sabato 29 dicembre 2012

Per quelli che hanno rotto il c...o con la Germania: M’ha detto mi cuggino...

Riportiamo uno stralcio di un articolo scritto dal Prof. Alberto Bagnai  sulle errate convinzioni riguardanti le riforme della Germania che anche noi dovremmo copiare.
Vi lasciamo alla lettura sperando finalmente di poter chiudere la questione su questo esterofilismo becero che governa il popolo italiano:

Devo occuparmi dell’argomento “mi’ cuggino”. Eh sì, perché quando si arriva a questo punto, quando si fa notare che la Germania ha praticato fin dal secondo dopoguerra una politica di deflazione competitiva, salta sempre fuori qualcuno che, come nella canzone di Elio, se ne esce con: “m’ha detto mi’ cuggino che alla Volkswagen stanno meglio che alla Fiat”. Se non l’ha detto “mi’ cuggino” l’ha detto “un amico che lavora lì”, se non è un amico è un giornale, uno di quei giornali che vi hanno informati così bene finora, e continuano a farlo, con professionalità e indipendenza (da voi) seconde solo a quelle delle banche centrali.

L’argomento “del cuggino” è che il “netto in busta” sarebbe più alto in Germania, il che rende assurdo sostenere che la Germania faccia competizione sui salari, cioè tramite una “svalutazione interna” competitiva. Argomento sposato da un’altra mia affezionata lettrice, Dana74Cara, carissima, adorabile Dana74:


Mi piaci. Penso che leggendo questi 
miei versi tuoi, non mi comprenderesti, 
ed a me piace chi non mi comprende.
(Gozzano, La signorina Felicita)

Vediamo insieme cosa non comprende (in my humble opinion) Dana, e in che cosa l’argumentum ad cugginum è fallace.



I dati che mi’ cuggino non conosce... (ma basta chiedere)
Una cosa credo di aver capito studiando l’economia: se si è disposti a saltabeccare dal livello dell’analisi economica a quello dell’aneddoto, dal ritaglio di giornale ai database dell’OCSE, dalla sociologia alla statistica economica, si può dimostrare tutto, e il suo contrario. A me qui interessa il livello macroeconomico (gli aneddoti ben vengano nei commenti) e mi interessano i dati provenienti dalle fonti ufficiali, che come al solito vi fornirò.
Con questa premessa, faccio alcune ovvie considerazioni.

1. La Germania non è la Volkswagen, come l’Italia non è la Fiat. Tutti gli aneddoti sono utili, ma alla fine il risultato complessivo va valutato in termini complessivi. Ad esempio: saranno tutti così felici i lavoratori dell’indotto? Ma non voglio indurvi a raccontare altri aneddoti. Voglio guardare all'aggregato.

2. Nell’aggregato i salari reali tedeschi, dal changeover in poi, sono diminuiti, mentre quelli italiani sono rimasti stazionari. Il dato è ampiamente noto (tranne che in Italia), e ampiamente ammesso dall’establishment tedesco, che, per bocca di Roland Berger, consulente della Merkel, ammette che la ricetta del successo tedesco sta nella "liberalizzazione" del mercato del lavoro e in aumenti dei salari reali inferiori a quelli della produttivitàChe poi significa aumenti dei profitti superiori a quelli della produttività (a meno che lo scarto non venga dato in beneficenza). E i risultati si vedono, sono nei dati. Guardate la Fig. 1:


Si vede benissimo che dal 2003 al 2009 i salari reali tedeschi (cioè i salari corretti per la variazione del costo della vita) sono diminuiti del 6%. Quelli italiani dello 0%. Siccome c’è sempre qualche ingenuo che arrivato a questo punto mi accusa di complottismo e vuole vedere la “smoking gun”, faccio notare che è proprio il consulente della Merkel a dire che questa è una delle due cause del successo tedesco (l’altra essendo la “liberalizzazione” del mercato del lavoro). Quindi non è complottismo: è una precisa, univoca, dichiarata, esplicita intenzione politica che si riflette nei dati.
Ora io mi chiedo, e soprattutto lo chiedo a Dana74: lo dicono i dati, lo dicono i responsabili della politica tedesca: occorre altro per capire che la Germania fa competizione sui salari (cioè pratica una “svalutazione interna” o deflazione competitiva)? Evidentemente a te sì. E allora mi arrendo. Hai vinto.

3: "Ma io sto meglio in Germania che in Italia, dice un altro mio carissimo lettore. Nel senso che hai più soldi in busta paga. Giusto. Solo che all’imprenditore non interessa quanto dà a te, ma quanto gli costi, e le due cose sono diverse. In mezzo c’è il cuneo fiscale. Il costo del lavoro non è il netto in busta, e questo voi, che a differenza di me siete uomini pratici, lo capite meglio di me: ci sono di mezzo contributi e tasse. Quindi c’è ovviamente anche un problema di sistema fiscale, e ovviamente un enorme freno alla competitività italiana è posto dall’iniquità italiana, cioè dal fatto, talmente macroscopico che lo vedo anch’io, che sul lavoro dipendente cade il maggiore onere fiscale. E poi: sei sicuro di comprare a Brema lo stesso paniere di beni che compri a Viterbo? Perché tu ci hai detto che guadagni di più, ma... non ci hai detto quanto costa un chilo di pane, quanto spendi per il biglietto dell’autobus, ecc. Siamo sicuri che in Germania la vita costi di meno? L’OCSE tanto sicura non lo è. Se convertiamo i redditi unitari da lavoro dipendente (diciamo, il salario medio al lordo delle tasse) in una comune unità di misura, vediamo che a parità di potere d’acquisto i salari nominale tedeschi e italiani sono perfettamente allineati. Anzi: prima del changeover, cioè prima dell’operazione 1000 lire = 1 euro, la vita in Italia costava sensibilmente di meno, tant’è che a parità di potere d’acquisto i nostri salari erano superiori. Lo si vede bene nella Fig. 2:


Vedete che bel "tuffo" fra 2002 e 2003? Ma naturalmente è solo un problema di percezione. Lo abbiamo percepito noi, e l'OCSE. Il governo (Berlusconi) e i suoi apparati (Istat ecc.) un po' di meno. "Noi veggiam come quei c'ha mala luce...". Anche gli uffici statistici, forse, vedono meglio a distanza. E il tempo, comunque, è galantuomo.

4: il mio lettore dichiara di essere rimasto allibito quando il suo capo (Führer) ha licenziato una sua collega dall’oggi al domani. Caro lettore, hai capito come stanno le cose? Lo sai come si chiama questo? Si chiama liberalizzazione del mercato del lavoro. Che poi sarebbe un eufemismo per disoccupazione. Perché la diminuzione del salari reali vista in Fig. 1 non è stata ottenuta con la moral suasion: è stata ottenuta con la minaccia dei licenziamenti e delle delocalizzazioni, e imponendo un tasso di disoccupazione in alcuni anni fino a 3 punti più alto che in Italia (per citare un esempio). Non credi a me? Hai, come ognuno di noi, me compreso, un lato Dana? E allora guardati i dati della Banca Mondiale:

Vedi come decolla la disoccupazione nel 2003, l'anno che Berger indica come anno della "riscossa", delle "riforme" tedesche? Ma io so che tu lo sai...
La morale della favola (ma non ditela a mi’ cuggino...)
Chiedo scusa per la lunga parentesi. Vorrei non fosse necessaria, e soprattutto vorrei non fosse inutile. Temo sarà l’uno e l’altro. Continuo quindi lasciando Dana74 al suo sbigottimento (“e lo mperché non sanno”) e rivolgendomi agli happy few.
Riassumo: la Germania pratica una svalutazione interna competitiva che realizza comprimendo i diritti dei lavoratori, e pretende che noi adottiamo questo modello. Lo fa perché così possiamo competere con lei? No. Lo fa perché i suoi imprenditori vogliono trovare da noi, una volta acquistate le nostre aziende, le stesse condizioni di “liberalizzazione” (leggi: licenziamenti facili e compressione dei salari reali) che gli hanno garantito elevati profitti a casa loro. L’invito alla “virtù alamanna” è ovviamente “pro domo sua” (cioè loro): “buono fantolino, a tu piace voli vola...” dalla finestra, se chiedi l’aumento all’imprenditore alamanno.

Fateci caso: in questa ottica (e solo in questa ottica) l’insistenza del governo sull’art. 18 acquista una logica che altrimenti non avrebbe. Sappiamo che esso non interessa alle aziende italiane.  E allora perché interessa tanto al governo degli italiani? Semplice: perché sopprimere l’art. 18 interessa alle aziende tedesche (che ce lo hanno chiesto per interposta Bce). E infatti Berlusconi è stato “sostituito” non appena si è capito che non ce l’avrebbe fatta a imporsi su questo punto. Tu mi intendi, vero, Marino?

Obiezioni inutili
Qualcuno potrebbe obiettare: ma se le politiche di austerità compromettono la redditività, gli imprenditori esteri che affare ci fanno? E la risposta è abbastanza ovvia: intanto, quello che si perde in traino della domanda sul nostro mercati, lo si guadagna in compressione dei salari. Ma il punto è un altro: chi ha detto che gli imprenditori esteri siano interessati alnostro mercato? Sono interessati alla nostra eccellenza manifatturiera, che ha mercato nel mondo. Il nostro destino è quello di diventare una gigantesca “fabbrica cacciavite”, una specie di “Cina” europea, dove gli imprenditori del Nord vengono a produrre per riesportare, approfittando dei bassi salari e dei bassi diritti. Direte allora: ma la Cina ci ha guadagnato! Certo: ma il processo lo ha gestito lei, con regole sulla corporate governance, sul trasferimento di tecnologia, sui requisiti occupazionali, sui contenuti nazionali minimi, ecc. Noi invece lo stiamo subendo. Direte ancora: ma comunque gli investitori esteri porteranno crescita, che alla fine è quello che ci serve. Rispondo: certo! Come in Irlanda. Porteranno crescita, e riporteranno all’estero i profitti realizzati, dando un’ulteriore spinta in discesa all’indebitamento estero(secondo quanto ho spiegato qui).

Lasciate perdere... o anche no: non lasciate perdere: parliamone: decenni e decenni di disinformazione non possono non aver lasciato scorie. Depuriamoci insieme. L'acqua della salute è meglio di quella del Letè, che mi sembra tutti stiano bevendo a garganella!

Concludendo
In Italia, a sinistra, va per la maggiore una certa esterofilia un po’ provinciale e un po’ autolesionista, alla Tafazzi. Anche chi intuisce che l’ideologia del vincolo esterno ha creato più problemi economici di quanti ne abbia risolti, anche chi non si nasconde la gravità del furto di democrazia che essa ha determinato, insiste ad autoflagellarsi: ce lo meritiamo, perché non siamo bravi come i tedeschi! I tedeschi ci confessano che in realtà la loro bravura consiste solo nel comprimere salari e diritti, ma i nostri Tafazzi non possono crederci. Confessio regina probationum, ma non per loro. Questi ingenui, che vivono nel “mito della razza ariana”, sono poi quelli che appena arrivano all’estero cercano, come Totò e Peppino, un ristorante italiano, preferendo un pessimo piatto di spaghetti a un’ottima Flammkuchen (salvo poi lamentarsi che gli spaghetti erano scotti... e grazie!).

Ma come non capirli? Trovare all’estero le cose di casa è indubbiamente rassicurante, soprattutto per personalità non sufficientemente strutturate. Flaiano, che era di Pescara (terra di spaghetti alla chitarra), definiva non a caso l’Italia una Matria (chi per la Matria muor vissuto è assai). E quando penso ai miei studenti di Pescara, che adoro e rispetto (e loro lo sanno), capisco benissimo quanto la chitarrina della mamma (in senso gastronomico ed edipico) abbia parte nella loro feroce determinazione di non studiare le lingue (ma una cosa la sanno dire: mannàggement – management). E io a dirgli: “non ascoltate me, studiate l’inglese, andatevene”. Ma il campo gravitazionale della chitarrina, anche di quella ai frutti di mare, è invincibile (amor omnia vincit).

Ma questo non è solo un vizio (se è un vizio) italiano: lo condividono anche i nostri “cuggini” tedeschi. I quali in fondo vorrebbero solo trovare qui, da noi, dopo che ci avranno comprato, le cose di casa. Un desiderio innocente: quasi modo geniti infantes. E non mi riferisco tanto alla fragrante Flammkuchen della mamma... quanto alla rassicurante e  familiarmente alamanna possibilità di licenziare in tronco i lavoratori che eventualmente desiderassero appropriarsi in busta paga di una parte degli incrementi di produttività.

Del resto, ci mancherebbe altro che fosse difficile licenziare in Italia quegli italiani che è così facile licenziare in Germania! Non per questo ab
biamo (chi?) fatto l'Europa!

Reddito minimo o minimi salariali? Il caso tedesco


schroeder
Con le riforme Hartz implementate dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder, il mercato del lavoro tedesco è profondamente cambiato: i lavori a tempo pieno e indeterminato hanno lasciato via via il posto a forme di impiego precarie e sottopagate, integrate dall’assistenza pubblica. Materia su cui riflettere attentamente anche in Italia quando si parla di “reddito minimo garantito” dallo stato e non di minimo salariale imposto per legge ai datori di lavoro. Da Voci dalla Germania


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Krisenvorsorge.com e jjahnke.net ci ricordano le dimensioni della politica di moderazione salariale tedesca e i suoi effetti sociali.
Secondo quanto comunicato da Eurostat il 20 dicembre 2012, la Germania con il 22.2 % ha la quota più alta di lavoratori con un basso salario di tutta l’Europa occidentale. In Francia sono solo il 6.1 %, nei paesi scandinavi fra il 2.5 % e il 7.7 % mentre la media dell’Eurozona è del 14.8 %.
La precaria situazione dei lavoratori tedeschi è confermata anche dai dati sui lavoratori a basso salario con un’istruzione media. E’ evidente che non si tratta solo di un fenomeno legato alla bassa istruzione.
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Il rifiuto da parte del governo di introdurre un salario minimo [cioè un minimo sotto il quale nessun datore di lavoro può assumere un lavoratore, da non confondere con il "reddito minimo garantito"], presente in altri paesi occidentali [non in Italia], la crescita del settore del lavoro in affitto, caratterizzato da precarietà e bassi salari, lo sfruttamento del lavoro femminile, grazie alla più grande differenza in Europa occidentale fra il salario femminile e maschile, la disponibilità del governo a sovvenzionare i bassi salari con i sussidi Hartz IV, sono tutte parti di uno scandalo sociale che non ha eguali in altri paesi europei.
In questo scenario non c’è da meravigliarsi, se il costo del lavoro per unità di prodotto, decisivo per la competitività, ha avuto uno sviluppo decisamente migliore rispetto ai nostri vicini europei. La Germania non ha alcun motivo di esserne orgogliosa, come il governo vorrebbe dare ad intendere.
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La Germania si è allontanata da ciò che un tempo si definiva economia sociale di mercato. Insieme alla Cina è diventata il Pariah dell’economia mondiale: compete in maniera sleale con i suoi partner, rubando posti di lavoro fino a quando questi non saranno costretti a elemosinare gli aiuti finanziari tedeschi. Fino a 20 anni fa una simile situazione sarebbe stata impensabile. La divisione della Germania e la paura del comunismo costringevano il capitalismo tedesco ad avere un maggiore orientamento sociale.

lunedì 24 dicembre 2012

ITALIA: MAI RISCHIATO IL FALLIMENTO!

Una premessa prima di leggere questo post è assolutamente fondamentale!
Come ho scritto in questi mesi la crisi in Italia era sostanzialmente una crisi di fiducia e non di solvibilità, una crisi di fiducia alimentata  da una convergenza di interessi che mirava a destabilizzare il nostro Paese, per puntare allo disfacimento di un’unione europea le cui fondamenta erano costruite sulla sabbia di una grande illusione.
Senza l’intervento della Banca Centrale Europea, oggi non esisterebbe più l’euro e non ci sono Monti o Merkel che tengano, nell’inganno politico e finanziario di questa crisi. Questa Europa non ha alcun futuro, un’Europa costruita su squilibri ed egoismi nazionali come gli stessi protagonisti hanno ammesso.
Sarebbe interessante osservare quale giornale italiano oggi avrebbe il coraggio di mettere in prima pagina una simile notizia, certificata dalla Commissione sulla sostenibilità dei debiti pubblici europea! Nessuno, sono tutti pagati per servire un padrone, non importa quale!
Chi vi racconta delle sostenibilità di questo progetto,  è semplicemente un ipocrita! Deflazione salariale, svalutazione interna,riforme selvagge, austerità e attacco allo Stato sociale, svendita del patrimonio statale e tagli ad una spesa pubblica tra le più basse d’Europa,  sono la sintesi del grande inganno!
“Tredici mesi fa l’Italia si è trovata in condizioni finanziarie molto molto difficili: oggi se guardiamo ai rapporti della Commissione e delle altre istituzioni possiamo dire di essere stati promossi. Il costo è stato che non c’è stata crescita, ma chiedo come sarebbe stato possibile salvare l’Italia da un destino greco …
Mario Monti sarà anche un bravo ragazzo ma con questa storia del destino greco sta diventando semplicemente ridicolo!


Detto questo, come i lettori ben ricordano ho trascorso gli ultimi mesi a raccontare e condividere la sostenibilità del debito pubblico italiano nonostante il Paese pullulasse di pseudo economisti e analisti che prevedevano il fallimento sempre e comunque in ogni occasione.
Ora tutti scoprono che i fondi salvastati sono serviti a salvare le banche tedesche, francesi ed inglesi, ora tutti comprendono perchè non è stato possibile salvare la Grecia bombardata dalla speculazione politica e finanziaria.
Affascina osservare quotidianamente gli stessi soloni, politici, economisti e professorini vari che riempiono rete e televisioni, dibattiti noiosi e vanitosi e ipocriti, quanto basta, riciclandosi agli occhi di un popolo che ad essere buoni è perlomeno ingenuo, un popolo che si beve ormai qualunque intruglio, qualunque porzione magica, pur di continuare a vivere nell’immaginario del paese delle meraviglie.
La verità è sempre più figlia del tempo…

Il rapporto della Commissione europea sulla sostenibilità del debito dei Paesi d el l ’Unione fa giustizia di molti luoghi comuni, offrendoci un quadro inaspettato del nostro Paese. Contrariamente a quanto ci era stato raccontato, l’Italia non è mai stata veramente in pericolo fallimento. Dal 2009 e ancor di più nel 2010 e 2011 l’Italia si è tenuta ben al disotto del valore critico di pericolo, mentre la Gran Bretagna era nettamente al di sopra nel 2009, e la Spagna lo è stata nel 2009 e nel 2012.
Nel 2009 erano a rischio ben quattordici Paesi dell’Unione e nel 2010 sei Paesi, che superavano la soglia di 0,4 dell’i n di c a to r e di sostenibilità elaborato dalla Commissione. Quanto alle previsioni, nel breve temine sarebbero a rischio solo Spagna e Cipro, mentre gli altri paesi, compresa l’Italia, non lo sono.
Nel medio termine, il rischio dell’Italia sarebbe medio ed equiparato addirittura a Paesi considerati primi della classe come Finlandia e Francia, mentre ad alto rischio sarebbero Paesi come Belgio e Regno Unito. A basso rischio sarebbe la sola Germania. Ancora più sorprendenti sono le previsioni di lungo termine, allorché il rischio italiano viene giudicato basso ed allo stesso livello di Germania e Francia.
Altri Paesi, come Belgio e Lussemburgo, vengono giudicati ad alto rischio, mentre Olanda, Austria, Finlandia, e Regno Unito a medio rischio. La Commissione prende spunto dalle previsioni di medio e lungo termine peggiorative per la gran parte dei Paesi d el l ’Unione e dell’area euro, per motivare la necessità di implementare controriforme nel campo del mercato del lavoro e soprattutto pensionistico e sanitario.

Al di là della situazione del debito e dei singoli Paesi, l’obiettivo generale è la ristrutturazione dei rapporti sociali a livello continentale. Sono i salariati europei nel complesso, sebbene con diversità nazionali, ad essere colpiti dalle linee guida europee. Del resto, la tanto decantata Germania, ha fatto da apripista, ad esempio sul piano del mercato del lavoro, introducendo pochi anni fa i cosiddetti minijob, il lavoro part-time e precario con salario ridotto, che fa apparire il tasso di disoccupazione più basso che nella realtà.
Ad ogni modo, il default non cessa di essere usato dalla Commissione come spauracchio contro l’Italia, invitata a mantenere saldi primari di bilancio al livello di quelli attuali. Il che significa rastrellare decine di miliardi all’anno e nessun deragliamento dalle politiche di Monti, il cui successore è avvertito.

La verità, però, è che le politiche di rigore non erano giustificate, perché l’Italia non è mai stata in procinto di cadere in alcun baratro.
E tantomeno avevano senso imposte e tagli sociali che hanno colpito selettivamente i lavoratori salariati.
Certamente fra i meno titolati a fare i difensori dei cittadini italiani sono Berlusconi e Tremonti, visto che sono stati i primi ad accettare le politiche di rigore chieste dall’Europa. Fra l’altro Berlusconi, che adesso promette l’eliminazione dell’Imu, dovrebbe ricordare che questa imposta è una invenzione del suo governo. Il rigore, inoltre, è stato a senso unico: è aumentata, da una parte, la povertà e, dall’altra, la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi. Secondo la Banca d’Italia, tra 2008 e 2010, la percentuale di ricchezza posseduta dal dieci per cento più ricco delle famiglie è passato dal 44,7 al 45,9%. Dopo due anni di cure da cavallo, l’Italia, tra i Paesi del vecchio G7, ha il tasso di disoccupazione più alto (11,1%), la maggiore contrazione del Pil (-2,2%) e soprattutto della produzione industriale (- 4,8%), che in Germania è stata del solo – 1,1% e negli Usa è addirittura aumentata al +1,7%.
Certo, l’Italia, grazie soprattutto alle esportazioni e al crollo delle importazioni, ha un deficit delle partite correnti un po’ migliore di molti dei Paesi più avanzati, pari al -1,4% sul Pil contro il – 2,1% della Francia, il -3% degli Usa e il – 3,2% dell’Inghilterra. E può, soprattutto, vantare un deficit più basso (-2,8%) con l’esclusione della sola Germania. Ciononostante, secondo The Economist, paghiamo interessi sul debito (titoli a dieci anni) del 4,46%, mentre la Francia con un deficit al 4,5% paga il 2,01%, l’I n g hi l t e r r a con il 7,9% paga l’1,80%, gli Usa con il 7% pagano l’1,59%, ed il Giappone con il 9,7% paga appena lo 0,72%. La commissione europea si dice preoccupata dall’aumento della spesa delle pensioni e sanitaria e dalla produttività, dovuto all’invecchiamento della popolazione. In realtà, il vero problema è il crollo del tasso di natalità in Europa e specialmente in Italia, l’indicatore forse più significativo della diffusa sensazione di incertezza nel futuro. Sono le stesse politiche europee, basate sull’estensione del lavoro precario, sul taglio ai servizi già insufficienti, in particolare quelli alle donne che lavorano, e su politiche che impediscono gli acquisti di case e innalzano gli affitti, a partire dall’Imu, a generare quella mancanza di fiducia dei giovani italiani che porta all’esaurirsi delle stesse basi vitali della società. Pubblico
Non c’è alcuna fretta, il tempo renderà giustizia al nostro lavoro e forse un giorno il popolo si sbarazzerà definitivamente di un manipolo di parassiti che non solo ha nascosto loro la verità ma addirittura gli ha ingannati con la più subdola e sporca menzogna, continuando l’opera di moralizzazione calvinista!

Detto questo nessuno è escluso da responsabilità, questo popolo si merita la fogna politica che ha alimentato in questi anni.

Fa tenerezza oggi ascoltare una bella addormentata nel bosco della crisi come Zingales professore come tanti made in USA, uno che gira l’Italia moralizzando e cercando di fermare declini vari,  esclamare…
L’aspetto criminale dei fondatori dell’Euro è che tutto questo lo sapevano, e non solo non han fatto nulla, ma anzi l’hanno fatto apposta: la crisi dell’Euro di oggi era inevitabile. Dire che è colpa degli Stati Uniti è una balla: è vero che è stata quella la causa scatenante, ma la crisi era inevitabile. Non fosse successo il patatrac negli Usa sarebbe successo altro. Era una scelta premeditata: “Nel  momento di crisi, ci uniremo di più“, si pensava. Abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo, solo che il corpo è rimasto di qua. Tagli.me
Meglio tardi che mai, piano, piano si stanno svegliano tutti, proprio tutti, tranne gli italiani!
E’ giunto il tempo di dedicarsi ad altro, alla Luce che ogni anno viene ha donarci la Speranza, appuntamento a domani con l’ultima fiaba!

Fonte: http://icebergfinanza.finanza.com/2012/12/20/italia-mai-rischiato-il-fallimento/

domenica 23 dicembre 2012

VIDEO: IL DELIRIO DI PRODI E MONTI SULL'EUROPA



Lo abbiamo già postato in coda ad un precedente post sulla costituzione(che trovate qui) ma vogliamo riproporlo perchè fa capire come questi pazzi Piddini e tecnocrati stanno svendendo la nostra Italia e gli altri paesi periferici in nome della santa Germania...guardatelo e commentate perchè è agghiacciante.


EURO, COSTITUZIONE E IL GIULLARE DI CORTE


Ci avviciniamo alla fine dell’anno (la fine del mondo a quanto pare è stata scongiurata) ed è arrivato il momento di fare i bilanci. Il 2012 è stato un anno pesante da molti punti di vista: sociale, economico, politico, culturale.
L’anno di governo concesso ai tecnici è stato caratterizzato da un inaridimento culturale che ha pochi precedenti nella storia della nostra Repubblica: questo infausto periodo verrà infatti ricordato come l’anno dello spread, ovvero l’anno in cui la grande finanza internazionale per tramite del suo portavoce Mario Monti ha fatto il suo ingresso trionfale sulla scena politica italiana per ribadire il suo ormai trentennale primato rispetto a tutti gli altri valori che dovrebbero caratterizzare la vita di questa Repubblica. 
La coesione sociale innanzitutto, la solidarietà civile e il lavoro, che mai come in quest’anno è stato massacrato, umiliato e relegato al ruolo di rincalzo di interessi privati e spesso stranieri: la disoccupazione deve essere tollerata per tranquillizzare i mercati sulla nostra intenzione a tenere bassi i salari, la flessibilità deve essere aumentata e la contrattazione sindacale ridotta ai minimi termini per invogliare i mercati ad investire in Italia, i licenziamenti devono essere più facili per attirare i capitali dall’estero e il nostro patrimonio aziendale, pubblico e umano deve essere svenduto agli investitori stranieri per consentire a loro di fare profitti e a noi di diventare pura merce di scambio. E difatti mai come in quest’anno gli investitori e gli speculatori esteri hanno esultato per l’operato di un nostro governo. Ed è ovvio che da tutte le testate giornalistiche e sedi istituzionali estere si siano levati cori di giubilo prima e appelli accorati adesso affinché Monti e la sua banda di mercenari continuino nella loro "rigorosa e sobria" opera di spoliazione dell’Italia.

Tuttavia l’evento che più mi ha colpito in questi ultimi giorni è un altro. E’ singolare infatti che proprio alla conclusione di questo anno terribile per l’Italia uno dei giullari del regime infame che da tempo ci tiene sotto scacco, Roberto Benigni, sia stato chiamato in causa per magnificare i valori contenuti nella nostra Costituzione; cercando quasi di nascondere e occultare goffamente con la forza delle suggestioni e dello slancio emotivo le modalità criminali in cui la nostra pregevolissima Carta Universale dei Diritti Umani è stata ormai vilipesa e ridotta a pura carta straccia dagli eurocrati suoi committenti. Ma di cosa si è trattato? Di una burla? Di una beffarda provocazione? Di un palese raggiro? Si sa che i giullari lavorano al servizio dei regnanti di turno (in questo caso il committente principale è stato re Giorgio Napolitano), ma c’è sempre un limite alla decenza. Vi sarete sicuramente accorti che tutto il mellifluo panegirico del giullare di corte pagato a peso d’oro ruotava intorno ad un imbarazzante controsenso induttivo: il fondamento della nostra
Costituzione è il lavoro, la gabbia dell’eurozona in cui ci siamo incastrati non permette di attuare politiche economiche a difesa e tutela del lavoro, quindi la nostra Costituzione non ha più un fondamento, non serve più a niente, tranne che ad essere sbeffeggiata ed esposta al pubblico ludibrio dal primo deficiente che viene pagato per farlo. Ma c’è un altro particolare che rende raccapricciante l’intera messa in scena.


Molti di voi si saranno accorti dell’enfasi con cui il giullare toscano ha concluso in bellezza l’intera carrellata con l’articolo 11 della Costituzione, che effettivamente è uno dei più belli e grandiosi della nostra carta dei diritti e dei doveri: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Benigni, da buon camerata piddino, ha dedotto che la conseguenza immediata di questo articolo sia l’adesione all’Unione Europea e in particolare l’introduzione della moneta unica euro, proponendola come necessario strumento di pace nel nostro continente. Vi risulta che nel passato una qualsiasi guerra sia stata fatta a causa di una moneta? Potreste citarmi un caso che sia uno in cui un re, un imperatore, un dittatore ha mosso guerra ad un altro paese perché adoperava una moneta diversa dalla sua? Non erano forse le ricchezze reali dei paesi conquistati i veri obiettivi dei belligeranti? Dal dopoguerra ad oggi avete mai sentito parlare di avvisaglie di guerra fra gli Stati Uniti e il Canada? Non mi pare. Eppure, secondo il camerata piddino, avendo queste due nazioni monete diverse, dovrebbero essere sempre ai ferri corti e sul piede di guerra. Ovviamente non è così, perché fra Stati Uniti e Canada esiste un preciso “ordinamento” sovranazionale e commerciale, che prescinde dalle monete che utilizzano i due paesi. Gli accordi sono basati su regole puntuali di reciproca convenienza e cooperazione, per facilitare gli scambi e i commerci, mentre la moneta come si sa è un semplice strumento di contabilità e di pagamento che serve a misurare, regolare e bilanciare le quantità di merci scambiate. La Moneta da sola non potrà mai sostituirsi ad un Ordinamento giuridico come quello previsto da una Costituzione, e allo stesso tempo è altamente immorale ed ingiusto che una Costituzione venga limitata e depotenziata a causa dell’adozione di una moneta unica.  


Lo stesso discorso può essere fatto nei confronti dei trattati sovranazionali da noi stipulati dell’Unione Europea, che essendo di carattere mercantile e commerciale, non possono in alcun caso essere confusi con l’“ordinamento” giuridico di diritti e di doveri che è alla base della vita democratica di un popolo. Anche se in effetti i trattati europei contengono norme di collaborazione e cooperazione volte al benessere dei cittadini (come ad esempio la piena occupazione), questi ultimi sono stati però "stranamente" ignorati perché in Europa hanno sempre prevalso gli atteggiamenti competitivi ed aggressivi dei paesi economicamente più forti (la Germania innanzitutto). Noi, in quanto popolo italiano, abbiamo saggiamente o meno, consapevolmente o meno, stipulato degli accordi commerciali con gli altri paesi europei aderendo all’Unione Europea, per facilitare certe pratiche burocratiche ed evitare a monte qualsiasi diatriba o ritorsione di carattere puramente ostruzionistico, protezionistico o finanziario. Tuttavia la pacifica convivenza tra i popoli non è né garantita né promossa da questi trattati, che a volte risultano invece motivo di scontro diplomatico (vedi il brusco rifiuto del Fiscal Compact della Gran Bretagna), ma dalle rispettive Costituzioni che bene o male ripudiano tutte abbastanza esplicitamente le guerre di aggressione. Nel caso specifico della moneta unica, avendo quest’ultima creato squilibri esterni commerciali tra i paesi che ne hanno accettato l’adozione, abbiamo verificato nei mesi precedenti in quale maniera profonda l’euro abbia messo a repentaglio la corretta applicazione delle stesse disposizioni previste nei trattati dell’Unione Europea (non a caso è stato necessario stipulare in fretta e furia nuovi accordi intergovernativi come il Fiscal Compact o il MES, Meccanismo Europeo di Stabilità, per evitare il collasso e la frantumazione dell’intera eurozona) e quindi già solo per questo motivo la moneta unica andrebbe rimossa, per rilanciare un nuovo programma di migliore collaborazione e cooperazione tra i popoli. Ma è davvero questo l’obiettivo di tutti o alcuni paesi membri? E considerando che la moneta unica ha inficiato gravemente “le condizioni di parità” richieste dalla nostra Costituzione per ratificare continue cessioni di sovranità, non sarebbe già solo questo un motivo sufficiente per dichiararla definitivamente illegittima?


Scambiare l’importanza strategica ed esistenziale di un “ordinamento” giuridico costituzionale, che abbia come fondamento i diritti inalienabili dell’uomo e come presupposto la pace con gli altri popoli, con una moneta equivale a mercificare il diritto e a renderlo subalterno a ciò che accade a livello puramente contabile tra i paesi (surplus, deficit, debiti, crediti, bilancia dei pagamenti). Una moneta non può mai sostituirsi ad un qualsiasi principio costituzionale fondamentale, perché la prima è un semplice strumento di contabilità provvisorio che non ha alcuna caratteristica di universalità e immutabilità, mentre il secondo tende a configurarsi come un valore universale e permanente nel tempo: confondere le due cose è come dire che una moneta può in certi casi essere più sovrana di un popolo, della dignità di un uomo e dell’ordinamento istituzionale di uno stato democratico. E ricordiamo che stiamo sempre parlando di una semplice unità di conto, una convenzione, un mezzo di misura: ovvero sarebbe come dire che pur di mantenere il metro o il chilo come unità di misura in due paesi diversi, i rispettivi governanti potrebbero essere un giorno disposti a far morire di fame i loro concittadini. Avete mai sentito parlare di un’assurdità simile? Questo è un errore di leggerezza colossale che solo un camerata piddino, sulla scia della sua innata emotività, superficialità ed inclinazione al sogno, essendo stato indotto da anni a credere che l’Unione Europea sia soltanto una moneta, può fare con tanta disinvoltura. Una persona mediamente più accorta ad interpretare gli eventi, più capace a leggere tra le righe e più abituata a mettere insieme dei semplici numeri, avrà sicuramente capito che dietro la retorica della moneta unica come strumento di pace si nascondono invece dei precisi interessi di casta e di corporazione dei grandi gruppi finanziari e multinazionali che avevano necessità di scaricare tutti i costi di aggiustamento degli squilibri esterni tra paesi sui salari dei lavoratori e di fare transitare enormi quantità di capitali e merci attraverso le frontiere senza incorrere nel rischio di cambio.


Grazie alla compiacenza dei nostri governanti asserviti e funzionali a questi interessi (vedi il video sotto, magistralmente montato dai ragazzi dell’ARS, Associazione Riconquistare la Sovranità, per capire su quali leve puramente psicologiche e demagogiche puntasse da sempre la retorica degli eurocrati) e alla complicità dei camerati piddini, che spesso ingenuamente e altre volte opportunisticamente hanno avvalorato queste logiche contrarie alla loro stessa presunta etica della solidarietà universale, il pastrocchio è stato compiuto e viene continuamente ingigantito. Purtroppo i camerati piddini, come i membri di un qualsiasi gruppo totalitario e chiuso basato sulla fede e il riconoscimento reciproco, mettono in subordine qualsiasi timido approccio critico o tentativo di ragionamento razionale rispetto alle dinamiche di appartenenza al gruppo, alle ragioni della fede, all’assolutezza categorica dei giudizi: “io sono un piddino di sinistra, io sono un uomo giusto, solidale e sognatore, quindi il PD è un partito di sinistra formato da uomini giusti, solidali e sognatori come me”. E ovviamente, sulla base di questo fraintendimento e obnubilamento fideistico, qualsiasi iniziativa portata avanti dal PD, compresa l’accettazione passiva e incondizionata di una moneta unica (come abbiamo detto sopra, imposta dall’alto per motivi tutt’altro che etici e pacifici ma puramente pratici e commerciali, come qualsiasi non piddino ha imparato a capire), è una scelta di sinistra e come tale va abbracciata e sospinta ciecamente con tutta la passione e la forza d’urto necessaria. Anzi, la difesa ad oltranza dell’euro, a dispetto di tutte le evidenze empiriche contrarie e dei dubbi legittimi che dovrebbero attanagliare la coscienza di qualsiasi uomo ragionevole, diventa una dimostrazione ulteriore della propria fede incrollabile al gruppo e al partito di appartenenza. Sappiamo bene che sfruttando questo stesso schema mentale di fanatismo e bigottismo, in passato sono state giustificate le peggiori atrocità della storia dell’uomo, sempre in nome di qualcosa che è superiore ed esterno alla coscienza individuale del singolo uomo e alla sua razionalità: “In nome di Dio, in nome del Re, in nome della Patria, in nome della Legge, in nome del Partito, in nome della Moneta, in nome degli Stati Uniti d’Europa!”. Quando l’illusione prende il posto della ragione e diventa l’unico fattore discriminante delle proprie scelte, l’intera impalcatura giuridica e morale di un’organizzazione è sempre sul punto di collassare, perché se l’illusione non viene utilizzata per rafforzare la ragione ma cerca ostinatamente di sostituirla, allora la nostra stessa coscienza critica e capacità di scelta viene di fatto amputata. E come sappiamo, il sonno della ragione genera “mostri”.


E l’esibizione del giullare piddino di lunedì scorso è stata una prova esemplare di quali danni irreparabili ed errori di valutazione si possano commettere quando si antepongono le ragioni sterili dell’appartenenza e le inflessioni oniriche delle proprie illusioni alle considerazioni squisitamente razionali e universalmente accettate che si basano soltanto sui diritti umani inalienabili. Ma non dobbiamo stupirci di questo, perché in qualsiasi epoca o periodo storico, l’illusione è stata sempre utilizzata in modo strumentale da chi conosce bene i suoi effetti, per stravolgere le reali motivazioni che dovrebbero indurre gli uomini a fare una scelta piuttosto che un’altra. Qualsiasi dittatore o aspirante tale ha sempre dispensato a piene mani promesse illusorie come arma di distrazione di massa per mantenere il consenso e consolidare il suo prestigio. Avete mai sentito parlare di un despota che davanti al popolo non annuncia in pompa magna sogni di gloria, ricchezza o felicità eterna? Non era il tanto odiato fascista Mussolini a vendere ai suoi fedeli seguaci l’idea di un’Italia potente e imperialista? Non era il tanto vituperato Berlusconi, indicato come l’ultimo dei caimani, a promettere ai suoi ingenui accoliti posti di lavoro, lussi, vita da nababbi? E perché non dovrebbero farlo oggi banchieri e corporations, tramite i loro politicanti di servizio o giullari di corte, prospettando ai soliti allocchi di turno la felicità eterna degli Stati Uniti d’Europa? Funziona come strategia comunicativa, ha sempre funzionato e sempre funzionerà.

Cambiare si può... Ma non con questa Europa..

Cambiare si può? Lo assicurano gli antiberlusconiani, quelli veri. Mentre gli altri, dopo un anno di sostegno bulgaro al micidiale governo sfascia-Italia, di cambiamento non osano neppure parlare – a meno che non si tratti di pura e innocua cosmesi, alla Renzi. Di cambiamento parla invece volentieri Vendola, ma solo per scherzo: lo sparuto reduce delle primarie ormai sa benissimo di essere ridotto a recitare, sfogliando un libro di sogni che non potranno avverarsi mai. Perché le attuali regole del gioco sono truccate, e spietate: le elezioni sono pressoché inutili, dal momento che la sovranità italiana è finita, confiscata senza contropartite da un’élite finanziaria, la casta europea dei ricchissimi. Senza una ribellione, una aperta violazione dei trattati, l’Italia non ha alcuna possibilità di risollevarsi. Lo sanno tutti, ma non lo dice apertamente nessuno.No al Fiscal Compact: dovrebbe essere il primo punto nel programma elettorale. Invece, quando va bene, si parla di debito e, al massimo, di legalità. Beppe Grillo, il ciclone degli ultimi mesi – accreditato del maggior patrimonio elettorale vocato all’opposizione – non ha ancora chiarito la sua posizione in materia di sovranità nazionale; rivendica una battaglia radicale sulla trasparenza dellapolitica, ma per il momento non va oltre. Più articolato l’approccio del possibile “quarto polo”, che si affaccia alla vigilia delle elezioni al riparo di figure come Ingroia e De Magistris, simboli di dignità e pulizia delle istituzioni; si denuncia l’iniquità della tassazione orizzontale imposta con l’alibi del debito nazionale e si invoca la Costituzione del 1946 come argine maestro contro il dilagare dell’arbitrio, dimenticando però che ben altro ordinamento – la sciagurata “costituzione materiale” dell’attuale Unione Europea antidemocratica – cancella di fatto ogni prerogativa legittima ed ogni possibile forma di equità sociale.La stampa anglosassone demolisce Monti e lo accusa di aver letteralmente devastato l’Italia dalle fondamenta, eppure il paese ancora non reagisce e non trova un’alternativa credibile, una vera via d’uscita – che non può che essere il recupero della sovranità economica nazionale, lo smarcamento dall’oligarchia dell’euro, il ripristino dell’autonomia di bilancio. Agli italiani si chiede un voto praticamente inutile, destinato a premiare ancora una volta le larve annidate in Parlamento e nei partiti, protette dall’establishment dellafinanza, dellabanche, delle dinastie industriali, deimediamainstream. Il paese è tramortito dal crollo dell’economia, ma la campagna elettorale ripropone tragiche barzellette. Per l’ennesima volta, nelle urne c’è in palio di tutto, tranne quello che conta: il futuro..

venerdì 21 dicembre 2012

Nessuno come l’Italia ci guadagnerebbe, lasciando l’euro

Ambrose Evans-PritchardUn anglosassone fuori dal coro: mentre “Financial Times” e “Wall Street Journal” hanno fatto un endorsement per un Monti-Bis, Ambrose Evans-Pritchard la pensa all’opposto. E spiega perché dovremmo applicare una terapia opposta a quella, suicida, di Monti. In termini pro capite, l’Italia è una nazione più ricca della Germania , con circa 9 trilioni (9.000 miliardi) di ricchezza privata. Abbiamo il più grande avanzo primario di bilancio del blocco G7, mentre il nostro debito “combinato”, quello che si ottiene facendo la media tra debito pubblico ed esposizione privata, ammonta al 265% del Pil ed è quindi inferiore a quello di Francia, Olanda, Gran Bretagna, Usa e Giappone. Per l’indice del Fmi, il punteggio dell’Italia è il migliore per “sostenibilità a lungo termine del debito” tra i principali paesi industrializzati. «Hanno un vivace settore delle esportazioni, e un avanzo primario», dice Andrew Roberts di “Rbs”. «Se c’è un paese dell’Eurozona che potrebbe trarre beneficio dall’abbandonare l’euro e ripristinare la competitività, è ovviamente l’Italia».

«I numeri parlano da soli», aggiunge Roberts. «Pensiamo che nel 2013, non si tratterà di sapere quali paesi saranno costretti a lasciare l’euro, ma chi sceglierà di andarsene». Uno studio basato sulla “teoria dei giochi” e condotto da Bank of America ha concluso che l’Italia, sganciandosi e ripristinando il controllo sovrano sulle sue leve politiche, guadagnerebbe più di altri membri dell’unione monetaria. La nostra posizione patrimoniale sull’estero è vicina all’equilibrio, in netto contrasto con Spagna e Portogallo, entrambi in deficit per oltre 90% del Pil. L’avanzo primario, aggiunge Evans-Pritchard in un intervento sul “Telegraph” ripreso dal blog “Informare per Resistere”, implica che l’Italia «può lasciare l’Eurozona in qualsiasi momento lo desideri, senza dover affrontare una crisi di finanziamento». Un tasso di risparmio elevato, aggiunge il grande esperto economico inglese, significa che qualsiasi shock del tasso di interesse dopo il ritorno alla lira rifluirebbe nell’economia attraverso maggiori pagamenti a obbligazionisti italiani: spesso ci si dimentica che in Italia i tassi reali erano molto più bassi sotto la Banca d’Italia.
«Roma possiede una serie di carte vincenti», sostiene Evans-Pritchard. «Il grande ostacolo è il premier Mario Monti, installato a capo di una squadra di tecnocrati grazie al golpe del novembre del 2011 voluto
dal cancelliere tedesco Angela Merkel e dalla Banca Centrale Europea, tra gli applausi dei media e della classe politica europea». Monti «potrebbe essere uno dei grandi gentlemen d’Europa», ma sfortuna vuole che sia anche «un sommo sacerdote del progetto Ue» e, in Italia, «un promotore decisivo dell’adesione all’euro». Per cui: «Prima se ne va, prima l’Italia può fermare la diapositiva in depressione cronica». I “mercati” sono ovviamente inorriditi all’idea che si dimetta una volta approvata la legge di  bilancio 2013, visto che i rendimenti sul debito italiano sono cresciuti. «L’armistizio è durato 13 mesi. Ora la guerra continua. Il mondo ci guarda con incredulità», scrive il “Corriere Andrew Robertsdella Sera”.
Il rischio immediato per gli investitori obbligazionari sta nel Parlamento fratturato, sostiene Evans-Pritchard, con almeno il 25% dei seggi attributi a «forze euroscettiche», cioè Berlusconi, la Lega Nord e lo stesso Grillo, quotato attorno al 18% . «Siamo condannati, se non vi sarà chiara maggioranza in Parlamento», avverte il professor Giuseppe Ragusa dell’università Luiss Guido Carli di Roma. «Qualsiasi risultato del genere – ammette Evans-Pritchard – lascerebbe i mercati obbligazionari palesemente esposti, come lo erano nel luglio scorso, durante l’ultimo spasimo della crisi del debito in Europa. Roma avrebbe ancora meno probabilità di richiedere un salvataggio e firmare un “Memorandum” rinunciando alla sovranità fiscale», che poi è la pre-condizione già prevista dal Fiscal Compact affinché entri in azione la Bce per tenere a bada i rendimenti dei titoli italiani.
Tutti quegli investitori che si sono esposti sul debito italiano (e quello spagnolo) dopo la promessa di Mario Draghi che la Bce avrebbe fatto tutto il possibile per salvare l’Eurozona ora potrebbero scoprire che Draghi non è in grado di tener fede alla sua promessa, perché ha le mani legate dalla politica. I detentori dei titoli italiani sono preoccupati, «ma gli interessi della democrazia italiana e quelli dei creditori stranieri non sono più allineati», dice Evans-Pritchard. «Le politiche deflazionistiche stile anni ’30 imposte da Berlino e Bruxelles hanno spinto il paese in un vortice greco». Confindustria ha detto che la nazione è ridotta in macerie, e gli ultimi dati confermano che la produzione industriale in Italia è in caduta libera, giù del 6,2% rispetto all’ottobre dell’anno prima. «Abbiamo visto, negli ultimi 12 mesi, un crollo completo del settore privato», conferma Dario Perkins, del Lombard Street Research. «La fiducia delle imprese è tornata ai livelli dei momenti più bui della crisi finanziaria. La fiducia dei consumatori è la più bassa di sempre.
DraghiBerlusconi ha ragione a dire che l’austerità è stata un completo disastro».
I consumi sono è scesi del 4,8% anche a causa della stretta fiscale. «Questi numeri non hanno precedenti: il rischio per il 2013 è che la caduta sarà ancora peggiore», avverte la Confcommercio.
Le origini di questa crisi, per Evans-Pritchard, risalgono a metà degli anni ’90, quando il marco e la lira sono stati inchiodati per sempre ad un tasso di cambio fisso. L’Italia, che aveva la “scala mobile” salariale ed era abituata all’inflazione, ha così perduto progressivamente dal 30% al 40% di competitività del lavoro rispetto alla Germania. E il surplus commerciale storico con la Germania è diventato un grande deficit strutturale. «Il danno ormai è fatto: non è possibile riportare indietro le lancette dell’orologio.
Eppure – insiste Evans-Pritchard – questo è esattamente ciò che le élite politiche dell’Ue stanno cercando di fare con l’austerità e la drastica “svalutazione interna”».
Una simile politica può funzionare in una piccola economia aperta come quella irlandese, con alti ingranaggi commerciali, mentre in Italia «significa replicare l’esperienza della Gran Bretagna dopo che Winston Churchill fece tornare la sterlina all’ancoraggio all’oro, tornando così al tasso sopravvalutato del 1925».
Come Keynes disse acidamente, i salari sono condannati a scendere. Difatti, gli inglesi pagarono con gli stenti i cinque anni successivi. «L’effetto principale di questa politica è quello di portare alle stelle il tasso di disoccupazione», che per i giovani italiani ha superato il 36% e va aumentando ancora. «Il commissario Monti, con la stretta fiscale, si è mangiato quest’anno il 3,2% del Pil, tre volte la dose terapeutica». Eppure, non c’era alcuna ragione economica per farlo: «L’Italia ha avuto un budget vicino al saldo primario nel corso degli ultimi sei anni. 
È stata, sotto ChurchillBerlusconi, un raro esempio di rettitudine».
L’avanzo primario raggiungerà quest’anno il 3,6% del Pil, per poi passare addirittura al 4,9% l’anno prossimo. «Non si potrebbe essere più virtuosi, eppure il dolore è stato più dannoso che inutile». L’inasprimento fiscale, aggiunge Evans-Pritchard, ha spinto in zona-pericolo il debito pubblico italiano, che era in equilibrio stabile. Il Fmi conferma: il nostro debito sta crescendo molto più velocemente di prima, saltando dal 120% dello scorso anno al 126% di quest’anno per salire al 128% nel 2013. E l’economia? Ha subito una contrazione per cinque trimestri consecutivi: secondo Citigroup, l’economia italiana non si riprenderà fino al 2017. «Sarebbe straordinario se gli elettori italiani tollerassero questa débacle per lungo tempo», dice Evans-Pritcahrd, anche se Bersani – come pare probabile – vincerà le elezioni con un centrosinistra pro-euro.
Gli ultimi sondaggi rivelano che ormai solo il 30% della popolazione pensa ancora che l’euro sia “una cosa buona”. «Il coro in favore dell’uscita dell’Eurozona è stato silenziato dopo la promessa di salvezza di Draghi». E ora, cinque mesi dopo, «è chiaro che la crisi è più profonda è ancora purulenta». Berlusconi «gioca maliziosamente con il tema»: un giorno accenna alla sua “pazza idea” di autorizzare Bankitalia a stampare euro con aria di sfida, aggiungendo che «non è una bestemmia dire di lasciare l’euro». Poi, gli affondi più recenti: l’Italia «sull’orlo del baratro», la «spirale senza fine» della recessione. In un anno, un vero e proprio crollo: milioni di disoccupati, debito alle stelle, imprese che chiudono, industrie ko come quella dell’auto. «Non possiamo continuare ad andare avanti in questo modo», dice il bellicoso il Berlusconi elettorale, prima dell’ennesimo folle dietrofront pro-Monti. Impossibile continuare così? «Infatti: non si può», conferma Evans-Pritchard. Che invita l’Italia a svegliarsi, e scrollarsi di dosso il parassita che la sta dissanguando: l’euro e la setta finanziaria che l’ha imposto, azzoppando un paese dall’economia solida e dalla ricchezza ragguardevole.

Fonte: http://www.libreidee.org

mercoledì 19 dicembre 2012

Perché l’Europa è in crisi e gli Stati Uniti sono in ripresa?


Relazioni-Usa-ed-Europa_teaser
Paolo Mesasse, in un articolo per Economonitor (qui il Italiano su Linkiesta) analizza alcuni grafici molto interessanti sulle differenze tra Stati Uniti ed Europa. Li presentiamo e commentiamo in modo un po’ diverso rispetto a quello dell’autore dell’articolo.

In primo luogo guardiamo la differenza tra i tassi di crescita di USA e Eurozona (in questo e tutti i grafici seguenti si utilizzano numeri indice, ponendo a 100 i valori del 2006, così da valutare meglio il differente andamento tra Stati Uniti ed Eurozona):
gdp
Come si nota mentre gli USA tornano a crescere costantemente, superando in modo relativamente veloce il PIL del periodo pre-crisi, l’Eurozona si blocca e rimane stagnante a
metà strada.
Indicativo anche il grafico della disoccupazione:
disocc
Nel 2009 la crescita della disoccupazione negli Usa rallenta e l’anno successivo addirittura si inverte. Il recupero è lento ma evidente (gli ultimi dati dicono che è sotto l’8%). Nell’Eurozona accade il contrario: in corrispondenza delle politiche di austerità la disoccupazione torna a risalire prepotentemente.
Ma quali sono le cause che possono spiegare un comportamento tanto differente? Un keynesiano guarderebbe immediatamente alla politica fiscale.
deficit
I deficit pubblici degli USA sono più che doppi rispetto a quelli dell’Eurozona. Sebbene Obama abbia tentato una riduzione troppo rapida, come dice Krugman, essi rimangono notevoli anche dopo il “rientro” del presidente democratico.  Conta tuttavia come i deficit si sono formati: quelli negli USA sono stati guidati da maggiori spese, incentivi e il mantenimento di ingenti sconti fiscaliNei paesi periferici dell’Europa, invece, i deficit sono serviti a mettere in sicurezza il sistema bancario, mentre l’austerità ha depresso la domanda facendo schizzare su il rapporto deficit/PIL e di conseguenza debito/PIL. Non conta quindi solo il livello del deficit, ma come esso viene utilizzato.
E’ anche utile sottolineare che nel caso degli USA si tratta di deficit federali, mentre in Europa si tratta di deficit pubblici dei singoli stati. Negli USA i soldi arrivano dove la crisi si fa sentire di più, mentre in Europa, paradossalmente, avviene in alcuni casi il contrario.
E difatti la mancanza di riequilibratori automatici federali porta ad accumulare ed esacerbare, almeno nel breve periodo, le divergenze. Basta guardare la differenza tra gli andamenti della crescita di Italia e Germania:
ger-vs-italy
e la divergenza tra i vari stati che compongono l’Eurozona confrontata alla divergenza tra quelli che compongono gli USA:
dispersione gdp
Infine, gli ultimi grafici mostrano come gli USA abbiano visto crescere molto di più il loro debito pubblico:
debito
e la enorme differenza tra la politica monetaria espansiva della Fed e della Banca d’Inghilterra rispetto a quella della BCE, che appare estremamente avara al confronto con le sua sorelle statunitense e britannica (il grafico mostra gli acquisti di titoli da parte delle diverse banche centrali in rapporto al PIL):
money
La politica monetaria, lo sappiamo, non risolve da sola le crisi (e infatti la Gran Bretagna è tornata in recessione) ma certo i Quantitative Easing così ampi della Fed hanno alleggerito il settore finanziario senza incidere sulle tasche dei cittadini e i profitti delle imprese (come sottolinea spesso il suo presidente Bernanke), a differenza dell’Europa che prima ha usato i bilanci pubblici per “salvare” il settore finanziario, poi ha creato il fondo “salvastati”, con la singolare caratteristica che i paesi “da salvare” contribuiscono anch’essi al fondo, indebitandosi ulteriormente, a tassi elevatissimi. Negli Stati Uniti invece la Federal Reserve ormai acquista il 90% dei titoli emessi da Tesoro, favorendo bassi tassi di interesse.
Un’ultima nota, ma sostanziale: purtroppo l’analisi di Menasse risente pesantemente della teoria delle Aree Valutarie Ottimali che non ci sentiamo di sostenere. Si tratta infatti di una teoria che suggerisce una serie di politiche a favore del libero movimento dei capitali e dei lavoratori all’interno dell’area valutaria, quale fattore stabilizzante, insieme alla deregolamentazione dei commerci e, almeno in alcune versioni, allaflessibilità salariale. L’esperienza europea sembra invece dire che la mobilità dei capitali abbia giocato un ruolo destabilizzatore, prima con l’afflusso di capitali dal centro alla periferia, ad alimentare le bolle immobiliari, e poi con l’improvviso “ritorno a casa” degli stessi una volta scoppiate tali bolle. Riguardo la flessibilità salariale e la deregolamentazione dei commerci, paradossalmente esse hanno funzionato al contrario rispetto a quanto ci si potrebbe ingenuamente attendere: proprio lamancanza di un coordinamento delle politiche retributive è ciò che ha permesso alla Germania di attuare al deflazione salariale, rendere più competitive le proprie merci (mentre l’euro impediva il recupero tramite svalutazione), e contribuire così a causare quegli squilibri delle partite correnti che sono all’origine della crisi stessa.
Al contrario, ci pare di poter affermare da questi dati che ciò che davvero fa degli Stati Uniti un esempio da seguire se si vuole salvare l’Euro, è la presenza di un “grande stato” (big government) federale e di una “grande banca centrale” (big bank). Cioè quello che suggeriva Hyman Minsky per “stabilizzare un’economia instabile”. Solo se c’è questo, insieme a regole fiscali e retributive comuni che impediscano la concorrenza tra diversi stati, allora ha senso parlare di “più Europa”, libertà di commerci e mobilità dei fattori produttivi. In mancanza di regole riequilibratrici, big government e big bank, tutto ciò contribuisce all’instabilità dell’area valutaria, piuttosto che alla sua sopravvivenza. Ma la Germania e i suoi paesi satellite continuano per ora a non volerne sentire parlare.