittime dimenticate della crisi dell'Eurozona, lasciati lìdai genitori che non possono più permettersi di dar loro da mangiare.

La crisi finanziaria in Grecia ha causato dolore e sofferenza in tutto il paese. Ma in un paese in cui l'idea di famiglia è centrale nella vita, proprio i più giovani stanno sopportando il carico più pesante della crisi.
Decine di bambini sono stati messi in orfanotrofi e case famiglia per motivi economici; un'organizzazione di beneficenza ha detto che 80 su 100 dei bambini che abitano nei suoi centri residenziali sono lì perché le famiglie non possono più provvedere a loro.

Il dieci per cento dei bambini greci sono a rischio di denutrizione. Gli insegnanti dicono di dover annullare le lezioni di educazione fisica perché i bambini sono denutriti, e raccontano di vedere gli alunni cercare cibo neicassonetti.
Presso l'istituto di assistenza all'infanzia Zanneio, Nicolas Eleftheriàdu, di nove anni, mi ha offerto un pezzo di torta. Quando gli ho chiesto come stava, mi ha risposto con un sorriso timido: 'Sono forte come una roccia.'
I suoi genitori, Olga e Alexandros, sono arrivati a prendere i tre figli più grandi per riportarli a casa per il fine

domenica 28 luglio 2013

Le pillole rosse - 5° pillola: Biondi, alti e produttivi

Una delle armi più forti di Matrix, che condiziona pesantemente l'operato di governi ed il pensiero dell'opinione pubblica, è l'utilizzo di valutazioni morali per definire processi economici.
Matrix, si sa, ama la Germania, nelle nostre trasmissioni dove si trattano temi economici c'è sempre un giornalista tedesco che ci fa la lezioncina su quello che dovremmo o non dovremmo fare. I tedeschi sono, nel suo immaginario. e quindi nella comunicazione che ci offre, un esempio, perché, produttivi e capaci di esportare. Ancora più bravi, poi, perché capaci di rimanere in forte surplus di bilancia dei pagamenti e quindi esportatori netti, dimostrando di essere la vera locomotiva d'Europa; noi dovremmo fare come loro e smetterla di essere pigri ed improduttivi.
Ma cosa significa esportare? Esportare significa semplicemente vendere le proprie merci all'estero, quindi se
io esporto ci deve essere qualcuno che importa: se non ci fosse nessuno che importa non esisterebbe commercio estero e, d'altronde, come è stato detto brillantemente, se tutto il mondo esportasse dovrebbe esportare su altri pianeti; questo ci porta alla ovvia considerazione che ambedue i soggetti sono fisiologicamente necessari e che non ha molto senso da un punto di vista economico dare un valore di merito al fenomeno, se non in un ottica competitiva mercantilistica.
Tanto non ha senso che il Fondo Monetario Internazionale nel suo statuto ha la c.d. "clausola della valuta scarsa" che punisce uno Stato che persiste nel rimanere in surplus di bilancia dei pagamenti, fenomeno che, quindi, è visto sfavorevolmente, tanto quanto quello di un Paese in continuo deficit; ciò perché uno squilibrio persistente, sia in surplus che in deficit, non permette il riequilibrio delle partite e quindi ostacola a lungo andare gli scambi. Oltretutto lasciato a sé il sistema tenderebbe a riequilibrarsi: tra Stati con monete diverse il riequilibrio avviene attraverso il deprezzamento della valuta del Paese A importatore, il quale vende moneta propria per acquistare moneta del Paese B esportatore, al fine di acquistarne i beni, e l'apprezzamento della valuta del secondo, poiché aumenta la domanda della sua moneta; questo fenomeno porta a rendere più competitivi sul mercato estero i beni del Paese A che quindi risulta agevolato nelle sue esportazioni e, parallelamente, più cari per gli altri e quindi meno competitivi i beni del Paese B, che quindi vede diminuire le sue esportazioni, riportando in riequilibrio il sistema. Con la moneta unica il riequilibrio, più lento, avviene attraverso l'aumento dei redditi all'interno del Paese B e del tasso di inflazione, che è fisiologicamente legato alla crescita economica; ciò porta ad aumentare i consumi, anche dei beni esteri, dei suoi cittadini ed insieme a rendere, via inflazione, più cari i suoi beni, con una diminuzione delle esportazioni. Parallelamente la diminuzione dei redditi del Paese A porta ad un calo dei consumi, anche di beni esteri, e la minore inflazione derivante dal calo della domanda e quindi dei prezzi, rende di nuovo competitivi i beni da esportare, anche qui riequilibrando a medio termine il sistema.
Se le cose stanno così, allora perché in Europa non c'è stato riequilibrio e il Paese sedicente "virtuoso" (la Germania) è rimasto tale e quelli periferici, Italia compresa, sono rimasti importatori netti e quindi secondo matrix "viziosi"? E' colpa del fatto che sono (siamo) improduttivi o pigri o incapaci come ci raccontano, o c'è dell'altro?
Iniziamo a vedere qualche dato:

Fonte: goofynomics

Da questo grafico si vede che, fino al 1989 la produttività media del lavoro italiana e tedesca viaggiava di

giovedì 25 luglio 2013

Il disastro del mercantilismo tedesco.


La ripresa dell’economia mondiale è stata negli ultimi tempi oggetto di sempre più frequenti pronostici , ma anche sempre più ridimensionata nelle stime e spostata nel tempo. Lo confermano senza mezzi termini le valutazioni del Fondo Monetario Internazionale, che, nonostante i segnali di risalita negli Stati Uniti e in Giappone, segnalano il protrarsi della recessione nell’eurozona e un rallentamento di molti mercati emergenti, proprio quelli al quale si voleva assegnare il ruolo di locomotiva.

In effetti, lo scenario non dovrebbe sorprendere più di tanto: le economie emergenti basano infatti ancora gran parte della propria crescita sulle esportazioni, e queste ultime sono state rallentate dall’affanno in cui si trova la domanda europea. Una domanda stagnante che, come spiega bene l’ultimo Rapporto ICE sul commercio internazionale, condiziona gli scambi mondiali, al punto di imprimerne una inversione di tendenza rispetto al decennio precedente, quando variavano in misura più che proporzionale al PIL. La crisi europea appare insomma l’occhio del ciclone della crisi mondiale, e l’attesa di una ripresa trainata dagli emergenti è una pura chimera.

Ma c’è qualcosa di più pregnante che il Rapporto ICE ci ricorda: la frenata del commercio europeo è da imputare essenzialmente ai paesi della “periferia” dell’eurozona (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo), la cui depressione economica è responsabile di un vero e proprio crollo delle importazioni. Tale crollo ha ridimensionato l’entità dei deficit commerciali di questi paesi e ha ridotto gli squilibri commerciali interni all’area euro. La riduzione di questi squilibri ha inoltre comportato il riequilibrio delle tensioni commerciali nell’eurozona, mentre nessun contributo in tal senso è giunto dai paesi in forte surplus, come la Germania, ma anche di area tedesca come Austria, Belgio, Finlandia e Olanda. Si tratta di un processo che va avanti senza soluzione di continuità dal 2007, al quale si contrappone in maniera molto netta la divaricazione tra la capacità produttiva industriale tra “area tedesca” ed “area mediterranea” (includendo in quest’ultima anche la Francia). Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, nell’ultimo anno si è dimezzato il disavanzo con la Germania.

“La diminuzione degli sbilanci commerciali osservata dopo il 2007 nell’area euro”, si legge nel Rapporto ICE, “non ha riflesso correzioni sostanziali degli squilibri di competitività che sono andati cumulandosi tra i paesi membri dall’inizio della moneta unica. […] A lungo andare, questo processo può condurre a un recupero di competitività attraverso cosiddette svalutazioni interne, ovvero spingendo le dinamiche di prezzi e costi persistentemente al di sotto di quelle dei paesi in surplus. Ma la strada si prospetta lunga e onerosa, dal punto di vista sociale e produttivo . In assenza di significativi movimenti verso un aggiustamento intra-europeo più simmetrico, il riequilibrio affidato ai soli paesi in deficit implica il permanere per un prolungato periodo di tempo di mercati del lavoro deboli nell’Area Mediterranea. Accanto a un costo sociale, c’è anche un rischio produttivo. Le domande interne in contrazione colpiscono in primo luogo le aziende che vendono al mercato domestico, ma non risparmiano coloro che sono orientati all’estero. Le imprese esportatrici “pure” sono un fenomeno relativamente raro. Ad esempio in Italia oltre il 60 percento del fatturato viene realizzato, in media, nel mercato nazionale. Ciò significa che quando la domanda domestica , come avvenuto negli ultimi anni nell’Area Mediterranea, tutta la struttura produttiva ne risente, in modo diretto per la contrazione di uno sbocco prioritario per le vendite e indiretto per la rarefazione del credito che i minori fatturati finiscono con l’attivare.” Questo processo ha infine come sbocco “una perdita strutturale di base produttiva, accentuando una dinamica che ha contrassegnato il funzionamento dell’euro fin dalle sue origini.”

L’apparente miglioramento del quadro commerciale dell’eurozona, è dunque rivelatore di una situazione al collasso, che sta erodendo la base produttiva dei paesi in difficoltà, indebolendone anche la capacità di intercettare futuri segnali di ripresa, attivando la produzione specialmente in settori dove il potenziale di domanda è maggiore. La questione è assolutamente cruciale per quanto riguarda l’economia italiana “Considerando l’intero decennio” si legge nel Rapporto ICE “l’analisi conferma che il contributo principale alla riduzione della quota [di export] italiana è derivato dalle caratteristiche del modello di specializzazione delle esportazioni, orientate prevalentemente verso prodotti a domanda mondiale relativamente lenta.” Giova in questo senso ricordare il peso strutturale assunto nelle importazioni dai prodotti high-tech e il caso paradigmatico rappresentato dai pannelli solari. Nel Rapporto si legge infatti che per quanto riguarda l’Italia “Un contributo negativo molto rilevante è stato di nuovo arrecato dal crollo delle importazioni di celle fotovoltaiche, dopo la riduzione degli incentivi pubblici per il loro uso.”

Se non fosse stato ancora sufficiente il conto che la crisi e il suo inasprimento a causa delle politiche di austerità hanno presentato finora, il flebile segnale che gli scambi commerciali mandano a consuntivo del 2012, dovrebbe sancire un allarme inequivocabile sulla necessità di mettere mano in Europa a politiche pubbliche espansive per il rilancio della domanda. I fatti dimostrano che le dinamiche mercantiliste e la logica del beggar my neighbour sono solo l’ingresso in un vicolo cieco e forse anche a Berlino inizieranno a capire che il gioco al massacro travolge tutti.

Pubblicato da keynesblog il 25 luglio 2013

La “rigorosa ed austera” Germania è campione di lavoro nero e sommerso

angela_merkel_2008C’è un record insospettabile, oltre a quello del debito pubblico, detenuto dalla Germania di Angela Merkel: il primato di economia sommersa tra i Paesi dell’Ue.

Un titolo di cui, immaginiamo, la Germania non si fregia volentieri. L’immagine di rigore e austerità che i tedeschi vorrebbero esportare ed imporre anche al resto dell’Ue, dimostrando peraltro scarsa disponibilità al concetto di sostegno tra Stati come si conviene ad una comunità che si vorrebbe unita, viene messa in crisi dai recenti primati inanellati dalla Germania targata Angela Merkel.

Innanzitutto, il debito pubblico, che nel 2011 ha superato quello italiano, diventando il terzo debito pubblico più alto del mondo dopo Usa e Giappone e ovviamente il primo in Europa. Oggi la Germania non sta meglio: gli ultimi dati pubblicati dal Sole24Ore ad aprile 2013 parlano di un debito pubblico salito alla quota record di 2.166 miliardi di euro, con un incremento dell’1,5% rispetto al 2011. Una cifra di poco superiore a quella italiana, il cui debito pubblico dopo la “cura Monti” è schizzato a poco più di 2.000 miliardi, dopo che ai tempi del governo Berlusconi era riuscito a scendere sotto i 1.900 miliardi.

E’ notizia di questi giorni invece il nuovo record teutonico: il lavoro nero tedesco vale 350 miliardi di euro e impiega otto milioni di persone.
Dati che surclassano quelli del lavoro nero italiano, nonostante l’immagine dipinta spesso dagli italiani stessi di un Belpaese pieno di “evasori, lavoro nero ed economia sommersa”.
Anche in questo caso, invece, la Germania surclassa tutti e si posiziona saldamente sul gradino più alto del podio.


Lo studio, commissionato dal colosso della carte di credito Visa in collaborazione con l’università di Linz, rivela altri dati: in relazione al Pil tedesco, il nero sarebbe al 13%, circa 1/6 della ricchezza nazionale. Questo significa che, pur vantando la Germania il più grande sommerso d’Europa in termini assoluti, in relazione al Pil è la Bulgaria a fare la parte del leone con un sommerso che vale il 30%. Seguono Germania, Italia e Portogallo con il 20%.
Secondo l’università di Linz, inoltre, le casse dello Stato tedesco non ne risentirebbero più di tanto: grazie all’Iva vengono recuperate quelle risorse evase in virtù dei contratti o dei pagamenti in nero. Gettito dell’Iva che sarebbe di molto inferiore se i consumi crollassero a causa dei mancati redditi garantiti dal lavoro nero.
A quanto pare, il sommerso sembra non essere affatto un problema per la Germania. Strano che appaia come quello principale per l’Italia.

Fonte: www.qelsi.it

mercoledì 24 luglio 2013

Intervista Prof. Bernd Lucke, leader del partito anti-euro AfD della Germania...


Open Europe Berlino ha pubblicato sul suo blog una intervista esclusiva con il professor Bernd Lucke - fondatore e leader del nuovo partito anti-euro Alternativa für Deutschland (AfD).
Abbiamo tradotto alcuni dei punti più interessanti.

Riguardo il tema dei difetti di progettazione della Unione Monetaria Europea (EMU) ... Bernd Lucke dice (BL):

 La radice di tutti i mali è, a mio giudizio, il fatto che i trattati europei non prevedono, e non forniscono, la possibilità di ritirarsi dalla zona euro ... Da quando è nato [l'euro] questa istanza è stata esclusa a priori, e la possibilità di esercitare pressione politica sugli Stati membri è anch'essa limitata. [...] Nonostante lo sviluppo economico non sostenibile in alcuni paesi, i mercati finanziari, ovviamente, hanno ignorato le grandi differenze [tra i paesi della zona euro], che hanno colpito il rischio di default credit. 
A loro volta, i bassi tassi di interesse hanno 'finanziato' questi sviluppi. 
In realtà, il campanello d'allarme avrebbe dovuto suonare in considerazione dei diversi andamenti dei tassi di inflazione specifici per paese, dei costi unitari del lavoro e delle bilance commerciali. Inoltre, le bolle immobiliari in Irlanda o la Spagna avrebbero dovuto essere riconosciute e contrastate dai politici.
Tuttavia, i sistemi di allarme non erano disponibili. 
Si è rilevato pertanto come l'EMU è stata mal concepita sotto tutti gli aspetti.

Sul ruolo della BCE nella crisi ... 

BL: La BCE non ha direttamente la colpa, perché era semplicemente una parte del sistema dell'euro mal costruito... Nel periodo prima della crisi, la BCE avrebbe potuto essere accusata al massimo per non aver sottolineato i pericoli associati ai differenti tassi di inflazione creatisi nei paesi euro ... solo un appunto: una banca centrale indipendente è una cosa buona. Ma una banca centrale - come la BCE - che non è più soggetta a nessuno stato e al controllo democratico, e adesso passata in modalità di auto-conservazione è estremamente pericolosa. 

Sull'utilizzo di strumenti come l'ESM e OMT per stabilizzare la zona euro ... 

BL: L' ESM è in definitiva un gigantesco eurobond istituzionalizzato, e quindi una forma di mutualizzazione del debito ... Quello che vogliamo come AfD è ... il ritorno ai parametri di Maastricht, e in particolare la reintroduzione e il rigoroso rispetto della clausola di no-bailout . Nessun paese è responsabile per i debiti di altri paesi ... I paesi dovrebbero e sarebbero dovuti andare in bancarotta, e ciò avrebbe ridotto i livelli di debito in parte insopportabili. 

Su come AfD vede una rottura della zona euro... 

BL: In qualità di 'misura immediata' , chiediamo il conseguente rispetto delle [esistenti] norme dei trattati europei, nonché l'aggiunta di una clausola di euro-uscita tra le regole. 
Se necessario, vogliamo forzare il diritto dell'uscita utilizzando lo strumento di blocco dei futuri prestiti del MES grazie ad un veto tedesco. 
Così senza ulteriori prestiti di assistenza, i paesi in crisi deciderebbero che è nel loro interesse uscire dall' Unione monetaria. Questo dovrebbe avvenire in modo ordinato e graduale. Sul piano giuridico, i trattati europei devono essere cambiati. Abbiamo i parlamenti e i governi per questo. E la Germania ha un peso sufficiente per spingere su questo.

Leggendo l'intervista è chiaro che i Tedeschi sono sempre Tedeschi e pensano sempre al bene del loro paese (a differenza nostra), infatti l'ultima domanda non lascia spazio ad interpretazioni, loro comandano , loro non fanno beneficenza alcuna e piloteranno loro l'uscita di chi ritengono non sia più in grado di sostenere la loro leadership.Voi come la pensate?

martedì 23 luglio 2013

Nel casino di Detroit?.. Degli stupidi tedeschi di Düsseldorf





Chi non ricorda una delle pietre miliari degli ultimi anni scritte da Icebergfinanza, ovvero DATEMI UNA LEVA E…VI DISTRUGGERO’ IL MONDO unico e primo blogin Italia da aver mostrato in tempi non certo sospett,i la fragilità e responsabilità delle banche tedesche in questa crisi europea…

Quello che le loro banche hanno fatto con i soldi dei tedeschi tra il 2003 e il 2008 non sarebbe mai stato possibile farlo in Germania, perché non c’era nessuno ad abboccare e prendere a prestito tutti questi soldi come facevano in California o in Grecia. Hanno perso ingenti somme dal 2003 in tutto ciò che hanno fatto fuori dalla Germania.(…) non erano bravi a farlo come quelli di New York, che avevano inventato tutti questi strumenti finanziari complicatissimi e facevano questo gioco da almeno trent’anni “. E’ stato come mettersi improvvisamente a giocare a poker grosse somme con dei giocatori professionisti. Il risultato era prevedibile alla fine.

Ma ascoltate ora perchè viene il bello di tutto ciò che sta accadendo…

(…) un punto di vista sulla crisi del debito europeo e la crisi greca, è che si tratti di un tentativo elaborato dal governo tedesco per conto delle sue banche per ottenere indietro i loro soldi senza richiamare l’attenzione su ciò che stanno facendo.
Il governo tedesco dà i soldi al fondo di salvataggio dell’Unione europea in modo che possa dare i soldi al governo irlandese in modo che il governo irlandese può dare indietro denaro alle banche irlandesi così le banche irlandesi possono rimborsare i loro prestiti alle banche tedesche.

“Stanno giocando a biliardo”, dice Enderlein. “Il modo più semplice per farlo sarebbe quello di dare i soldi tedeschi alle banche tedesche e lasciare che le banche irlandesi o greche fallissero.”

(…) Commerzbank stata la prima banca privata che il governo tedesco ha dovuto salvare durante la crisi finanziaria, con una iniezione di $ 25 miliardi (…) Quando Morgan Stanley ha progettato alcuni estremamente complicati credit-default swap, tutti costruiti perchè fallissero, cioè in modo che i trader di Morgan Stanley potessero scommettere contro di loro, i principali acquirenti erano tedeschi.

Quando quelli di Goldman Sachs hanno aiutato John Paulson, fund manager di fondi hedge a costruire dei bonds contro poi scommettere andando short, dei bonds che Paulson sperava e contava andassero in default, il compratore dall’altro lato era una banca tedesca chiamata IKB. IKB, insieme ad un altro idiota famoso al tavolo da poker di Wall Street chiamato WestLB, ha sede a Düsseldorf, è per questo che, quando si chiede ad uno astuto Wall Street trader di obbligazioni e derivati esotici chi stava comprando tutto questa spazzatura (” *** ” in inglese di Wall Street) durante il boom, in genere si dice semplicemente “Degli stupidi tedeschi di Düsseldorf”.

(…) Erano ancora li a comprare quando il mercato si è schiantato. “Entro la metà del 2007 ogni azienda di Wall Street, non solo Goldman Sachs, si rese conto che il mercato subprime stava crollando, e ha cercato freneticamente di uscire dalle loro posizioni.

Gli acquirenti rimasti, gli ultimi in tutto il mondo, diverse persone a Wall Street mi hanno detto, sono stati questi tedeschi volontariamente ignari di quello che c’era sotto a questi derivati. L’unica cosa che ha fatto smettere a IKB di perdere anche più di $ 15 miliardi sui mutui subprime statunitensi è che il mercato cessato di funzionare.
Nessuna sorpresa per noi sia ben chiaro, ma all’improvviso…Germany’s Hypo RE Bad Bank Holds $200M In Detroit Debt e ancora …European Banks Brace for Losses on Detroit.

La tedesca Hypo Real Estate Holding, nazionalizzata nel pieno dell’ultima crisi finanziaria, è tra i creditori non protetti di Detroit. La bad bank dell’istituto chiamata FMS Wertmanagement e messa a punto come parte del suo salvataggio conta circa 200 milioni di dollari di bond ‘made in Detroit’. Lo ha confermato un portavoce del gruppo. Non è chiaro come Hypo si sia ritrovata in portafoglio tali titoli a debito. Non è chiaro quali altre banche europee siano esposte a Detroit.

La tedesca Commerzbank ha asset legati alle finanze pubbliche americane per 4,5 miliardi di euro. Come riferisce Dow Jones, la banca si è trincerata dietro un no comment in merito all’esposizione a Detroit. Altri gruppi tra cui la francese Societe Generale e l’inglese Lloyds Banking hanno dichiarato di non avere a bilancio obbligazioni di Detroit. Secondo un gestore sentito dall’agenzia stampa, negli Stati Uniti non manca chi vuole comprare debito non garantito dalle banche europee. L’idea è che queste ultime si vogliano liberare di tali asset per pochi centesimi per ogni dollaro investito. Ma quegli asset potrebbero riprendere valore se il Chapter 9 darà i risultati sperati. (America 24 ) 

Quello che affascina più di tutto è che il sindaco di Detroit ha dichiarato al Wall Street Journal che almeno altre 100 città americane sono nella stessa situazione, probabilmente siamo tra i primi, siamo la città più grande, ma non sarà assolutamente l’ultima.

Interessante qui sotto la dinamica in corso in alcune principali città americane, città fantasma…


Ma quali saranno mai le banche infarcite dell’ennesima meraviglia americana i cosiddetti muni bonds…


Il 50 % erano nel primo trimestre 2012 investitori individuali, il 25 % mutual fund…

Comunque sia a noi interessa poco, mica è sistemico il debito di Detroit, ma mai una volta che una banca italiana sia stata trovata a trafficare con queste perle americane, mai una, ma che facevano, le belle addormentate nel bosco subprime?

Scherzi a parte quanto sta accadendo a Detroit sarà interessante osservare come finirà la ristrutturazione del debito, la quale non mancherà di avere un riflesso su un mercato, quello delle obbligazioni municipali che ormai sfiora i 4 trilioni di dollari … approximately $3.7 trillion municipal bond market … non certo noccioline!

Tornando a noi, sempre loro, solo loro, le voragini tedesche con la banca intorno, quelli che gli americani chiamano gli idioti di Dusseldorf …

Affascinante no, chissà quando l’Europa avrà cessato di esistere, forse gli idioti con la banca intorno smetteranno di richiedere indietro i loro soldi, investimenti spazzatura, impieghi e crediti concessi in ogni orgia speculativa che ha attraversato l’Europa.

Buona Consapevolezza e mi raccomando non ditelo in giro, non vorrei mai che sembri l’ennesimo gomblottoooooo.

Il filo rosso che unisce Detroit con Atene

Il default dichiarato dalla città di Detroit (18 miliardi di dollari) è l’ennesima figurazione dei danni provocati dalla finanza “deregolamentata” (correa la politica), la stessa che ha causato il crack 2007-2008 e che ha contribuito a smascherare la vera natura dell’euro e di questa Europa, mettendo in ginocchio l’economia europea.

La libertà di circolazione dei capitali, sotto forma di prestiti indiscriminati, ha spinto i paesi (o le città, come nel caso di Detroit) e i loro governanti a prostrarsi di fronte agli afflussi di denaro prima e merci poi, salvo poi dover rendere conto quando la situazione è diventata insostenibile.

Non si tratta di etica, i mercati operano anche in base ai vincoli imposti o, per contro, alle libertà di cui usufruiscono; il capitalismo si fonda sul debito, questo è universalmente accettato, ma quando diventa danno perché in se nutre il secondo fine (che può essere il mero profitto come il controllo di altri paesi) ecco che rivela il suo pericolo ed ecco che le istituzioni dovrebbero (devono) intervenire.

Non è accettabile che uno stato come la Grecia sia relegato a paese di terza fascia perché gli viene sollecitato di onorare un debito sconsiderato (colpa del debitore) offerto da un paese approfittatore (colpa del creditore).
I parametri dell’Unione Europea sono ormai insostenibili per la maggior parte dei paesi che hanno adottato la moneta unica, il rapporto deficit/PIL è in costante aumento perché l’economia non riparte e si soffocano investimenti e futuro nel nome di un meccanismo che ormai ha mostrato il suo lato oscuro e porterà solo a un ulteriore ampliamento dei danni; il primo passo da fare, per l’Italia e gli altri paesi periferici alla Germania, è quello di ridiscutere i trattati, rivedere le proprie posizioni, riavvicinarsi alla possibilità di riacquistare quella sovranità che è stata svenduta a poco prezzo, per qualche spicciolo di euro.

Il futuro dell’Europa e della sua stabilità sociale dipenderà solo ed esclusivamente dalla capacità che avranno i partiti di maggioranza nei vari stati di riportare il proprio paese al centro del dibattito, riportare l’Europa a una dimensione di collaborazione internazionale e scambio commerciale ma che rispetta l’identità e le Costituzioni dei suoi membri, e non le fa a pezzi ponendosi come faro guida ed entità sovranazionale per inseguire il sogno di profitto tedesco.

Andrea Visconti

L’Euro Versa Sangue Italiano

Riporto qui il manifesto che spiega le ragioni dello striscione fatto volare domenica mattina sulle spiagge italiane dal coraggioso e battagliero Giuseppe Trucco, con cui ho avuto l'onore di collaborare come correttrice di bozze. Una voce che si leva sull'Italia e si fa sentire con tutti i mezzi: diffondiamola






Una bellissima immagine di Marco Cacciatore.



Oggi, domenica 21 luglio, un velivolo farà volare questo slogan (“l’euro versa sangue italiano”) su di uno striscione sui litorali di Marche, Romagna e Veneto.



Per chi ha cercato lo slogan su un motore di ricerca e ha trovato questo articolo, spiego qui le ragioni della mia iniziativa, dedicata al ricordo di Marco Cacciatore di Meda, un giovane di 26 anni disoccupato che si è sparato alla testa per la disperazione. Si fa presto a spiegare le mie ragioni: quando si assiste ad un reato è un dovere morale denunciare chi lo ha commesso, io credo di poter denunciare l’euro come colpevole di induzione al suicidio di Marco Cacciatore, cui è dedicata questa iniziativa, e di molti altri disoccupati.



Cercherò anche di dimostrare la “mia” tesi, secondo cui esiste un legame tra l’adozione dell’euro in Italia e l’aumento della disoccupazione, oltre che il fallimento di tante imprese. Fattori, questi ultimi, che portano alla disperazione di molti lavoratori disoccupati e imprenditori falliti. Purtroppo le statistiche ci dicono che alcune di queste vittime innocenti non riescono a superare questo trauma e si tolgono la vita, come ha fatto Marco. Per questo ho parlato di sangue versato, del sangue di italiani innocenti indotti al suicidio. Ma non è solo quello dei suicidi il sangue, è anche quello dei bambini che non possono nascere. Chi riesce a sopravvivere alla disoccupazione o al fallimento della sua azienda, avrà comunque la vita distrutta (fino a che non riesce a trovare un nuovo lavoro o avviare una nuova attività), la disoccupazione giovanile impedisce a persone che potrebbero farsi una famiglia, di diventare genitori mettendo al mondo dei figli. Anche perché se in una coppia di giovani pure c’è uno che lavora, per effetto della deflazione dei salari unita alla precarietà dovuta alle “riforme del lavoro” tese a far diventare il Paese più competitivo, queste giovani coppie non possono neppure ottenere un mutuo per comprare la prima casa, figurarsi programmare la nascita di figli. Non solo l’euro è responsabile di quanto già è accaduto sino ad oggi, ma la situazione continuerà a peggiorare sino a livelli per noi inimmaginabili: Grecia e Spagna, che si trovano già ora nella situazione cui noi saremo condannati a trovarci in futuro, se non saremo usciti dall’euro, hanno raggiunto il 60% di disoccupazione giovanile! Per fortuna la soluzione a questo problema è possibile: occorre uscire dall’unione monetaria (non dall’Europa, solo dall’euro). Chi cerca di farci credere che questo epilogo sia impossibile, chi fa del terrorismo su questo scenario, chi rema a favore di un prolungamento della sesta fase del ciclo di Frenkel in Italia, ha una gravissima responsabilità, si sta macchiando del sangue di tanti italiani innocenti. Dopo tutto l’euro non è una persona, è solo uno strumento di morte, è chi ha la paternità politica della sua adozione e del suo mantenimento il vero assassino, ma per evitare querele è meglio che io mi fermi qui.

Se la prossima raccolta di fondi per far volare nuovamente lo striscione ad agosto avrà buon esito (tornate sul sito nei prossimi giorni per ricevere informazioni oppure scrivetemi all’indirizzo info@truccofinanza.it per esprimere sin da ora la vostra disponibilità a sostenere l’iniziativa con una donazione), ripeterò il volo a ferragosto, data in cui era originariamente programmato (poi, per via di una promozione imperdibile, ho scelto di anticipare anche a luglio, benché non avessi ancora pronto il “manifesto” anti-euro definitivo). Potete sostenere questa battaglia anche senza donare, semplicemente aiutando a divulgare questa denuncia segnalandola a quante più persone possibile.



Per comprendere bene il rapporto di causalità tra moneta unica e declino della nostra economia, da cui deriva il drastico aumento della disoccupazione, sarebbe meglio per voi se vi documentaste bene leggendo un libro dedicato all’argomento quale “Il tramonto dell’euro” del professor Bagnai, economista italiano che sta dedicando tutte le sue energie a combattere questa battaglia, anche attraverso un blog dai contenuti gratuiti. Nella speranza che lo facciate, mi voglio comunque cimentare in un articolo divulgativo rivolto a tutti per cercare di spiegare in breve questa tremenda crisi in cui ci troviamo. Spero di essere chiaro.


Non vorrei annoiarvi troppo con delle nozioni di economia, purtroppo però è necessario. Ma cercherò di farla breve. Per capire come stanno le cose vi debbo parlare del ciclo di Frenkel (trovate le spiegazioni di questo ciclo su internet e ne “Il tramonto dell’euro“, pag 134-164, io la farò esageratamente breve, perché questo non è un trattato di economia). Ogniqualvolta nella storia una nazione in via di sviluppo ha agganciato la sua moneta a quella di una nazione con una economia più forte, e nel contempo ha liberalizzato la circolazione dei capitali, tutte le volte si è verificata una concatenazione di eventi che va sotto il nome di ciclo di Frenkel, dal nome dell’economista che l’ha teorizzata, che ha portato a spiacevoli conseguenze per il Paese che si è agganciato alla valuta forte. Adottando l’euro, la cui emissione è centralizzata e sottratta alla iniziativa nazionale, “l’Italia e gli altri Paesi PIIGS si sono ridotti al rango di paesi emergenti che devono prendere in prestito una moneta straniera” (citazione dal Nobel Krugman), ed il ciclo di Frenkel si è applica dunque anche a noi. Con una aggravante: che il meccanismo della moneta unica rallenta il processo o addirittura lo blocca nella fase sei, la fase deleteria, come vedremo tra poco. Ma andiamo con ordine. Un Paese che aderisce al cambio fisso con una valuta piùforte della propria, liberalizza i mercati finanziari interni ed i flussi di capitali dall’estero, sta entrando in un ciclo di Frenkel. Se al cambio fisso sostituiamo la moneta unica, erede diretta del marco tedesco, moneta più forte della nostra lira, il discorso non cambia di molto (se non per la maggiore difficoltà a uscire dalla fase sei).




Nelle fasi iniziali del ciclo ha luogo un’enorme flusso di capitali esteri dai paesi più forti (ove i tassi sono più bassi) verso i paesi più deboli (a inflazione e tassi leggermente superiori quindi più remunerativi), determinando così un forte indebitamento estero sia pubblico che, soprattutto, privato (frutto di una concessione eccessiva di credito). Questo credito facile favorisce il surriscaldamento dell’economia e l’inflazione nei paesi periferici e determina un aumento delle importazioni che va di pari passo con una riduzione delle esportazioni (perché le loro merci diventano via via meno competitive). Da parte sua la Germania comprime i salari e tiene bassa l’inflazione, realizzando nei fatti una svalutazione competitiva (i suoi prezzi relativi restano più bassi); senza quella correzione che il mercato normalmente realizza con il riallinemento del cambio (in questo caso senza moneta unica si avrebbe avuto un apprezzamento del marco e un deprezzamento delle altre valute) il surplus tedesco ed il deficit dei PIIGS nel saldo dei conti con l’estero diventano strutturali. E così la bolla del debito estero si gonfia sempre di più. Ma a metà del ciclo, quando l’eccessivo gonfiarsi della bolla del debito estero minaccia di scoppiare, di solito un evento catalizzatore provoca un brusco dietro-front (nel nostro caso la crisi dei subprime dagli USA), i creditori esteri ed i mercati che si scoprono all’improvviso troppo esposti iniziano a temere per il rientro dei loro investimenti, e si ha un deflusso netto di capitali. Da qui lo spread che abbiamo imparato a conoscere: il tasso di interesse sui debiti pubblici e privati si incrementa sensibilmente (incorporando i rischi di controparte ma anche di svalutazione, che il mercato è abile a prevedere, intuendo l’insostenibilità del cambio fisso o dell’unione monetaria) e si determina un credit crunch (stretta creditizia), sia dovuta alla sfiducia delle banche straniere a prestare, che alla difficoltà delle banche locali. Qui inizia l’inferno, la diabolica fase sei del ciclo in cui siamo ormai intrappolati da tempo: si entra in recessione e poi in depressione economica, il governo che non sa far di meglio è costretto ad adottare politiche di austerità pro-cicliche che acuiscono la crisi, riducendo la spesa pubblica e quindi anche i redditi privati che ne derivano. I tassi di interesse elevati scoraggiano gli investimenti produttivi, lo stato alza le tasse e magari non paga i debiti verso le imprese, le aziende devono tagliare i costi, alcune chiudono, alcune si trasferiscono, alcune falliscono, fallendo si trascinano dietro anche le aziende e le banche loro creditrici, lo Stato è costretto ad intervenire e subito dopo deve tagliare la spesa e applicare nuove tasse perché non può aumentare il proprio deficit. Ma il calo di consumi e spesa privata fanno comunque crollare le entrate fiscali e quindi il debito pubblico diventa ingestibile e costringe lo stato a nuovi tagli. Ovvie le implicazioni sull’occupazione, che inizia a calare drasticamente e costantemente. I mercati, che sono meno irrazionali di quanto si creda, sono i primi a comprendere che questo circolo vizioso non può che portare all’insolvenza se non si corre subito alla fase sette, e rendono la situazione ancora più insostenibile con la loro azione speculativa che accelera l’aumento dei tassi di interesse. Ma proprio grazie all’azione dei mercati (che fanno velocemente esaurire le riserve di valuta pregiata della banca centrale del paese emergente fino a che questa si ostina a difendere il cambio fisso), per i Paesi a valuta sovrana che si erano agganciati ad un’altra valuta, la fase sei si consuma velocemente e la nazione è costretta ad abbandonare il cambio fisso e svalutare, cioè passare alla settima ed ultima fase dei ciclo di Frenkel (come fece ad esempio l’Italia ai tempi della lira, quando fu costretta ad uscire dallo SME).


Al contrario, la situazione dei paesi PIIGS dentro l’eurozona, ora che non hanno più una loro moneta sovrana, è terribilmente più pericolosa e apparentemente senza uscita. Passare alla fase sette del ciclo di Frenkel, soprattutto per un Paese come l’Italia con fondamentali economici relativamente forti (l’Italia infatti, non dimentichiamolo, è in avanzo primario nei suoi conti pubblici), permetterebbe infatti di avere una forte propulsione grazie alla svalutazione, e riportare velocemente l’economia sulla carreggiata della crescita. L’euro invece crea i presupposti perché una nazione possa incancrenirsi nella depressione economica molto più a lungo (basti pensare alla Grecia), rispetto ad una “normale” fase sei, per varie ragioni, non solo perché priva i mercati finanziari della possibilità di obbligare lo sganciamento del cambio, ma anche perchè è più complicato (ma per fortuna non impossibile), riconquistare la sovranità monetaria e tornare ad una propria moneta nazionale, e poi per via del meccanismo infernale Target 2 con cui in teoria si può alimentare – tramite la BCE – quasi all’infinito, un indebitamento estero illimitato. E allora che succede? Accade che non potendo svalutare le lire (o la dracma, l’escudo, la peseta, la sterlina irlandese) che ormai non esistono più, i mercati svalutano tutte le altre attività finanziarie italiane, a partire ovviamente dai titoli di stato, fino ad arrivare alle azioni delle aziende quotate, che divengono facili prede dei creditori esteri (e tanti “gioielli di famiglia”, se ci si sofferma nella fase sei, passeranno in mani straniere).



Molti dei fattori citati sopra (aziende che chiudono o licenziano, stato che riduce il pubblico impiego) non fanno che abbassare i livelli occupazionali, e questa accresciuta disoccupazione, purtroppo, è funzionale alla strategia suicida di deflazione interna per riconquistare la competitività rimanendo nell’euro, e consente di evitare il più a lungo possibile di passare alla fase sette, ovvero al ripristino del cambio fluttuante e della sovranità monetaria. Livelli elevati di disoccupazione infatti sono utili a far calare i salari (come spiega la curva di Phillips): infatti se aumenta l’offerta di lavoro (per via del maggior numero di disoccupati) scende il suo “prezzo”, cioè il livello dei salari. Questo mentre l’emergenza finaziaria permette di derogare alle regole della democrazia e di smantellare diritti dei lavoratori acquisiti in decenni in poche settimane. Ma può questa strada della “deflazione interna”, per quanto dolorosa, riportare un Paese come l’Italia sul sentiero della crescita? No, serve soltanto a prolungare quasi all’infinito la fase sei del ciclo di Frenkel! Perché se anche fosse che una maggiore disoccupazione e minori salari possano far calare l’inflazione e recuperare competitività verso la Germania (perché è vero anche che la competitività non dipende solo dal costo dal lavoro, ma anche da investimenti in ricerca e sviluppo), al tempo stesso essi contribuiscono, insieme alle politiche di austerità fatte dal Governo (con tasse portate a livelli demenziali come quelle italiane), a far crollare la domanda interna e deprimere l’economia, con l’effetto paradossale di far crescere invece che diminuire il rapporto debito/Pil (sia debito pubblico che privato), che così diventa vieppiù insostenibile. Prova ne è che la situazione di un Paese come la Grecia, da più tempo e con maggior forza avviata su questo sentiero, non fa che peggiorare, con livelli di disoccupazione totale e giovanile, arrivati a livelli del 27% e del 60% rispettivamente! Anche la Lettonia, che ha tentato la strada della “svalutazione interna” (cioè l’abbassamento dei salari) nel 2007, ha avuto come risultato un crollo del PIL superiore al 20%!

La sola soluzione ai problemi dei paesi PIIGS (a meno che l’Europa diventasse una unione fiscale come lo Stato italiano, dove la Germania ed i Paesi del Nord Europa accettassero di redistribuire centinaia di miliardi di euro ai paesi periferici, cosa impensabilee forse nemmeno desiderabile), è quella di sfondare la porta ed uscire dall’euro. Questo scenario, su cui viene fatto un inaccettabile terrorismo, pone problematiche tecniche non indifferenti, ma tutte risolvibili (se ne sono occupati in particolare economisti quali Roger Bootle e Jacques Sapir, oltre ai nostri Alberto Bagnai e Claudio Borghi Aquilini). Qualunque exit strategy certamente ha anche dei costi (uscire dall’euro non sarà indolore come non esserci mai entrati, la scelta intelligente fatta da Gran Bretagna ed altre nazioni europee), ma se vi informerete su questo aspetto, di cui oggi non ho tempo di parlarvi, scoprirete che sono costi di gran lunga inferiori a quello che certi media vorrebbero farvi credere, e di gran lunga meno sanguinosi dei costi della permanenza nella moneta unica, anche ammettendo che sia possibile restare a tempo indeterminato dentro questa unione monetaria.



Il prezzo di non voler vedere questa soluzione e di continuare ancora a lungo a pagare questi costi, è la condanna di molti italiani ad avere la vita distrutta da una depressione economica senza fine.



Il prezzo è la svendita della nostra democrazia rimpiazzata dal regime di viscidi euro-burocrati che nessuno ha mai eletto (e degli economisti prezzolati loro complici), cui lasciare decidere la sorte dei cittadini italiani, un tempo popolo sovrano.



Il prezzo è la distruzione o la svendita all’estero delle imprese italiane, facendo terra bruciata e colonizzata del nostro invidiabile tessuto produttivo e manifatturiero.


Il prezzo è quello di condannare milioni di lavoratori italiani a salari da fame e lavoro precario, e altri milioni alla disoccupazione più odiosa, quella di chi sa che non ha speranza di ritrovare un lavoro, nonché condannare l’Italia ad un vertiginoso calo demografico.

Il prezzo è continuare a versare il sangue di tanti innocenti come Marco Cacciatore, e lasciare che il loro sangue sia stato versato invano.



Se avete letto questa denuncia e la condividete, per favore cercate di divulgarla il più possibile nella vostra cerchia di conoscenze.


Ringraziamenti

Vi rubo solo più pochi istanti per i ringraziamenti. Vorrei ringraziare Marco Cacciatore per avermi dato l’ispirazione (Dio, quanto vorrei che non me la avesse data e che fosse ancora tra noi) ed avermi costretto a ripetere l’iniziativa degli striscioni volanti contro l’euro, benché io sappia che è una forma di lotta molto poco efficace (ma non sapevo cosa altro potevo fare?). Se qualche suo familiare stesse leggendo colgo l’occasione per esprimergli le mie condoglianze. Ringrazio i patrioti che hanno contribuito a finanziare una parte dei costi del volo di oggi e tutti coloro che contribuiranno a finanziare il volo di ferragosto (se siete tra questi scrivetemi a info@truccofinanza.it per esprimere la disponibilità a versare, indicando anche quale cifra), saranno elencati i nomi di chi accetterà di apparire in un futuro articolo, c’è spazio anche per degli sponsor commerciali (scrivere allo stesso indirizzo di sopra per info). Ringrazio gli attivisti che non hanno potuto contribuire per impossibilità di natura economica ma faranno del loro meglio per diffondere questa iniziativa. Ringrazio Carmen Gallus, editrice dell’ottimo sito web Voci dall’estero, per aver sacrificato una domenica di sole a correggere ed ottimizzare la bozza di questo piccolo manifesto anti-euro. Ringrazio i giornalisti o i conduttori di trasmissioni televisive di contenuto politico economico che vorranno intervistarmi (naturalmente gratis, oppure versando un contributo per il prossimo volo, io non voglio che qualcuno possa anche solo pensare che combatto questa battaglia per intascare qualcosa) e darmi la possibilità di diffondere questa denuncia (tra pochi giorni avrò il materiale video del volo che posso mettere a disposizione per la realizzazione di servizi). Ringrazio tutti i politici che vorranno sostenere questa lotta nelle sedi istituzionali e mi metto a a loro disposizione a titolo completamente gratuito per fornire tutte le informazioni che posso (ma sappiate che non sono un economista accademico). Ringrazio la compagnia Aertraining Lavoro Aereo per aver fatto delle condizioni di particolare favore per il servizio. Con l’aiuto di persone come voi e con il vostro impegno in questa battaglia, forse l’Italia ha una speranza.

lunedì 22 luglio 2013

Le pillole rosse - 4° pillola: il debito pubblico e la crisi

Alla fine della pillola precedente ci eravamo lasciati con un interrogativo: come mai dopo il 2007 il debito pubblico risale repentinamente, anche se la spesa per interessi è diminuita? Riporto il grafico:

Fonte: goofynomics

come si vede il debito è in fase calante dal 1996 fino al 2007 e poi risale dal 2008 bruscamente tornando ai picchi massimi del 1995, ed attualmente attestandosi al 128% del PIL. Cosa è successo nel 2007?
Nel 2007 scoppia la bolla dei c.d. subprime e soprattutto nel settembre 2008 fallisce la Lehman Brothers; il mercato finanziario va in panico e le banche in tutto il mondo occidentale che si sono riempite di derivati e con i profitti di essi hanno investito troppo e male accusano perdite pesantissime. Il sistema bancario rischia il collasso e per salvare l'economia, che senza banche si dissolverebbe, gli Stati europei, Germania in testa, intervengono con iniezioni di denaro pubblico per coprire le perdite o sostenere la liquidità: nei primi mesi successivi solo in Germania vengono aiutate Sachsen LB, West LB, IKB e Hypo Real Estate holding; altre banche vengono aiutate attraverso fondi di garanzia delle obbligazioni emesse per rifinanziarsi e successivamente attraverso il meccanismo europeo di salvataggio (ESF), che oltretutto redistribuisce l'onere in capo a tutti gli Stati aderenti all'eurozona.
Ma nei Stati periferici dell'Europa accade anche qualcos'altro. L'avvento della moneta unica, e l'eliminazione del rischio di cambio che essa comporta, favorisce l'afflusso di denaro al loro interno per investimenti che sfruttano il differenziale di remunerazione che ancora esiste, per quanto ridotto. Infatti, nonostante l'adozione dell'euro, una pur minima differenza di inflazione continua ad esserci fra Stati europei e quindi un costo del denaro diverso. Qui lo vediamo:

Fonte: goofynomics

 Questo afflusso, che proviene da Paesi con economie più mature e con surplus da investire, come gli Stati del Nord Europa e la Francia ha inizialmente un effetto benefico, in quanto stimola e facilita gli investimenti produttivi e fa accelerare le economie che crescono, crescono i redditi, crescono pure le entrate dello Stato e di conseguenza il rapporto debito/PIL si riduce. Ma quando crescono le economie sale anche

venerdì 19 luglio 2013

Jacques Sapir: meglio svalutare l'euro o il suo scioglimento?

La svalutazione dell'euro sarebbe sufficiente alla ripresa?Da questo studio di Sapir risulta che sarebbe accettabile per la Francia, ma non risolverebbe nulla per gli altri paesi periferici. L'ipotesi migliore per tutti resta lo scioglimento.

La tesi di un possibile deprezzamento dell'Euro ha ancora dei sostenitori in Europa. E' vero che sulla carta unisce i benefici di una svalutazione (di cui si riconosce il crescente bisogno [1]) e della conservazione dell'Euro (per il quale molti hanno un attaccamento che giudico irrazionale). E' vero che le indagini dell'INSEE hanno da tempo stabilito che la rivalutazione dell'euro ha avuto un impatto negativo sull'economia francese. [2] Uno studio di Natixis ha analizzato questo scenario nei primi mesi del 2012. [3]

Deprezzamento dell'euro e tassi di integrazione dei paesi dell'eurozona

Dobbiamo prima specificare come accadrebbe. Supponiamo che la Banca centrale europea decida di acquistare più di un terzo del debito italiano, spagnolo e portoghese. Si supererebbero i 1.000 miliardi già immessi nell'economia, cosa che potrebbe causare uno shock iniziale. Se la BCE si impegnasse a rimborsare degli eurobond (ammesso che possano essere emessi) per un importo da 400 a 500 miliardi di dollari l'anno per un periodo da 3 a 5 anni, si può supporre che questo avrebbe un effetto negativo sul tasso di cambio dell'euro rispetto alle altre valute e in primo luogo al dollaro degli Stati Uniti. Tuttavia, non è chiaro se la BCE e i governi tedesco, austriaco e finlandese potrebbero accettare una soluzione del genere.

Inoltre, questo gioverebbe ai paesi membri solo nella misura in cuiuna grande parte del loro commercio avvenga al di fuori della zona euro. E' il problema del tasso di integrazione nell'eurozona. Va ricordato che la moneta unica avrebbe dovuto provocare una forte integrazione commerciale dei paesi aderenti. Da questo punto di vista, è bene ricordare la tabella riportata nel mio libro Faut-il Sortir de l’Euro ? che è stato pubblicato nel gennaio 2012 da Seuil.

Quota di commercio in Euro


Esportazioni
Importazioni
Media
Slovenia
86,9%
82,8%
84,9%
Italia
74,9%
70,2%
72,6%
Slovacchia
73,9%
60,1%
67,0%
Spagna
60,8%
60,3%
60,6%
Germania
63,0%
55,2%
59,1%
Portogallo
54,6%
60,2%
57,4%
Belgio
55,3%
57,0%
56,2%
Francia
52,4%
45,1%
48,8%
Grecia
47,3%
39,6%
43,5
 Sapir J., Faut-il Sortir de l’Euro, Paris, Le Seuil, 2012, p. 79.


Queste cifre sono cambiate leggermente nel 2012, ma rappresentano le tendenze del commercio internazionale per i paesi membri della zona euro. E' subito evidente che le differenze nel tasso di integrazione sono importanti, anche per i paesi di dimensioni comparabili. L'Italia è sopra il 70% e la Spagna al 60%, mentre la Francia sta circa al 49/50%. Questo ha evidenti implicazioni per i potenziali effetti di un deprezzamento dell'euro in opposizione allo scenario di una sua dissoluzione.

Gli effetti di un deprezzamento dell'Euro

La questione è stata ripetuta diverse volte nel corso del dibattito che ho avuto con Jean-Luc Mélenchon giovedi, 4 July 2013. [4] Quindi torniamoci un po' su, con l'aiuto del modello utilizzato per la preparazione dello studio di prossima pubblicazione della Fondazione Res-Publica.

In primo luogo diamo uno sguardo alle conseguenze negative della svalutazione, o l'impatto sull'inflazione.

Figura 1
Si possono constatare due cose. In primo luogo, l'inflazione iniziale è più bassa in Francia che negli altri paesi, compresa la Germania. Ha perfettamente senso, sia in termini di elasticità di prezzo che per quel che riguarda la quota di energia delle importazioni, relativamente più bassa in Francia che nei paesi vicini. Poi, se la Germania ritorna rapidamente a una inflazione pari a zero, non è questo il caso per la Spagna e il Portogallo, la cui inflazione è sempre superiore a quella della Francia, o per l'Italia, il cui tasso di inflazione converge con quella della Francia solo alla fine del periodo. Questo ha un impatto immediato sul tasso di cambio reale implicito nell'Euro. Infatti, se il tasso di cambio nominale non può muoversi (dal momento che è fissato nel contesto della moneta unica), non accade lo stesso con il tasso di cambio reale, che è il tasso di cambio nominale corretto della differenza tra l'inflazione del paese e quella dei suoi principali partner commerciali.

Figura 2 
Dato il tasso di inflazione degli Stati Uniti (e degli altri partner commerciali non euro), il tasso di cambio reale (o a prezzi costanti) inizia a salire poi cade quando l' inflazione nei paesi considerati scende al di sotto dell'inflazione dei loro partner. Ma il vantaggio della Francia è evidente, in particolare in relazione ai paesi del Sud Europa, che accumulano gli effetti di una inflazione più forte che nel nostro paese e in Germania. La competitività di prezzo di questi paesi si deteriora ampiamente e logicamente la bilancia commerciale accumula un deficit importante, costringendoli a reagire. Ma supponiamo che questa reazione non abbia luogo e guardiamo l'impatto diretto sulla crescita di questo deprezzamento dell'euro.

Figura 3
Per quanto riguarda gli effetti diretti della svalutazione (esclusi gli effetti indotti sui guadagni di gettito fiscale), si vede che due paesi sono effettivamente avvantaggiati, la Francia e la Grecia. La Germania arriva subito dopo, come è logico data l'importanza del suo settore industriale. In effetti, la Germania potrebbe trovare in questo deprezzamento un contrappeso al deprezzamento dello yen, dato che il Giappone e la Germania sono concorrenti diretti in molti mercati. Per contro, per i paesi del "Sud", il bilancio della svalutazione è molto meno interessante. Ora, se includiamo nella tabella la necessità di compensare lo squilibrio di competitività che si è visto che è importante, questi paesi dovranno ridurre ancora di più la domanda interna e l'impatto di questo declino sulla crescita, dati i valori molto elevati del moltiplicatore della spesa pubblica (stimata in 1,7 per la Spagna e 2,2 per l'Italia), annullerebbe gli effetti positivi del deprezzamento dell'euro.

Se ora confrontiamo gli effetti di 5 anni di deprezzamento dell'Euro con gli effetti di uno scioglimento, nel caso della Francia si vede che il risultato (che qui include gli effetti indiretti del tasso di crescita) è molto meno interessante.

Figura 4
Nella figura 4 l'ipotesi di un semplice deprezzamento dell'euro è rappresentata nella traiettoria H4. La dissoluzione ordinata (con delle svalutazioni del 20% per la Francia, 25% in Italia, 30% per la Spagna e il 40% in Portogallo) è rappresentata con H1. La traiettoria H2 simula una spaccatura nella zona euro in 2, con un Euro Nord (Germania, Austria, Finlandia e Paesi Bassi) e un Euro Sud (Francia, Spagna, Italia, Portogallo, Belgio). Questa ipotesi è anche caratterizzata da movimenti di inflazione che la rendono non molto plausibile. [5] Il percorso H3 rappresenta il caso di una dissoluzione disordinata dell'Eurozona, con dei tassi di svalutazione maggiori che in H1 e una forte rivalutazione della Germania. Lo scarto tra la traiettoria H4 e le altre tre è significativo.

In conclusione, l'ipotesi di un deprezzamento dell'Euro è accettabile per la Francia e la Germania, ma disastroso per i paesi del Sud Europa. In un certo senso, per questi paesi è anche peggio dell'ipotesi di una scissione dell'Euro in due aree, di cui si è detto che probabilmente non sarebbe sopportabile per questi paesi, a causa dell'inflazione e dei movimenti del tasso di cambio reale (e quindi della competitività). Quindi i governanti dei paesi del Sud Europa (Spagna, Italia, Portogallo) dovrebbero avere delle tendenze suicide per sostenere una simile politica, una volta presa la decisione di rompere con l'attuale status quo. Se consideriamo importante il futuro del Sud Europa (e questo è un punto su cui ci siamo trovati d'accordo con Mélenchon nel dibattito del 4 luglio), l'unica soluzione ragionevole è quella di lottare per una completa dissoluzione della zona euro.

[1] Artus P., « Dévaluer en cas de besoin avait beaucoup d’avantages », Flash-Économie, Natixis, n°365, 26 mai 2012.
[2] F. Cachia, "Gli effetti della rivalutazione dell'euro sull'economia francese," nel sommario della INSEE, INSEE, Parigi, 20 giugno 2008.
[3] Artus P. (red.), « De combien faudrait-il dévaluer les monnaies des pays en difficulté de la zone euro ? », Flash-Économie, Natixis, n°47, 17 janvier 2012.
[4] La trasmissione può essere vista suhttp://www.arretsurimages.net/contenu.php?id=5976
[5] Si prega di fare riferimento allo studio della Fondazione Res-Publica che sarà pubblicato a fine luglio.

giovedì 18 luglio 2013

Introduzione di "L'euriasmo ci condannerà"

Pubblico l'introduzione ad un breve ebook in fase di ultimazione che dopo l'estate renderò disponibile sul mio blog e su Democrazia e Sovranità.

"Capire la natura di questa crisi economica, deflagrata nel 2007 ma covata da un decennio e tuttora presente, è di fondamentale importanza per interpretare correttamente le informazioni che ogni giorni ci pervengono, seppur con reticenza, dai mezzi di comunicazione. Capire la vera natura della moneta unica, l’euro, che tanti benefici doveva portare e che si è dimostrata, come ampiamente previsto, uno strumento di vantaggio dei forti (come la Germania) verso i deboli (Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda, Slovenia, Cipro) o verso i concorrenti temibili (Italia soprattutto ma anche Francia).

Dobbiamo soffermarci subito sul concetto politico dell’euro perché è questa la sua vera natura; la necessità di accrescere la propria economia, consumata da un decennio di spesa pubblica, ha portato la politica tedesca a essere detentrice del destino dell’Europa, aggregando nazioni diverse per economia, cultura, politiche sociali, contributive e delle pensioni, oltre che educative sotto la bandiera del “più Europa”, slogan molto in voga ancora oggi; il bisogno di paesi che si sentono “inferiori” di poter partecipare al gioco ha contribuito a spingere economie deboli ad agganciarsi ad una moneta troppo forte che se in una prima fase ha contribuito ad espandere (ma principalmente dal lato del debito privato, come vedremo) nella seconda parte ha portato, come nei più classici casi da ciclo di Frenkel, ad un collasso dell’economia del paese sotto il peso della sussistenza e strozzate dal meccanismo del finanziamento sui mercati, attraverso l’emissione di titoli di Stato, che ha comportato un aumento dei tassi d’interesse che in regime di cambio fisso non possono essere sostenuti quando l’economia si aggrava in seguito ad uno shock (la bolla finanziaria americana e il fallimento della più grande banca d’investimento, la Lehmann).

Se proprio volessimo la "vera" Europa la BCE dovrebbe essere così.

Il seguente articolo non rappresenta la linea editoriale del blog, che ricordiamo è per l'abolizione dell'Euro e per il ritorno alla sovranità monetaria, ma rappresenta un'idea di integrazione europea secondo una revisione radicale di tipo Federale ad ispirazione Statunitense.
Riteniamo sia giusto che vengano divulgati e discussi anche argomenti che non rappresentino le nostre idee quando espressi con cognizione di causa e argomentati con intelligenza.

 di Michael Burda, Professor of Economics at Humboldt University Berlin and CEPR Research Fellow
15 luglio 2013
Traduzione: La Scarpetta di Venere

Le banche centrali nazionali dell’Eurozona sono portatrici di un rischio di prospettiva nazionale che politicizza la linea di condotta monetaria dell'ECB. Questo articolo sostiene che questo sia un rischio significativo che deve essere superato con una revisione radicale dell'Eurosistema. Un elemento centrale sarebbe quello di eliminare il carattere 'nazionale' delle banche centrali della EZ (Eurozona). Come per la Fed le banche regionali statunitensi comprendono più di uno stato degli Stati Uniti, così anche per le banche centrali dell'area EZ la competenza dovrebbe essere ridisegnata secondo linee di geografia economica, piuttosto che in base a linee di carattere nazionale. Ecco qui un esempio di una tale proposta.

L'unione monetaria è stata sempre una grande scommessa. Fu istituita la BCE per una regione immensa che in sé non era uno stato - un istituzione transeuropea con mansioni governative che non rappresenta nessun governo in particolare.

I padri fondatori dell'euro non anticiparono tutte le conseguenze derivanti da questa peculiarità. In effetti, ogni espansione della zona euro ha portato ad un allargamento automatico del Consiglio della BCE, senza tener conto della maggiore complessità della governance e delle politiche monetarie, comprese le condizioni di finanziamento per i governi o di rifinanziamento delle banche commerciali private. Per superare questi problemi di governance profondi, è necessaria una revisione fondamentale dell'Eurosistema. Un elemento centrale di questa riforma deve essere una ridefinizione dei confini delle banche centrali che costituiscono la BCE.

In un'unione monetaria, gli interessi nazionali possono divergere nel tempo dagli interessi di aree regionali. Gli economisti hanno messo in guardia fin dall'inizio del progetto euro che una politica monetaria unica è una fonte di rischio, soprattutto quando è necessario un aggiustamento e la svalutazione non è più possibile. Gli aggiustamenti in un'unione monetaria sono dolorosi - come gli sviluppi nei Paesi della periferia europea rendono molto chiaro - quindi è fondamentale innanzitutto evitare l'insorgere di tali disallineamenti. Nonostante questi avvertimenti, i politici europei hanno insistito su un sistema con difetti fondamentali.

Una politica monetaria comune deve essere formulata al di sopra e al di là dei singoli interessi nazionali. Ma poichè le banche centrali nazionali della zona euro possono influenzare la politica monetaria della BCE - in realtà sono la BCE - rappresentano anche una fonte di rischio significativo.

Un esempio è la loro riluttanza ben riconosciuta ad imporre "haircut" sul valore delle garanzie utilizzate dalle banche private degli Stati membri per finanziare le loro attività di prestito.

Questo è uno dei pochi freni naturali al debito pubblico, soprattutto quando è guidato da una politica fiscale sconsiderata. In questo senso, la BCE avrebbe dovuto applicare la logica del freno molto prima, quando è apparso chiaro già a metà degli anni 2000 che i paesi dell'Europa meridionale stavano perdendo competitività e i governi non agivano per limitare la spesa nazionale.

Nella norma le banche greche, per fare un esempio, avrebbe dovuto affrontare questo vincolo nel 2003-4, quando il loro governo e il settore privato erano già sovraesposti. Una restrizione dei flussi di credito per le banche greche e altri finanziatori allora avrebbe rallentato la domanda aggregata e il deterioramento della competitività che stava già emergendo. La politica unica dei tassi di interesse voluta dall'allora presidente Trichet ha inviato esattamente il segnale sbagliato ai mercati.

Una volta che i mercati si sono avveduti di quello che stava succedendo, i governi che in precedenza erano stati in grado di finanziarsi alle stesse condizioni della Germania, hanno visto un drastico peggioramento della loro competitività. A quel punto, era ormai troppo tardi. Dopo l’aggiustamento, la BCE è stata così occupata a puntellare la salute finanziaria del sistema nel suo complesso che non è stata in grado di applicare pesanti haircuts per ogni singolo Paese, anche se i ratings governativi, i rendimenti obbligazionari e la disponibilità di credito da allora si sono differenziati in modo significativo.

In breve, la ri-politicizzazione della politica monetaria attraverso le banche centrali nazionali rappresenta un rischio significativo per l'ulteriore integrazione economica e per una politica monetaria e creditizia neutrale nell’Eurozona. 

Come risolvere il sistema

Il rimedio logico è una riprogettazione della BCE in una struttura mutuabile dalla Federal Reserve System degli Stati Uniti (Figura 1). Le Federal Reserve Banks regionali rappresentano ampi tratti di territorio che vanno oltre i confini dei singoli Stati Uniti e talvolta li dividono anche.

Problemi della bilancia dei pagamenti e disallineamenti di competitività tra i distretti della Federal Reserve si verificano, ma sono apolitici e immuni dalle pressioni delle legislazioni statali.
Hanno poco o nulla a che fare con le finanze dei singoli Stati, e un piano di salvataggio statale attraverso una Reserve Bank regionale non è un'opzione.

Figura 1 . I dodici distretti della Federal Reserve System

Il fatto che 49 Stati USA hanno emanato restrizioni costituzionali sul finanziamento del disavanzo della spesa corrente implica che questa politica di non-salvataggio è credibile. 
La figura 2 presenta un esempio di ripartizione dell'autorità monetaria della zona euro sulla falsariga di quella amministrativa regionale già esistente UE (NUTS- 2) . Questo ridisegno della BCE, che taglia intenzionalmente le frontiere nazionali dei paesi più grandi, aiuterebbe a ristabilire una allocazione neutrale e politicamente indipendente di moneta e credito.
Il numero dei membri del Consiglio che rappresentano i distretti potrebbe essere basato su popolazione o PIL.
Gli organi di governo della nuova BCE potrebbero ricevere legittimazione democratica del Parlamento europeo, su designazione delle autorità nazionali.

Figura 2 . Una proposta di ripartizione dell'Eurozona

Invece di essere penalizzati, i paesi più piccoli potrebbero beneficiare di una riduzione dell’egemonia naturale degli Stati membri più grandi. L'eredità dello status quo difettoso - il target-2-conti su bilanci delle banche centrali nazionali - potrebbe essere suddivisa equamente per i nuovi quartieri della BCE su base proporzionale secondo NUTS-2, popolazione o quote del PIL, e perderebbe immediatamente la caratteristica politica.

L'eliminazione delle influenze nazionali di politica monetaria aumenterebbe l'efficienza e la funzionalità della unione monetaria. Un quadro neutrale basato sul mercato, per l'allocazione del credito della banca centrale alle banche membri è essenziale per un’unione bancaria funzionante. Regole haircut rigorose per BCE, banca di rifinanziamento sulla base del merito creditizio imporrà ai paesi membri di applicare di più la disciplina per le finanze nazionali, consentendo un ritorno credibile al principio no-salvataggi del Trattato europeo. L'esplosione degli squilibri dei saldi target-2 nel corso degli ultimi cinque anni, sarebbe stato impedito da un'applicazione equilibrata di garanzie e limitazioni di leva dal principio, allineando i tassi di interesse locali con squilibri di finanziamento così come sarebbero state contrastate le bolle incipienti in Irlanda e in Spagna. Salvataggi nazionali orientati come il rifinanziamento delle operazioni a lungo termine e i programmi di transazioni monetarie aperte sarebbero diventati una cosa del passato. Quindi sarebbe palese la lobbying di banca centrale nazionale - come abbiamo visto nel caso della Bundesbank - contro le misure putative e indipendenti di politica monetaria attuate della BCE.

Osservazioni conclusive

Questo prossimo passo sarà il più difficile lungo il percorso di integrazione europea sarà anche un impegno ancora maggiore per il progetto della moneta unica - un vero e proprio passaggio del Rubicone. Eppure, per assicurare il futuro sostenibile di una politica monetaria veramente indipendente e neutrale - e nell'interesse del mandato di lungo periodo di stabilità dei prezzi della BCE - è indispensabile. Senza passi credibili verso la de-politicizzazione della politica monetaria, è improbabile che l'euro nella sua forma attuale, sarà in grado di resistere a shocks macroeconomici negli anni a venire.