mercoledì 27 febbraio 2013

Germania: "Non pagheremo per l'Italia"

Il consigliere economico di Merkel, è convinto che il debito pubblico italiano non sia sostenibile. "Europa e Bce non stabilizzeranno l'economia italiana, se gli italiani rifiutano le riforme", dice. Per Boerner, presidente dell'associazione export tedesco, bisogna ripensare all'Eurozona


Sono stati diciassette i miliardi di euro bruciati in Borsa all'indomani dell'esito delle elezioni politiche italiane. L'Europa preoccupata dal voto che ha stracciato le politiche del governo Monti adesso si aspetta il peggio. Dall'entourage di Angela Merkel, la Cancelliera tedesca che ha visto sconfessato in Italia il suo dogma del rigore, filtrano considerazioni al cianuro.

Lars Feld, uno dei componenti del consiglio economico del cancelliere tedesco, in un'intervista pubblicata sul Frankfurter Allgemeine Zeitung, sostiene che la crisi dell'euro tornerà presto ad infiammarsi e questa volta griderà vendetta, spingendo il premio al rischio sui titoli di Stato italiani all'insù.

L'economia italiana non avrebbe comunque trovato una via d'uscita dalla recessione, in base alla giudizio "pessimistico" di Lars Feld. "La
sostenibilità del debito pubblico italiano è in pericolo. A quanto pare, gli italiani non sono pronti a muoversi sulla strada delle riforme intraprese da Mario Monti". E adesso? "Non si può pretendere - osserva ancora Feld - che i partner europei dell'Italia e la Bce stabilizzino l'economia italiana, quando gli italiani non sono pronti ad attuare le riforme".

La sua non è una voce isolata. Anche Anton Boerner, che presiede l'associazione tedesca BGA degli esportatori è convinto che l'Italia debba attuare riforme fiscali, del lavoro, del sistema giudiziario o altrimenti il danno diventerà irreparabile per l'euro. Qualora l'Italia non fosse favorevole alle riforme, conclude "dovremo pensare a come modificare la zona euro".

Anche il mondo della finanza ha bocciato l’esito delle urne italiane, ma lo fa guardando oltre. Ulrich Leuchtmann, economista di Commerzbank, dice che "sarà molto difficile convincere i mercati finanziari della stabilità politica della Repubblica" italiana.

Ma di fronte al paventato rischio contagio fra i Paesi anelli deboli dell’Eurozona, gli esperti di mercato fanno distinzioni. David Mackie, economista di JP Morgan Chase a London, osserva che i partner europei non permetteranno alla Spagna di farsi trascinare nel baratro dagli eventuali problemi che emergeranno sul mercato obbligazionario italiano. Per Hsbc il risultato delle elezioni italiane è un promemoria che il rischio politico non è scomparso nella zona euro, soprattutto non è un evento che cambia la regole del gioco per la moneta unica.

"Sul mercato c'è la sicurezza del programma OMT promesso della BCE di fronte a situazioni destabilizzanti. Ma è solo un meccanismo per evitare che la crisi si auto-alimenti, portando all'atto finale: una rottura dell'euro". L’editorialista del quotidiano di Londra, Financial Times, Wolfang Munchau, ieri in un’intervista a La Repubblica ha detto chiaro e tondo che le difficoltà crescenti obbligheranno l'Italia a valutare una richiesta di soccorso all'Unione europea attraverso l'acquisto di bond. Pdl E Movimento Cinque Stelle permettendo, vista la loro contrarietà a ricorrere al programma di emergenza della Bce, previo commissariamento del Paese. 

martedì 26 febbraio 2013

Abbiamo votato...ora non fate cazzate!!



Eccoci qui.


A dire ai mercati l’ovvio, ovvero che l’esito elettorale italiano dovrebbe vederli entusiasti, a tal punto da abbassare gli spread di tutti i governi europei dell’area euro Sud. Perché se è vero che io non ho tifato per questo esito, a guardarlo da vicino ne apprezzo più le qualità dei difetti inevitabili che accompagnano ogni tornata elettorale e ogni nuova composizione parlamentare.
E a puntualizzare le poche cose che mai, mai e poi mai dovremo fare in questo nuovo contesto.
*
Comincio dalle seconde. Mai, mai e poi mai cedere all’idea che si debba negoziare un prestito in aiuto dalla BCE, magari perché in preda al panico di uno spread che sale verso quota, chissà, 400. Perché come ben sappiamo questo aiuto viene in cambio di austerità. E l’Italia ha votato chiaramente, come richiamava il Premio Nobel Krugman: contro l’austerità.
E allora? Anche se fosse? Non saremmo comunque obbligati a farlo?
No. Mai. Sarebbe un suicidio.
Di suicidio convinto e liberatorio mi ricordo solo quello di Thelma e Louise nel grande film di Ridley Scott. Anche loro potevano arrestare la loro folle corsa verso il baratro ma scelsero di non farlo. Una scelta obbligata dalle circostanze e dal persistente inseguimento delle tutte identiche e burocratiche autovetture della polizia. Anche noi abbiamo i tanti funzionari grigi della Commissione europea che ci obbligano a lanciarci verso il suicidio chiedendoci ancora austerità (magari su questo punto tornerò con un altro post), ma la differenza è che possiamo dire “no” ed imboccare un’altra strada. Non solo, ma il “no” italiano può innescare una serie di dinamiche positive in Europa che porterebbe il continente a vedere finalmente la luce del sole e ad adottare le giuste politiche, le sole politiche in queste circostanze, per proseguire sul cammino comune europeo, rendendo docili e mansueti mercati e burocrati.
Abbiamo votato.
Contro l’austerità.
Contro l’austerità.
Contro l’austerità!
E’ stato un urlo corale, immenso che è venuto da tutta la penisola: la sconfitta di Monti in questo senso è mostruosa, ha perso 90 a 10. Avesse ascoltato quanto gli
chiedevamo da questo blog da più di anno chissà … Ma no, non era nel suo DNA, l’anti austerità. Ha perso, e gli va dato atto dell’eleganza del gesto di ammettere subito la sconfitta. Ma ora è fuori, basta. E non deve rientrare dalla finestra sotto le mentite spoglie di una organizzazione non politica basata a Francoforte a cui non spettano decisioni decisive per il nostro futuro come quelle delle politiche economiche da adottare.
Ma non è nemmeno questione di attribuzione o meno di competenze. E’ questione, appunto, di evitare il suicidio.
L’ingresso a gamba tesa della BCE sarebbe un suicidio per coloro come me che credono ancora nel fatto che senza euro s’interromperebbe per un lungo periodo la costruzione comune europea e vedono in ciò una sciagura.
Sono 2 i motivi che mi portano a sostenere che l’intervento della BCE porterebbe alla fine dell’euro. Primo, perché l’austerità negoziata nell’accordo con la BCE ucciderebbe l’euro (non è l’euro che genera austerità, ma le folli politiche che si perseguono all’interno della sua area) tramite quella recessione che con il voto abbiamo rifiutato. Secondo, perché con il voto abbiamo anche rifiutato 90 a 10 che la nostra politica economica fosse dettata unilateralmente da Bruxelles come è stata in maniera ottusa in questi ultimi anni.
Continuare a giocare con i processi democratici come se nulla fosse, ignorandoli, non sarebbe più tollerato: sarebbe una prova eclatante della non democraticità dell’attuale costruzione istituzionale europea che non rispetta il voto popolare, una prova talmente eclatante da rendere il partito non euro sempre più forte. Entro 1 anno la coalizione di Grillo, che pure oggi non è a vocazione maggioritaria contro l’euro, si riempirebbe di adepti dell’uscita dall’euro, richiedendo ed ottenendo un referendum su questo e con buone possibilità vincendolo. Usciremo dall’euro, pensando di avere risolto i nostri problemi e invece di avere combattuto per un’Europa migliore avremo abbandonato la sfida di migliorarci tramite dialogo e crescita. Ma sarebbe inevitabile.
I mercati capiscano questo e nel loro stesso interesse scommettano invece sugli aspetti incredibilmente pieni di opportunità che ci consegna questo voto.
*
Quali opportunità?
Per prima cosa la possibilità finalmente concreta di negoziare con Bruxelles in maniera più convinta politiche a favore della crescita. L’Italia, al contrario di Grecia, Irlanda, Francia, Olanda, Spagna, ha avuto il coraggio piuttosto unico e raro di votare  senza se e senza ma contro l’austerità. I suoi rappresentanti, al tavolo politico europeo, non potranno presentarsi come hanno fatto sinora consistentemente tutti i leader vincitori delle consultazioni nei Paesi di cui sopra ovvero: parto per Bruxelles per dire no all’austerità e arrivo a Bruxelles e mi taccio umilmente (Hollande essendo forse il caso più smaccato di questo atteggiamento). Ecco, l’Italia può diventare il perno dell’alleanza per la crescita al tavolo europeo. Quello che Monti non è mai stato capace né desideroso di essere. E questo non può che far piacere ai mercati: non che l’Italia si attivi da sola, unilateralmente, cosa che li terrorizza, forse a ragione, ma insieme, con una strategia unita e coerente per la crescita. Perché nessuno ama avere un debito con una controparte la cui attività economica costantemente declina.
Ma di quale crescita parliamo? Anche qui è fondamentale capire che la nuova composizione parlamentare può tornare estremamente utile per fare finalmente chiarezza. Non la crescita via riforme imposte da Bruxelles, uguali per tutti i Paesi. Non le riforme dei taxi quando i taxi sono vuoti a causa della recessione. Non la riforma delle pensioni che lascia giovani ed esodati senza un lavoro. Non la riforma del mercato del lavoro che alza i costi delle imprese, nega i sussidi di disoccupazione ai giovani, riduce la domanda di consumi rendendo i licenziamenti più facili e quindi introducendo maggiore precarietà nel momento peggiore. Non la spending review fatta a casaccio che taglia risorse alle amministrazioni virtuose come a quelle più bisognose, riducendo l’unica fonte di domanda alle imprese attivabile in questa recessione, quella pubblica.
No. Parliamo della crescita che nasce dalla solida alleanza tra politiche delle infrastrutture e politiche della lotta agli sprechi. Ovvero quelle politiche che non solo ridanno fiato alla domanda interna ma abbattono i costi di competere delle nostre imprese perché vanno ad incidere sui nostri ritardi strutturali veri, non quelli che dice Bruxelles spesso senza sapere quello di cui parla. Non quelle facili da fare ma inutili. Politiche, piuttosto, che creano risorse abbattendo la recessione e usano parte di quelle risorse per compensare se del caso gli sconfitti dal cambiamento strutturale in cui si avvierà il Paese con le riforme vere di cui abbiamo bisogno.
Abbattimento della burocrazia pervasiva, della tassazione sul lavoro, dei ritardati pagamenti che mangiano vive le piccole imprese. Anti corruzione, ma vera. Riforma universitaria, ma vera. Riforma della scuola, riforma liberale e democratica. Veri investimenti senza sprechi: nelle carceri, nelle Pompei, nelle scuole, sul riassesto del territorio, sulle vie commerciali, negli ospedali, nei tribunali, nella ricerca.
Sono temi di cui su questo blog parliamo da sempre. Sono temi che vedono sensibile la coalizione del Movimento a 5 stelle. I mercati dovrebbero brindare alla possibilità che questi ritardi strutturali avranno finalmente più probabilità di entrare nell’Agenda (ooops) del Paese.
Come devono brindare alla quasi-fine di un quindicennio che ha visto spesso (anche se non sempre) una leadership incompetente al comando. Nulla ci garantisce che il Movimento a 5 stelle non riempirà le aule del Parlamento di decreti scritti male, di caos demagogico e populistico, di incompetenza. Anche se, se il buongiorno si vede dal mattino, l’atteggiamento adottato nel Consiglio regionale siciliano dal Movimento depone bene, è costruttivo e, a quel che mi è dato sentire, per ora efficace. Non è nemmeno pensabile che un partito nuovo che attragga il 25% dei votanti non sia stato capace di trovare al suo interno gente pulita e competente. E certamente non sarà difficile fare meglio di quanto è stato fatto in quest’ultimo quindicennio. Tanti motivi per dire ai mercati: aspettate e guardate, il potenziale c’è tutto.
Certo a fronte di una novità Grillo che giudicheremo nel tempo manca ancora in questo Paese la novità di una forza convintamente liberale e democratica, che metta al centro del suo progetto impresa e sviluppo abbinandolo a solidarietà vera per restaurare le pari opportunità dei discriminati. Non è detto che a questa costruzione non ci si possa dedicare nei prossimi mesi, con la buona volontà dei tanti che non si ritrovano in Grillo ma che sentono il bisogno di far entrare il nostro Paese nel XXI secolo edin Europa con tutto quel nostro enorme potenziale che non abbiamo ancora saputo mettere al servizio della felicità di questa e delle future generazioni.
Ma ai mercati, sono certo, può bastare per ora l’incredibile laboratorio di innovazione sociale che la penisola italiana può finalmente diventare per l’Europa. Sarebbe una mossa autolesionista prevenirne il successo facendosi prendere da un panico che noi italiani non abbiamo avuto nel votare come abbiamo votato contro l’austerità.

Krugman: voto anti austerity, punito Monti proconsole Germania



Ora tutta la Ue dovrebbe riflettere sui suoi errori. Gli italiani hanno bocciato una politica troppo dipendente dall'influenza di Berlino, che vuole imprre politiche di austerita' in un'economia gia' in difficolta'.

NEW YORK (WSI) - Commentando il voto italiano sul New York Times, l'economista Paul Krugman fa un'analisi molto critica della situazione. Gli italiani, dice il premio Nobel, di fatto hanno bocciato una politica troppo dipendente dall'influenza di Berlino. 

Il grande sconfitto è Monti, "il proconsole installato dalla Germania per imporre l'austerità fiscale su un'economia già in difficoltà". E con Monti, aggiunge, è punito tutto l'establishment della Ue, che sta imponendo politiche di austerity eccessive e ricattatorie a tutti i paesi dell'Europa meridionale.

Il punto è che il termine "maturità" sempre usato dai media internazionali per invitare di fatto l'Italia a seguire la strada segnata dall'Europa, dalla Germania e da Monti, non è un termine neutro, per Monti. "Vorrei porre un'ovvia domanda - scrive l'economista - che cos'è, esattamente, ciò che attualmente viene fatto passare per maturo realismo in Italia o in Europa?"

La risposta non lascia adito a dubbi. "Per il signor Monti, il proconsole installato dalla Germania per imporre l'austerità fiscale su un'economia già in difficoltà, in effetti, ciò che definisce la rispettabilità nei circoli politici europei era la volontà di perseguire l'austerità senza limiti. Questo andrebbe bene se le politiche di austerità avessero effettivamente funzionato, ma non è così. E più che sembrare maturi o realistici, i sostenitori dell'austerità sembrano sempre più petulanti e deliranti".

Quanto alle conseguenze internazionali del voto italiano e alle sue incognite, Krugman non nasconde la sua apprensione ma ricorda che l'Italia non è un caso isolato.

"Gli osservatori esterni sono terrorizzati dalle elezioni italiane, ed è giusto così: anche se l'incubo di un ritorno di Berlusconi al potere non si materializzasse, una dimostrazione di forza da parte di Berlusconi, o di Grillo, o di entrambi destabilizzerebbe non solo l'Italia ma tutta l'Europa...
Ma l'Italia non è unica nel suo genere: i politici poco raccomandabili sono in aumento in tutta l'Europa meridionale. 

E la ragione per cui questo accade è che i funzionari europei non ammettono che le politiche che sono state imposte ai debitori sono un fallimento disastroso. Se questo non cambia, le elezioni italiane saranno solo un assaggio della pericolosa radicalizzazione che verrà". (TMNews)

lunedì 25 febbraio 2013

Intervista a Beppe grillo in salsa Svedese..

In attesa di sapere le prime notizie sul voto vi segnaliamo un'intervista di Beppe Grillo con la tv Svedese..Grillo ormai ha capito che tutti i media nostrani sono da evitare e si diletta a concedere interviste all'estero...se avete tempo ascoltatelo un pò... non pensavo che l'avrei mai detto ma Grillo ormai è diventato un politico e sta facendo paura a molti...





giovedì 21 febbraio 2013

Video: il TG del P.U.D.E. ....ridiamoci un pò su va...

Navigando su internet nei nostri canonici siti di informazione dai quali attingiamo le nostre notizie abbiamo scovato un video davvero divertente sul perchè il partito unico dell'euro (ovvero il PUDE) non vuole che si esca dall'euro...le ragioni sono davvero convincenti ahahaha...buona visione:



Che dire....questo Euro non può davvero essere rotto ..avete visto che casino?

L’Euro ci porta in guerra, è da malati di mente


Gli economisti in genere, anche di altri paesi, criticano l’euro perché dicono che non ha consistenza economica. Cioè, le teorie economiche dimostrano quali sono le condizioni perché si possa fare un’unità monetaria. L’euro è stato fatto non tenendo conto di tutti quei criteri-base per cui si possa creare un’area monetaria omogenea che funzioni. Per questo Paul Krugman e molti altri hanno criticato l’euro. La moneta è uno strumento dell’economia, non è l’economia; quindi intestardirsi, insistere su un meccanismo che chiaramente non sta funzionando, rischia – e questo è l’aspetto doloroso – di minacciare e distruggere lo stesso progetto europeo. Dal momento dell’introduzione dell’euro fatta in modo così forzato, che è successo? Già l’introduzione dell’euro ha diviso l’Europa – volevamo un’Europa più larga, ma che crescesse insieme.
Come sapete, quando si è fatto l’euro, dentro ci sono 17 paesi, ma 10 stanno fuori e questi non sono i più balordi; stanno fuori paesi importanti come la Grecia, distribuzione di ciboGran Bretagna, ma anche paesi piccoli e molto efficienti e importanti per l’Europa, come la Danimarca e la Svezia. Quindi, la prima cosa che ha fatto l’euro: ha spaccato l’Europa in due, per imporre un’accelerazione che badate bene, non era necessaria. Perché? Esisteva una cooperazione monetaria. Come sapete, dopo la fine dell’aggancio al dollaro, nel ’71, non è che i paesi europei si sono messi a fare la guerra tra loro, ma fecero prima una cooperazione monetaria, il Serpente Monetario Europeo, che naturalmente rivelò punti di forza, ma anche dei difetti. Tanto è vero che successivamente, dopo circa dieci anni, si migliorò il sistema e venne il Sistema Monetario Europeo, cosiddetto Serpente 2, e si cercò di perfezionare questi meccanismi di scambio monetario.
Quindi, non è che prima c’era il caos e poi è arrivato l’euro. La decisione improvvisa di introdurre l’euro prima ha spaccato l’Europa, tra chi è dentro e chi è fuori – e tra l’altro, queste distanze si vanno sempre più allargando. Ormai è chiaro che l’euro sta allontanando sempre più la Gran Bretagna da un progetto europeo, ma questo vale anche per i paesi scandinavi. Non solo, i 17 paesi dell’euro zona hanno creato un’ulteriore divisione dentro la zona euro perché oggi tutti sanno che sono spaccati tra una zona nord e una zona sud. Perché non esiste nessun meccanismo che consente di trovare un equilibrio tra queste situazioni. Immaginate non dico l’Unione Europea, ma solo l’Eurozona. Con la moneta si è preteso di creare una sorta di Stato Europeo. Questa era l’idea. Ora, l’idea che si può fare uno Stato senza uno Jugoslavia, dopo la guerra civileStato fa un po’ sorridere. L’idea che 17 paesi possano essere governati da una banca è un’idea da ospedale psichiatrico.
E’ come se in Italia dicessimo: togliamo tutto, Parlamento e governo, basta la Banca d’Italia. Questo è ciò che è stato fatto a livello europeo. Insistere su questa strada rischia seriamente di portare alla rovina lo stesso progetto europeo – e badate bene che non abbiamo molto tempo. Con l’euro, siamo andati a sbattere contro l’iceberg. Le previsioni mie e non solo mie – da qui ad uno-due anni, e non a dieci— sono due: che se non si cambia rotta rapidamente ci sono due scenari possibili: uno, quello più probabile e più terrificante, è l’implosione dell’Europa come la Jugoslavia. Questo è lo scenario che molti economisti danno per scontato, se non si inverte la rotta. Lo scenario alternativo è quello di una soluzione programmata, in linea con l’idea europea di cooperazione: sarebbe quello, che viene dall’esperienza europea, che io chiamo lo scenario della Cecoslovacchia. Come sapete, la Cecoslovacchia era uno Stato europeo che ad un certo punto, siccome c’erano differenze, sia di aspirazioni ma anche di strutture economiche, ha deciso di dividersi in due Stati, ma non è stata fatta nessuna guerra: si sono messi d’accordo, hanno due monete diverse dentro l’Unione, tra l’altro hanno riorganizzato i rapporti.
L’idea che la zona dell’euro debba implodere, provocando situazioni di tipo jugoslavo, con l’uscita di paesi a cominciare dal sud, ed entro un anno arriverà anche a noi il problema, è una politica cieca, perché non tiene conto che questi problemi si potrebbero risolvere con un accordo in seno all’Eurozona, tra nord e sud, però stabilendo meccanismi di cambio che tengano conto delle esigenze dell’economia. Badate bene che quando l’Italia era nel Sistema Monetario Europeo ne è uscita per tre o quattro anni, perché aveva delle difficoltà economiche. Sia l’Italia che la Gran Bretagna uscirono e poi rientrarono. Non è che ci fu una guerra; non è che, se noi dovessimo Bruno Amorosouscire o stabilire una nuova forma di cooperazione monetaria, succede chissà che.
 
Le monete cambiano ogni 10-15 anni, questo lo sanno gli economisti. E’ sempre successo, nella storia. Pensate che alla fine dell’800 in Europa esisteva l’unione monetaria dei paesi scandinavi. E’ esistita per circa 30 anni. Poi, a un certo punto, siccome queste economie sono cresciute in modo diverso, l’hanno sciolta. Infatti voi oggi avete la corona danese, quella svedese e quella norvegese, mentre prima avevano una corona unica. Decisero intelligentemente di tornare a delle valute nazionali; ovviamente si chiamano ancora corone, c’è un aggancio privilegiato, però son tornate ad auto-governarsi. La stessa cosa vale anche per noi, perché l’Italia ha fatto parte a fine ‘800, per circa 30 anni, di quello che si chiamava Sistema Monetario Latino, con il Belgio, la Svizzera e la Francia. E’ stato sciolto dopo 30 o 40 anni; oggi infatti avete franco svizzero, franco francese e belga; l’Italia aveva mantenuto la lira, ma stando dentro il sistema del franco. Le scelte monetarie sono strumentali, non sono dogmi. La moneta non è un dogma. Simboli sono invece invece la cultura, lo Stato, la nazione. La moneta, come noi sappiamo nell’esperienza familiare, è uno strumento: deve servire i nostri progetti, non viceversa.
Fonte: Libreidee.org
Bruno Amoroso, dichiarazioni rilasciate il 13 febbraio 2013 alla libreria Feltrinelli di Perugia e raccolte dal blog “Sollevazione“. Allievo dell’insigne economista italiano Federico Caffè, Amoroso è docente emerito dell’università danese di Roskilde

mercoledì 20 febbraio 2013

Tutte le balle di Boldrin con la Napoleoni


Loretta Napoleoni vs Michele Boldrin Piazza Pulita
Nel video, il confronto a Piazza Pulita tra Loretta Napoleoni e Michele Boldrin.

 di Alberto Bagnai, autore di Goofynomics

 In un simpatico post del suo blog Paolo Manasse porta avanti un’argomentazione estremamente plausibile: quando si ha un problema, bisogna rivolgersi a uno specialista. Auguriamo al prof. Manasse di non aver mai un problema, soprattutto del tipo da lui evocato, perché leggendo il suo post si capisce quanto sia poco in grado di scegliere uno specialista.
 Sì, perché la lezzzioncina (con tre zeta) dello stimato collega quale scopo ha? Quello di dimostrare che nel dibattito che si è svolto recentemente fra Loretta Napoleoni e Michele Boldrinil telespettatore ignaro deve dar ragione a Boldrin, poiché questo ce l’ha più lungo (il curriculum), e quindi è più esperto. Il simpatico Manasse, col suo intervento a gamba tesa, commette però uno scivolone logico piuttosto evidente. Uno specialista, per definizione, è una persona dotata di competenze specifiche in un settore. Lo specialista non è tanto quello che possiede “molta” competenza, ma quello che possiede la “speciale” , “specifica” competenza utile al caso.

 Immaginiamo il prof. Manasse il giorno in cui, Dio non voglia, dovesse trovarsi nella spiacevole situazione che descrive nel suo post, quella di avere un tumore. “Presto, portatemi da uno specialista!” “Be’, ci sarebbe proprio qui, nel palazzo, lo studio di un internista...” “No, portatemi dall’ortopedico del terzo piano, ha molte più pubblicazioni, ed è primario di un reparto importante...” “Ma lui è esperto di rotule, tu hai un problema al fegato!” “No, no, fate come dico io, l’esperto di rotule si è sottoposto al severo vaglio della comunità scientifica internazionale”.

 Requiem aeternam...

 Ci siamo capiti, no? “Economista”, in realtà, non significa nulla, esattamente come “medico” o “musicista”. Puoi anche essere un clarinettista con 10 dischi di platino al tuo attivo, ma se ti chiamano a suonare un preludio di Chopin per pianoforte sicuramente ti mancherà qualche nota. E se hai un cancro non vai da un ortopedico, a meno che tu non sia Manasse.
 Ora, io non so se Loretta Napoleoni si occupi di tumori. Sicuramente Boldrin non si occupa di economia internazionale: lo dimostra la sua copiosa produzione scientifica (tutta in altri campi dell’economia), e lo dimostrano soprattutto le perle che profonde a piene mani nei dibattiti televisivi. Quindi il povero Manasse incassa, con la sua deludente caduta di stile, un autogol di proporzioni cosmiche. E a noi piace ricordarlo così, muto di fronte a Claudio Borghi Aquilini...
 Non vorrei sottrarvi troppo tempo, ma due o tre dettagli vorrei farveli notare, ricordandovi le bellissime parole del padrone di casa: “chi non ha tempo, non ha neppure speranza”. Ecco, prendetevi un po’ di tempo, perché è utile capire che se ci affidiamo al clarinettista Boldrin, e alla sua compagnia di giro, il cancro dell’euro ci porterà tutti alla tomba.

 Comincerei dalla fine.

 Al minuto 10:50 del video si scatena una amena gazzarra su quanto abbiamo svalutato nel 1992 e su cosa sia effettivamente successo: è stato il 12%? È stato il 40%? E veramente non è successo nulla, come entrambi i contendenti affermano? O è successo qualcosa?
 Guardate che il punto non è di dettaglio. Questo fatto storico, cioè l’uscita dell’Italia dal Sistema Monetario Europeo (SME) di cambi fissi nel 1992, viene regolarmente travisato dai media, con intenti terroristici. Volete un esempio? Sentitevi quest’altro espertone di economia internazionale, l’on. Tabacci, secondo il quale uscire oggi significherebbe dare “in una notte” una stangata del 50% alla nuova lira, “tosando le pecore”, perché il giorno dopo per andare a fare la spesa ci vorrebbe “la sporta doppia di monete” (argomento tipico dei nostri politici da avanspettacolo). Un po’ quello che dice Boldrin, il quale, con la coerenza alla quale ci ha abituati nei suoi interventi, prima ci dice al minuto 9:20 svalutare “sarebbe una tragedia per i lavoratori italiani” (si vede quanto gli stanno a cuore!), poi ci dice che l’ultima volta che lo abbiamo fatto non successe nulla. Tutto e il contrario di tutto in un minuto e mezzo.
 Vi dico subito quali sono i due errori marchiani dei nostri due espertoni. Il primo è quello di voler veicolare il messaggio che la svalutazione sarebbe istantanea: 12%, 50%, 10000% (chi offre di più?) in una sola notte! Il secondo è quello di confondere sistematicamente la perdita di valore sui mercati finanziari internazionali (la svalutazione) con la perdita di valore sui mercati reali interni (l’inflazione). Ora, se occorrono più euro (o più lire) per acquistare un dollaro, non è detto che per questo occorrano più euro (o più lire) per acquistare un giornale o un filone di pane.
 Vogliamo guardare i dati, così, per fare una cosa originale? La Fig. 1 riporta il tasso di cambio lira/ECU dal 1990 al 1998.

Tasso di cambio Lira/Ecu Alberto Bagnai Loretta Napoleoni Michele Boldrin

 Perché uso questo cambio? Vi ricordo che l’ECU, European Currency Unit, era una unità di conto costruita considerando una media delle valute aderenti allo SME. L’ECU serviva da punto di riferimento per i cambi dello SME e fu il precursore diretto dell’euro: il cambio di 1936.27 al quale entrammo nell’euro nel gennaio 1999 era appunto quello che ci legava all’Ecu nel dicembre 1998 (ma tutto questo Boldrin non lo sa, come ho documentato qui). Quindi, se parliamo di svalutazione della lira nel contesto dello SME, il cambio lira/ECU è la scelta più naturale.
 Intanto, dai dati si vede che la fluttuazione della lira andò avanti dal settembre 1992 al novembre 1996, come ci ricorda l’ottima cronologia della Banca dei Regolamenti Internazionali.
 Nell’agosto del 1992 ci volevano 1545 lire per un Ecu (vi risparmio i decimali) e dopo lo sganciamento, nell’ottobre, ce ne volevano 1731, cioè circa il 12% in più.Quindi il prof. Boldrin riesce in un pezzo di incredibile virtuosismo: mentire, dicendo la verità!
 Perché è sì vero che nell’immediato la svalutazione fu del 12%, ma è pure vero che non fu un blip, come dice lui per fare l’amerikano, cioè un fenomeno transitorio. Al contrario, proseguì fino all’aprile del 1995, quando, per un Ecu, ci volevano 2295 lire, cioè il 48% in più che nell’agosto del 1992. Eh già! Nel giro di meno di tre anni svalutammo di quasi  il 50% rispetto all’Ecu (la cifra evocata dall’ineffabile Tabacci), e, se volete saperlo, del 55% rispetto al dollaro.
 Chissà che iperinflazione, chissà che perdita di potere d’acquisto, chissà che “tosata” per i lavoratori, per dirla con Tabacci! Sicuramente il loro potere d’acquisto sarà calato del 50%, cioè i prezzi dei beni sui mercati interni saranno aumentati (a spanna) del 50%, visto che, con il dollaro più costoso del 50%, l’aumento dei prezzi delle materie prime avrà schiacciato l’economia italiana.
 Invece no. L’impatto della svalutazione sui prezzi fu minimo. Lo vediamo nella Fig. 2, che riporta l’indice dei prezzi al consumo, la statistica che misura il costo della vita.

Indice dei prezzi al consumo Alberto Bagnai Loretta Napoleoni Michele Boldrin

 Vedete? I prezzi al consumo seguirono una bella traiettoria liscia e regolare, per nulla influenzata dalla svalutazione del cambio: mentre questo si impenna e poi precipita (Fig. 1), i prezzi (Fig. 2) vanno su paciosi, col passo del montanaro. Se, come nel grafico, mettiamo pari a 100 l’indice nell’agosto del 1992, vediamo che nell’aprile del 1995, quando la lira si era svalutata di quasi il 50%, l’indice era aumentato di appena il 13% (giungendo a 112.7).
 Quindi i lavoratori furono tosati del 50%, come afferma l’espertone Tabacci?
 No, evidentemente no, né in una notte, come dice lui per farvi paura, né in tre anni. L’indice del salario reale, cioè dei salari divisi per i prezzi, e quindi del reale potere d’acquisto degli italiani, tratto dal database AMECO è piuttosto chiaro: dal 1992 al 1995 l’indice diminuì, ma del 4%, cioè più o meno di quello che ha perso negli ultimi quattro anni, ora che abbiamo l’euro che ci protegge.L’inflazione c’entrò poco o nulla, c’entrarono molto le misure di austerità, prese anche allora per il nobile scopo di entrare in Europa.
 Chiaro, no?
 Ora, i fatti sono questi, e magari ad alcuni di voi sembreranno stravaganti, convinti, perché siete stati convinti, che se, poniamo, il dollaro ci costa del 50% in più, immediatamente il petrolio costa del 50% in più, e quindi tutto costa del 50% in più, nel giro di una notte (come se tutto fosse fatto di petrolio...). In questo caso la svalutazione sarebbe inutile, perché è vero che i nostri clienti esteri pagherebbero del 50% in meno (a spanna) la nostra valuta, ma l’inflazione interna farebbe costare del 50% in più i nostri prodotti, e i due effetti si annullerebbero. Così, continuano gli espertoni, inutile tornare al cambio flessibile: è inefficace come strumento, e di converso, quindi, la rigidità dell’euro non è colpevole della situazione nella quale ci troviamo

 Ma le cose non stanno così: lo ha chiarito nel 1997 Maurice Obstfeld dell’Università di Berkeley, sui Brookings Papers on Economic Activity, e lo ha confermato nel 2012 Alexis Antoniades, della Georgetown University, sulla  International Economic Review (se vi interessano i curriculum). Obstfeld, nel suo articolo intitolato “L’azzardo dell’euro”, chiarisce che l’aggiustamento del cambio è importante, anche se non si trasferisce ai salari reali, cioè anche se i lavoratori non vengono “tosati”, o magari “pagati come in Cina”. Il motivo è che se i produttori fissano i prezzi nella valuta del proprio paese (producer currency pricing), la svalutazione li avvantaggia comunque sui mercati esteri, anche a parità di costo del lavoro nazionale. Quindi, per un paese europeo rinunciare alla flessibilità del cambio ha un costo importante in termini di prolungamento delle crisi economiche (come stiamo vedendo). Il lavoro di Antoniades conferma che le imprese applicano in modo prevalente il producer currency pricing e conclude confermando quello che era facile capire anche prima, cioè che “le preoccupazioni espresse da Obstfeld sui benefici dell’euro sono fondate”.

 Certo, voi avete il diritto di ignorare queste ricerche specialistiche. Ma il prof. Boldrin no, e certamente non le ignora. Anche perché, sempre nel 1997, a margine dell’articolo di Obstfeld, un altro economista rincara la dose: “Sono più pessimista di Obstfeld: secondo me, l’euro è un rischio che non dovremmo prendere”. Sapete chi era? Alberto Alesina, che oggi appoggia l’austerità montiana, a difesa di quello stesso euro da lui definito nel 1996 un bluff, per motivi che (se vi interessa il parere di uno che ce l’ha corto, il curriculum) trovo limpidi e tuttora validissimi. Vi pare possibile che il prof. Boldrin non conosca l’opera del prof. Alesina? La leggiamo perfino noi a Pescara!
 È vero invece quello che afferma nel dibattito la Napoleoni, cioè che le politiche di deflazione intraprese, quelle sì, stanno a riducendo a mal partito i cittadini italiani. Il motivo è semplice, e lo ha tanto limpidamente espresso uno degli economisti di punta del PUDE (Partito Unico Dell’Euro), Stefano Fassina: non potendo svalutare la moneta, si svaluta il lavoro. Vi sembra il contrario di quello che dicono Tabacci e Boldrin? Sì, è esattamente il contrario, ma è anche quello che sta succedendo, e lo vediamo tutti, anche voi: credete ai vostri occhi!

 È inutile girarci intorno. Quello di ridurre il resto dell’Europa come la Cina, sbriciolando i redditi e i diritti dei lavoratori per contare su un serbatoio di manodopera a buon mercato, si sta ormai palesando come il disegno, più o meno lucido, della leadership tedesca. Guardate, non ci vuole molto a capirlo: vogliono fare con il resto dell’Eurozona quello che gli è riuscito con la Germania Est.

 Ve lo ricordate?

 Vi rubo ancora un attimo, vale la pena: il cambio fra marco dell’Est e marco dell’Ovest era di tre a uno, ma fu presa la decisione di fissare il cambio uno a uno, dotando i “cugini” dell’Est di una moneta tre volte più “pesante” di quella di cui disponevano. Risultato: i consumi all’Est aumentarono (e con loro le importazioni), ma la competitività delle imprese fu sbriciolata (e con lei le esportazioni). Quasi 1300 miliardi di euro passarono dall’Ovest all’Est, per colmare lo squilibrio commerciale e finanziare la ripresa, ma a distanza di vent’anni i risultati apparivano deludenti non secondo “il professorino di Pescara”: secondo lo Spiegel! Che vuol dire “deludenti”? Ma, ad esempio che nel 2008 il reddito di una famiglia dell’Est era ancora solo il 53% di quello di una famiglia dell’Ovest (sempre lo Spiegel). I greci, agli imprenditori della Germania Ovest, costeranno ancora meno, quando la loro economia sarà stata definitivamente distrutta. Poi toccherà agli altri, fra cui noi.
 Solo sganciandoci dal giogo della moneta unica e ripristinando la flessibilità del cambio (come auspicavano il premio Nobel James Meade nel 1957, o Alberto Alesina nel 1997) si può garantire un futuro a questo continente. Non parlo di futuro economico: parlo di futuro e basta, perché l’irrazionalità economica dell’euro rischia di condurci alla catastrofe politica, come diceva, ancora una volta, Alberto Alesina nel 1997: “si può pensare che la probabilità di conflitti aumenterà se più paesi sono costretti a coordinarsi e a venire a compromessi su diversi argomenti a causa di una inutile unione monetaria”.
 Quindi, quando difendono l’euro, Tabacci forse no (diamogli il beneficio del dubbio, visto che non è del mestiere e visibilmente non sa di cosa parla), ma Alesina e Boldrin sono certamente consapevoli di divulgare delle “lievi imprecisioni”.È la leadership degli eurocrati che vuole portarci a competere al ribasso con la Cina in tema di diritti e redditi, e questo loro lo sanno. Siamo certi che la loro convinzione nel sostenere questo progetto suicida per il loro paese gli spianerà la strada di una brillante carriera politica.

 O no?

 Dipende da voi...

martedì 19 febbraio 2013

FARE al contrario: ridurre il debito pubblico aumentando la spesa


fare-contrario
Si può ridurre il debito pubblico (o meglio il rapporto debito/PIL) aumentando la spesa pubblica, finanziata con le tasse? Sì, si può.
E’ scritto su tutti i libri di testo di economia: a causa del moltiplicatore keynesiano,l’effetto depressivo dovuto all’aumento delle tasse è minore dell’effetto espansivo dovuto alla spesa pubblica. Pertanto è possibile, anche mantenendo il pareggio di bilancio, aumentare il prodotto interno lordo e così ridurre il rapporto debito/PIL.

Gli economisti Nicoletta BatiniGiovanni Callegari e Giovanni Melina hanno confermato empiricamente la differenza tra il moltiplicatore della spesa e quello delle tasse in un working paper del Fondo Monetario Internazionale di alcuni mesi addietro,del quale abbiamo già parlato.
Gustavo Piga, sul suo blog, mostra ora il risultato di una simulazione condotta dai tre ricercatori. Il primo grafico rappresenta l’andamento del debito pubblico con diversi livelli di manovra espansiva (0,5% – 1% – 3% e 5% del PIL) in una situazione non recessiva. I numeri sull’asse delle ascisse rappresentano i trimestri.
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Dopo 20 trimestri (5 anni) di stimolo fiscale del 5% si potrebbe ridurre il debito pubblico di quasi 20 punti. Più di quanto richiede il Fiscal Compact, per usare un parametro di riferimento. E, vale la pena precisarlo ancora, stiamo parlando di manovre in pareggio di bilancio, come lo stesso Fiscal Compact impone.
I tre autori, su richiesta di Piga, hanno anche effettuato la stessa simulazione in caso di recessione: in questo contesto si ha una riduzione fino al 33% del debito pubblico rispetto al suo (scongiurato) aumento, dovuto alla recessione.
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Si noti che questa ricetta è l’esatto opposto di quella proposta da Alesina e Giavazzi, FARE per fermare il declino, Scelta Civica – Mario Monti, che invece sostengono il taglio delle tasse e della spesa pubblica. Quest’ultimo tipo di manovra, nelle simulazioni di Batini – Callegari – Melina, avrebbe l’effetto opposto: fare aumentare il debito pubblico. Infatti l’effetto depressivo del taglio alla spesa pubblica supererebbe quello espansivo del taglio delle tasse.
Ripetiamo, ancora una volta, che non si tratta di nulla di esotico o eterodosso. Al contrario. Eppure nessuno, in Europa, suggerisce agli stati di effettuare manovre che prevedano maggiore spesa pubblica, in deficit o meno. Si lascia che i governi deprimano la domanda e così aggravino la crisi e i conti pubblici.

La flessibilità non fa crescere la produttività


Capita spesso di leggere che le cosiddette “riforme strutturali“, tra cui quella delmercato del lavoro, siano necessarie per accrescere la produttività stagnante delle nostre imprese. In base a questo assunto e all’idea (facilmente falsificabile) che maggiore flessibilità porti a maggiore occupazione, negli anni si sono susseguite diverse modifiche del diritto del lavoro, sia da parte di governi di centrosinistra che di centrodestra.

Il risultato è che per il nostro Paese l’indice di protezione del lavoro (EPL), calcolato dall’OCSE, è precipitato da 3,57 (prima del “pacchetto Treu“) a 1,82 nel 2003. Nel 2008, ultimo anno di rilevazione, è risalito appena ad 1,89. Come ammette la stessa OCSE, siamo il paese che ha liberalizzato di più il mercato del lavororelativamente alla posizione abbastanza rigida del passato.
Eppure se si giudicano i risultati della flessibilità, sembrano essere piuttosto deludenti. Non solo la produttività non è aumentata, ma la sua crescita è rallentata fino a diventare sostanzialmente nulla nell’ultimo decennio (si veda il grafico su riportato). Non necessariamente questo risultato negativo deve attribuirsi alla crescente flessibilità. Tuttavia i dati sembrano dire con chiarezza che la liberalizzazione del mercato del lavoro non ha prodotto effetti positivi misurabili sulla produttività.
Nonostante ciò, la convinzione che maggiore flessibilità porti a maggiore produttività è rintracciabile nel dibattito pubblico, quasi che un lavoratore precario sia più propenso a “impegnarsi” per il timore di perdere il posto di lavoro. Se ciò non bastasse, in un recente documento della stessa OCSE si afferma che la “dualità” tra lavoratori garantiti e non garantiti porta a inefficienze nella distribuzione delle risorse umane disponibili. Non si capisce tuttavia come rendere precario anche l’attuale “posto fisso” possa dare risultati migliori della precarietà sinora introdotta, così pesantemente, nel mercato del lavoro italiano.

Incoraggianti Segni di Disperazione da Olli Rehn


Paul Krugman sul New York Times riporta di una lettera in cui il Commissario Europeo cerca di fermare il vento con le mani




The Conscience of a Liberal -  Sulle due sponde dell'Atlantico, gli Austerians sembrano essere fuori di testa. E dovrebbe essere una buona notizia, segno che si rendono conto, a un certo livello, che stanno perdendo il confronto.

[...]Tra gli altri, Olli Rehn, della Commissione europea, un convinto sostenitore dell'austerità, reagisce alle disastrose notizie sull'economia Europea, che hanno confermato gli avvertimenti dei critici dell'austerità e portato a una larga rivalutazione dei moltiplicatori fiscali, e che confermano che l'economia si trova in una grande trappola della liquidità, così come alcuni di noi avevano previsto. La risposta di Rehn? Dobbiamosmettere di pubblicare questi studi economici, perché stanno minando la fiducia nell'austerità!


Ecco le dichiarazioni di Mr. Rehn, riportate da Not the treasury view:



Niente dibattito, per favore, siamo Europei

Alla fine dell'anno scorso ho segnalato come il vicepresidente della Commissione europea, Olli Rehn, avesse previsto, da almeno due anni, un'imminente ripresa delle economie in crisi della zona euro, grazie alle eccellenti politiche raccomandate dalla Commissione e dalla Banca Centrale Europea. Tuttavia, questa settimana - notando forse che, al di fuori dei mercati finanziari, la
 tanto attesa luce alla fine del tunnel  sembra invece retrocedere - ha provato una strategia diversa. Incolpare gli economisti - e, in particolare, gli economisti che vogliono effettivamente fare delle analisi corrette, teoricamente ed empiricamente fondate, per criticare le politiche della Commissione. Mr. Rehn, in una lettera ai Ministri delle finanze europei, in copia ad altri luminari finanziari internazionali come Christine Lagarde, ha detto:

"Vorrei illustrare alcuni punti su un dibattito che non è stato utile e che ha rischiato di minare la fiducia che abbiamo faticosamente costruito negli ultimi anni in lunghe riunioni sino a tarda notte. Mi riferisco al dibattito sui moltiplicatori fiscali, vale a dire l'impatto marginale di un cambiamento nella politica fiscale sulla crescita economica. Il dibattito, in generale, non ci ha portato nessuna nuova utile comprensione."

Gran parte del resto della lettera è dedicata al tentativo di Mr. Rehn (e presumibilmente degli economisti della Commissione) di sfatare i risultati del Chief Economist FMI Olivier Blanchard, che ha trovato, con grande sorpresa di nessuno, che gli effetti negativi del consolidamento fiscale erano davvero molto maggiore di quelli previsti dal Fondo o dalla Commissione.

Non voglio tentare una confutazione punto per punto, ma tenere presente quanto segue:

- Se è vero che da sola l'analisi del Fondo non dimostra che la Commissione e il commissario Rehn sono in errore, tuttavia tutto il peso delle prove, sia teoriche che empiriche, lo dimostra. Le nostre stime dell'impatto dell'austerità autolesionista sono qui.

- Benché l'analisi di Blanchard non rappresenti certo la fine della storia, è un'opera professionale di uno dei più importanti macroeconomisti empirici del mondo. La confutazione della Commissione, al contrario, farebbe vergogna a uno studente del primo anno di Master.

Ma, naturalmente, la cosa davvero sorprendente è che Mr. Rehn abbia scritto ai Ministri delle finanze, e al direttore generale del FMI, lamentando che un articolo accademico su un tema della macroeconomia empirica di grande rilevanza politica, ma altamente tecnico, rappresenti un "dibattito che non è stato molto utile". Non ne faccio una questione di arroganza contro la libertà accademica, ma mi sembra proprio strano.

Come ho detto, questi segni di disperazione sono incoraggianti. Ma purtroppo, questa gente ha già fatto dei danni enormi, ed è nella posizione di poterne fare ancora tanti.

lunedì 18 febbraio 2013

L'EURO FORTE?..Piace solo ai tedeschi




Uno studio di Morgan Stanley  di Leonardo Mazzei

L'euro forte, cioè germano-centrico, altro non è che una pesante zavorra per le economie dell'Europa meridionale. A dirlo non siamo solo noi, ma organismi e personaggi di ben altro orientamento.
E' il caso di Morgan Stanley, che ha recentemente pubblicato le conclusioni di una sua ricerca su quello che dovrebbe essere il rapporto di cambio euro/dollaro «giusto», cioè confacente alla concreta situazione economica di diversi paesi dell'eurozona. 

I risultati della ricerca ["Per Berlino l'euro è mini", di Alessandro Merli. Il Sole 24 Oredel 9 febbraio] sono interessanti per tre motivi: in primo luogo perché dimostrano l'insostenibilità della moneta unica; in secondo luogo perché evidenziano la necessità di una svalutazione monetaria per le economie dell'Europa meridionale; in terzo luogo perché mostrano come tali svalutazioni (purché guidate in maniera adeguata) sarebbero sostanziali ma non catastrofiche.

Tre cose che - come sanno bene i nostri lettori - sosteniamo da sempre, da quando cioè la crisi dell'eurozona è scoppiata con tutta la sua virulenza. Tre cose però rigorosamente vietate dal politically correct in versione europea.

Lo studio di Morgan Stanley non è stato realizzato in un asettico laboratorio, bensì nel cuore di una vera e propria guerra valutaria, che vede i governi di Washington e di Tokio impegnatissimi ad operare per una forte svalutazione delle proprie monete (il dollaro e lo yen), in particolare nei confronti dell'euro. Una manovra che va bene anche a Pechino, dato che il governo cinese ha di fatto ancorato lo yuan al dollaro.

Questa pressione ha indispettito il presidente francese Francois Hollande —la Francia, come vedremo, non è poi messa troppo bene (vedi anche questo articolo di Jacques Sapir)— ma non ha minimamente scalfito l'indifferente alterigia di una Germania che sembra avere in Draghi un sicuro alleato. Una Germania che non ha alcuna intenzione di resistere, anzi! , alla politica di Stati Uniti e Giappone, per la semplice ragione che dal suo punto di vista (ma praticamente solo dal suo) l'euro è ancora troppo sottovalutato.

A darci una conferma di tutto ciò, è arrivata appunto Morgan Stanley. 
Come abbiamo già detto, la banca d'affari newyorchese ha infatti calcolato quale sarebbe il cambio «appropriato» nei confronti del dollaro per ciascun paese. Questi i risultati: Germania 1,53 - Irlanda 1,41 - Austria 1,35 - Finlandia 1,28 - Spagna 1,26 - Portogallo 1,24 - Francia 1,23 (ecco spiegati i malumori di Hollande) - Olanda (sorpresa relativa) 1,22 - Belgio 1,19 - Italia (che invece tace) 1,19 - Grecia 1,07.

Tre paesi stanno quindi sopra la soglia di 1,33 —assunta come base dallo studio— ed è come avessero attualmente una moneta svalutata nella misura seguente: Germania -13,2%, Irlanda -5,7%, Austria -1,5%. Gli altri, invece, si ritrovano con una moneta sopravvalutata: Finlandia +3,8%, Spagna +5,4%, Portogallo +7,3%, Francia +7,8%, Olanda +9,1%, Belgio +12,0%, Italia +12,1%, Grecia +24,3%. Ecco quindi spiegato perché i paesi del primo gruppo non si oppongono all'attuale rivalutazione dell'euro, mentre quelli del secondo di certo non gioiscono, anche se l'ortodossia europeista gli impedisce una vera e propria azione di contrasto all'indiscussa egemonia tedesca.

Morgan Stanley ha calcolato che un 10% di rivalutazione dell'euro (da luglio 2012 siamo ad un +15%) si traduce in una contrazione del Pil dello 0,5%, il che non è poco in tempi di recessione come gli attuali. Ma per la Germania non c'è problema, tanto la sua guerra commerciale è rivolta soprattutto verso i disgraziati partner dell'eurozona, i quali niente possono fare, dato che altrettanto disgraziatamente si ritrovano la stessa moneta dei capitalisti tedeschi.

In altre parole, per Berlino è accettabile perdere competitività rispetto alle merci americane e giapponesi, l'importante è poter continuare a sfruttare il gap che si è determinato con le altre grandi economie dell'eurozona (Italia, Francia, Spagna).

Abbiamo detto all'inizio che questi dati dimostrano principalmente tre cose. Vediamole.

Euro, moneta insostenibile

La prima cosa, qualora ce ne fosse bisogno, è che l'euro è una moneta che non può reggere. Certo, le oligarchie finanziarie faranno di tutto per tenerla in piedi, ma alla lunga tutto ciò si rivelerà inutile. Peraltro, la resistenza delle oligarchie non è tanto il frutto di una convinzione sulle prospettive, quanto piuttosto la conseguenza degli interessi immediati delle banche e delle altre istituzioni finanziarie, che hanno un obiettivo che prevale su ogni altra considerazione: la riscossione delle cedole ed il recupero dei crediti verso gli Stati, da ottenere in moneta forte e sonante.

Tutta la politica istituzionale è «europeista» a prescindere, ma c'è forse qualcuno che si periti di dire come si intende azzerare, o quantomeno ridurre, gli squilibri interni all'Unione, evidenziati anche dallo studio di Morgan Stanley? No, nessuno lo dice. E la ragione è semplice: tutti sanno che non è possibile, se non passando sopra il cadavere della Germania. Ma l'Unione è strutturalmente centrata sugli interessi di Berlino, e dunque anche questa prospettiva è semplicemente improponibile. Non resta che la disintegrazione, ma questo è il più grande dei tabù, specie a sinistra. Come ovvio, Morgan Stanley non osa affermarlo apertamente, ma le risultanze del suo studio questo ci dicono: l'euro è una moneta insostenibile.

La svalutazione necessaria

Le cifre della banca americana mettono in luce la necessità di una svalutazione per le economie dell'Europa meridionale. Ma c'è un piccolo problema: non si può svalutare se prima non si esce dall'euro. Ecco allora che l'esigenza svalutativa si riflette sull'euro, con (l'inascoltata) richiesta francese alla Bce di operare per fermare quantomeno la pericolosa rivalutazione in corso nei confronto di yen e dollaro.

Siccome nessuno crede veramente alla possibilità di un riequilibrio interno all'Unione, che richiederebbe, oltre che una convergenza delle politiche fiscali, una politica economica di massicci trasferimenti dal nord al sud dell'UE, e quindi in definitiva un vero processo di unificazione politica, non c'è altra via per i paesi del sud che quella delle necessarie svalutazioni da attuarsi subito dopo essere usciti dalla gabbia della moneta unica. O meglio, un'altra via c'è, peccato che sia proprio quella oggi praticata dai servili governi della periferia europea: essa è quella della cosiddetta «deflazione», cioè riduzione, salariale. Chi si oppone alla svalutazione monetaria, come se fosse il peggiore dei mali, deve sapere che questa è l'alternativa, con il suo corollario fatto di disoccupazione e di pauperizzazione di massa.

Svalutazione, ma di quanto?

In polemica con gli interessati catastrofisti «un tanto al chilo», ci siamo più volte soffermati sul fatto che la svalutazione dovrebbe essere sì sostanziale (altrimenti non avrebbe senso insistere tanto su questo punto), ma neppure troppo elevata.

Su questo la discussione è però estremamente difficile, dato che le sparate impressionistiche hanno spesso buon gioco sugli argomenti razionali. In questi giorni, ad esempio, ci è capitato di sentire un pittoresco personaggio di Piacenza, che si picca per giunta di avere qualche precedente come ministro economico, sostenere che senza l'euro l'Italia si ritroverebbe da sola, con la sua «liretta», in mezzo al Mediterraneo. Ora, di grazia, l'Italia, con lira, euro o sesterzio, dov'altro dovrebbe trovarsi? 

A noi sembra, per la verità, che non la collocazione geografica sia il problema, quanto piuttosto una moneta che ci aggancia non al Mediterraneo ma ai freddi mari del nord. In ogni caso, Morgan Stanley disegna un quadro ben diverso da quello terroristico prospettato dal socio di Monti. L'Italia dovrebbe svalutare del 12% rispetto all'euro attuale e di circa il 25% rispetto alla Germania. 

Da sempre abbiamo detto e scritto che, in base a quello che ci dicono i dati macroeconomici, la svalutazione della nuova lira dovrebbe oscillare tra il 15 ed il 20%. Ipotesi, come si può vedere, sostanzialmente allineata con quella dello studio di cui ci stiamo occupando. Chi spara cifre sul 50% ed oltre, od è perfettamente ignorante od è totalmente disonesto. Naturalmente una cosa non esclude l'altra.

In conclusione

E' naturale che scelte così dirimenti e dirompenti, come quella dell'uscita dall'euro e del successivo riallineamento monetario, possano condurre ad esiti assai diversi a seconda di chi guida e governa il processo di sganciamento. Questa cosa è così ovvia che la risparmiamo ai lettori, senza mai dimenticare che per noi questa prospettiva è sempre legata alla nascita di un governo d'emergenza popolare, come sbocco di una sollevazione di massa capace di mandare a casa l'attuale classe dirigente.

Si tratta solo di sapere che il processo di disintegrazione europea ha una sua potente oggettività. Essa potrà condurre in direzioni anche opposte. Ma di certo niente resterà come prima. E solo chi saprà fare seriamente i conti con questa realtà potrà proporre credibilmente una via d'uscita. Questa è la questione. Niente di più, niente di meno.