mercoledì 13 agosto 2014

Chi ha paura dell'art. 18? Parte seconda.



Allora, le domande con cui ci siamo lasciati erano: è l'art. 18 Statuto dei lavoratori la zeppa che impedisce al meccanismo produttivo di funzionare? A chi da realmente fastidio l'art. 18?

Rispondere alla prima domanda parrebbe intuitivo se si è letta la prima parte: una norma che tutela pienamente il posto di lavoro (perché solo la reintegra lo tutela pienamente, è bene averlo ben chiaro in testa, specie in tempi in cui non è facile trovare un altro impiego) esclusivamente per i licenziamenti palesemente discriminatori (sì, si applica anche ai licenziamenti nei quali la causa addotta è totalmente inesistente o per la quale il CCNL non prevede il licenziamento, ma fidatevi, non esistono casi del genere in pratica...), quindi penalizza solo l'arbitrio puro del datore di lavoro, non può in alcun modo essere considerato un ostacolo alle assunzioni o in generale all'attività produttiva. Chiunque dica il contrario, o non sa di cosa parla (vero Alfano?), o è rimasto alla formulazione originaria dell'art. 18, oltretutto nell'interpretazione anni '70/'80 data dalla giurisprudenza. E allora perché salta fuori adesso il dibattito su questo articolo?

La ragione a mio avviso è duplice.

La prima è che la politica italiana si dibatte negli ultimi anni nella difficoltà di conciliare i vincoli fiscali imposti dall'Europa con la necessità di stimolare la crescita; l'appoggio dato a Monti da parte della quasi totalità della destra e della sinistra al momento del suo insediamento si spiega con la genuina speranza che egli potesse realmente mettere mano nella nostra disastrata economia in crisi e risanare il bilancio statale, ponendo le basi per una crescita del Paese, confidando nelle sue ricette, dure ma necessarie. Con Monti però si è implementato ancor di più un pensiero economico liberista che, si può dire schematicamente, pensa ed agisce solo dal lato dell'offerta, per il quale la competitività perduta è causata dal nanismo delle imprese e dal conseguente mancato o insufficiente investimento in ricerca ed innovazione, dalla tassazione eccessiva sul lavoro e la produzione, oltre che dalla rigidità del mercato del lavoro, in entrata ed in uscita e dal suo costo. Lo Stato nulla può fare, ed anzi deve intervenire il meno possibile attivamente, concentrandosi sul risanamento dei propri conti, attraverso tagli di spesa e temporanei aumenti di tasse, che dovrebbero portare in un secondo tempo a risparmi di spesa per interessi e quindi a meno tasse e sviluppo: la c.d. "austerità espansiva".

Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Ormai però il mantra "più flessibilità" è entrato nell'immaginario sociale e politico e, dato che la flessibilizzazione in entrata ormai consolidata non ha portato ai risultati sperati (come abbiamo visto appena la crisi si è fatta sentire la disoccupazione, soprattutto giovanile, si è impennata, in barba ai contratti di apprendistato, a tempo o a progetto) adesso ci si rivolge a quella in uscita, scaricando sulla supposta rigidità a licenziare la colpa delle mancate assunzioni. Questo per chi è in buona fede.

L'altra ragione è più sottile ed implica una consapevolezza unita al perseguimento di uno scopo preciso: la flessibilità estrema in uscita non interessa il nostro sistema produttivo, fatto in stragrande maggioranza da piccole e medie imprese, ma importa e molto alle grandi imprese e multinazionali estere, che intendono investire in Italia. Vediamo perché.

Le PMI sono caratterizzate dall'utilizzo di un numero limitato di lavoratori: ecco la situazione nel 2012


Oltre il 50% delle imprese italiane ha un numero di dipendenti fra 1 e 49 ed il 71% è classificabile come PMI secondo i parametri europei, che prevedono un limite di 249 addetti.

La caratteristica dei lavoratori delle PMI è che essi sono un vero valore aggiunto, trattandosi in grande maggioranza di c.d. skilled workers, ovvero lavoratori specializzati che sono stati formati all'interno dell'azienda, spesso acquisendo il know how produttivo che la caratterizza, molte volte considerabili quasi degli artigiani per la loro maestria. Questi lavoratori sono un patrimonio per l'imprenditore, che ha speso anni di tempo e fatica per plasmarli e che pertanto non ha alcun interesse a mandar via o sostituire, a meno che non ne sia costretto. Alla PMI pertanto non interessa affatto l'art. 18, neanche quando esso tutelava contro il licenziamento motivato astrattamente da ragioni meramente economiche. L'operaio di una piccola impresa è parte di una "famiglia produttiva" e spesso lo stesso datore di lavoro ne condivide gli orari e la fatica, ne conosce vita e problemi e preferisce dar fondo a tutte le sue risorse economiche piuttosto che mettere sulla strada i propri dipendenti e se non riesce, come purtroppo è successo e succede, si sente talmente in colpa che può arrivare a gesti estremi di disperazione.

A rigore, neanche la flessibilità in entrata interessa il piccolo/medio imprenditore: quando un lavoratore ha acquisito le conoscenze e l'esperienza produttiva il datore di lavoro ha tutto l'interesse a trattenerlo, sia perché c'è voluto, come detto, tempo e fatica per renderlo pienamente produttivo e se fosse a termine si perderebbe quella produttività, sia perché, avendo acquisito i "segreti produttivi" che caratterizzano spesso il successo di un'azienda, lasciarlo andar via significherebbe rischiare che tali segreti siano utilizzati in proprio o peggio acquisiti da un concorrente.

Neanche l'idea che l'art. 18 impedisca alle PMI di crescere, per paura di superare il limite di applicazione della norma, che ricordiamolo è di 15 dipendenti, ha alcuna base concreta: ecco due grafici tratti da uno studio del sito lavoce.info, con dati fino al 1998, ma che si possono considerare tutt'ora attendibili, estremamente illuminanti:

Fonte: La Voce 2012

Fonte La Voce 2012
Il primo mostra la distribuzione delle imprese secondo il numero degli addetti, il secondo la propensione a crescere delle imprese, man mano che raggiungono un certo numero di dipendenti.

Come nota il sito economico nell'articolo che correda lo studio, se l'art. 18 fosse un deterrente a crescere vi sarebbe un ammasso di imprese che si situano poco sotto il tasso soglia di 15 dipendenti e si avrebbe una forte riluttanza a crescere: nel primo grafico la distribuzione a decrescere appare invece omogenea, senza scalini particolari, mentre nel secondo grafico uno scalino c'è, ma è piuttosto irrisorio (la propensione passa dal 35% al 34%), ed è influenzato anche dal fatto che è lo stesso limite dimensionale sopra il quale scatta l'obbligo di assunzione di un disabile.

Assodato che l'art. 18 ha un'influenza pressoché nulla sulle decisioni strategiche delle PMI e che l'interesse di queste a licenziare liberamente i propri dipendenti è estremamente basso, vediamo chi può invece averne maggior interesse, ovvero la grande impresa. Questa è caratterizzata dall'utilizzo in maggioranza di lavoratori "no skilled", in quanto inseriti in processi produttivi standardizzati nel quale l'operaio cura un limitato settore e viene impiegato per mansioni ripetitive o comunque di difficoltà relativa. Anche nei settori di servizi e distribuzione il dipendente è chiamato semplicemente ad imparare pochi concetti: l'utilizzo di certi tasti o procedure del software in uso nell'ambito dei servizi (banche, assicurazioni, servizi postali) o di semplici operazioni di collocamento e controllo merce (supermercati ed altri punti vendita "fai da te"). Nessuno di questi lavoratori acquisisce particolari competenze e know how aziendali, niente che un breve tirocinio non possa riformare in capo ad un nuovo assunto.

In questo tipo di impresa però la possibilità di ristrutturare, chiudere e spostare interi complessi è fondamentale per rispondere a crisi e difficoltà economiche locali, oltre a permettere un controllo maggiore sulla propria forza lavoro, tenuta costantemente sotto pressione dal rischio di perdere il posto di lavoro e quindi, come diceva Kalecki, "tenuta in riga". Una norma quindi, per quanto depotenziata, che astrattamente può inceppare questo meccanismo, anche solo per l'incertezza dell'esito di una causa e per la lunghezza di essa (così si spiega l'interesse espresso più volte dalle società estere di avere una giustizia più rapida per investire maggiormente nel nostro Paese, anelito del tutto condivisibile, ma che, provenendo da multinazionali, mi suona sempre un po' sinistro...) è un ostacolo intollerabile e va quindi rimosso. Siccome in questo momento, per le ragioni che ben sappiamo, l'Italia è un paese in svendita e si avvia ad essere semplicemente un luogo dove avvengono le trasformazioni di materie prime e le lavorazioni intermedie, a beneficio delle produzioni estere, che stanno acquisendo buona parte del nostro tessuto produttivo, con il plauso di certa stampa ed una certa preoccupazione di altra, ecco che il dibattito su quello che rimane dell'art. 18 si fa di nuovo attuale.

Così ha trovato risposta anche il nostro secondo quesito e forse adesso vediamo con più chiarezza il quadro di insieme.

Se volete invitare Alfano o Sacconi o, perché no, Renzi a dare un occhiata a questo post, prima di lanciarsi in battaglie che hanno impatto zero sull'economia italiana, almeno finché rimane tale, avrete tutta la mia sincera gratitudine. Ma che accettino l'invito ci conto poco.


lunedì 11 agosto 2014

Chi ha paura dell'art. 18? Parte prima.



L'intervista rilasciata a La Repubblica dal Segretario del NCD Angelino Alfano è riassunta dal suo occhiello "L'articolo 18 va abolito entro la fine di agosto, è solo un totem anni '70, servono atti straordinari".
Nel corpo dell'intervista, al giornalista che insisteva a domandargli se l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori fosse davvero l'ostacolo alle assunzioni ed alla crescita, Alfano risponde in questi termini: se convinciamo le imprese che un'assunzione non è un matrimonio a vita, queste si sentiranno più libere di assumere. Questo attacco fa il paio e va anche oltre la previsione contenuta nel Job Act di Renzi di ritenere inapplicabile per i primi tre anni di assunzione la norma in questione.

Ora, non so dove viva e cosa percepisca del mondo del lavoro Alfano, ma che un'assunzione non sia più (ammesso che lo sia mai stato) un matrimonio a vita, lo sanno benissimo i giovani che cercano lavoro e che si vedono offrire contratti a progetto, a scopo, a tempo determinato in prova o apprendistato e tutta quella miriade di contratti che la legge c.d. Biagi ed altre prima di lui, hanno studiato per rendere flessibile l'entrata nel mondo del lavoro.

Se volete vedere graficamente qual'è la situazione italiana rispetto ai principali partners europei riguardo alla flessibilità, ecco un grafico esplicativo:

Fonte: goofynomics

Sulle ordinate è rappresentata la scala della rigidità di protezione del lavoro con un indice che va da 4 (massima protezione) a 0 (protezione nulla): come si può vedere l'Italia partiva da una protezione molto elevata del posto di lavoro negli anni '80, grazie allo Statuto degli anni '70 e le leggi sul licenziamento individuale e collettivo; nel 1997, grazie alla c.d. legge Treu, conosciuta anche come "pacchetto Treu" che istituiva l'apprendistato, il lavoro interinale, il part-time ecc., la protezione diminuisce. Nel 1999 con la legge c.d. Bassanini, che rende più flessibile il lavoro dei dipendenti pubblici la protezione diminuisce ulteriormente ed arriva al livello attuale con la legge c.d. Biagi. Il risultato è che siamo diventati il Paese con il lavoro più flessibile e variegato. E' servito a migliorare l'occupazione, specialmente giovanile?


Il risultato è interlocutorio: se è vero che la disoccupazione totale dopo le prime riforme diminuisce ed il trend è costante fino all'inizio della recessione, è pur vero che la disoccupazione giovanile, dopo la legge Biagi, sembra piuttosto, almeno nei primi tempi aumentare, mentre la fascia di età più elevata sembra risentire meno dell'introduzione dei nuovi contratti, cosa comprensibile, visto che a loro generalmente non vengono applicati. Quello che appare chiaro è però un dato: con la crisi, nonostante l'ampia flessibilizzazione del mercato del lavoro, la disoccupazione, soprattutto giovanile, aumenta enormemente, ovvero le riforme del lavoro, soprattutto in entrata, non hanno "protetto" i lavoratori, né hanno indotto le imprese ad assumere. 

Alfano ci dice che questa riluttanza ad assumere sarebbe colpa della vigenza dell'art. 18 L. 300/70, dimenticandosi però che nel 2012 esso è stato pesantemente riformato: per capire come è stato riformato basta mettere a confronto i testi ante e post riforma:

Articolo 18 L. 20/05/1970 n. 300

(VECCHIO TESTO)

"Ferma restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.

Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale (1) (2).
Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.

Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti.

La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva."

Il nuovo testo ve lo evidenzio graficamente, così potrete apprezzarne la fattura...

NUOVO ARTICOLO 18
(modif. da art. 1 L. 92/2012)

Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo 
    
42. All'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, sono apportate le seguenti modificazioni: 
a) la rubrica e' sostituita dalla seguente: «Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo»; 
b) i commi dal primo al sesto sono sostituiti dai seguenti:  

«Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro.
A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro  trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.

Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.

Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace  per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della  legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di  dodici  mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a  tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi e' anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.

Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento  intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il  licenziamento è stato intimato  in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile.
Può altresì applicare la  predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra  il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti  nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni  discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le  relative  tutele previste dal presente articolo.

Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più' di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o  non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più  di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di  lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.

Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all'ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e  in  linea collaterale.
Il computo dei limiti occupazionali  di  cui  all'ottavo comma non incide su  norme  o  istituti  che  prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.

Nell'ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il  rapporto  di  lavoro  si  intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo»;

Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio i merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.

L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.

Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui all'undicesimo comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, il pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore».

Se l'avete letto tutto siete degli stoici...

Ora una cosa salta all'occhio a qualsiasi profano: mentre il vecchio testo è di una lunghezza adeguata alla previsione normativa e risulta di lettura comprensibile, il nuovo testo è inutilmente lungo, pieno di rimandi non necessari, incomprensibile ed indigesto. Se lo si è voluto così la ragione c'è: un testo oscuro e tortuoso è spesso fonte di maggiore incertezza interpretativa che si traduce in incertezza nell'esito di un giudizio e spesso sconsiglia il lavoratore dall'intraprendere un'azione legale. Non solo, il dilungarsi in ipotesi di tutela per violazione di diritti che Barra Caracciolo chiamerebbe "cosmetici" (parità nel matrimonio, paternità, maternità) cerca di nascondere il grave depotenziamento della tutela generale, ovvero il fatto che il licenziamento considerato lesivo e meritevole della tutela della reintegra (e non sempre) è esclusivamente il licenziamento discriminatorio, ovvero effettuato per ragioni di credo politico o fede religiosa, a causa dell'appartenenza ad un sindacato a della partecipazione a scioperi ed altre attività sindacali, motivato dal sesso, dall'età, dall'appartenenza etnica o dall'orientamento sessuale del lavoratore. Tutti gli altri licenziamenti, se il giudice li considera carenti nella loro giustificazione, danno al massimo diritto ad un risarcimento, commisurato ad alcune mensilità, ovvero il datore di lavoro, pagando, può licenziare qualsiasi lavoratore anche arbitrariamente. Ci sarebbe molto da dire su quest'articolo, riguardo all'onere della prova, soprattutto riguardo al licenziamento per ragioni economiche, ma non è questa la sede.

Si può dire che questo articolo è la zeppa che impedisce all'ingranaggio produttivo italiano di funzionare e creare posti di lavoro? A chi da realmente fastidio l'art. 18? La risposta articolata al prossimo post.