Capita spesso di leggere che le cosiddette “riforme strutturali“, tra cui quella delmercato del lavoro, siano necessarie per accrescere la produttività stagnante delle nostre imprese. In base a questo assunto e all’idea (facilmente falsificabile) che maggiore flessibilità porti a maggiore occupazione, negli anni si sono susseguite diverse modifiche del diritto del lavoro, sia da parte di governi di centrosinistra che di centrodestra.
Il risultato è che per il nostro Paese l’indice di protezione del lavoro (EPL), calcolato dall’OCSE, è precipitato da 3,57 (prima del “pacchetto Treu“) a 1,82 nel 2003. Nel 2008, ultimo anno di rilevazione, è risalito appena ad 1,89. Come ammette la stessa OCSE, siamo il paese che ha liberalizzato di più il mercato del lavororelativamente alla posizione abbastanza rigida del passato.
Eppure se si giudicano i risultati della flessibilità, sembrano essere piuttosto deludenti. Non solo la produttività non è aumentata, ma la sua crescita è rallentata fino a diventare sostanzialmente nulla nell’ultimo decennio (si veda il grafico su riportato). Non necessariamente questo risultato negativo deve attribuirsi alla crescente flessibilità. Tuttavia i dati sembrano dire con chiarezza che la liberalizzazione del mercato del lavoro non ha prodotto effetti positivi misurabili sulla produttività.
Nonostante ciò, la convinzione che maggiore flessibilità porti a maggiore produttività è rintracciabile nel dibattito pubblico, quasi che un lavoratore precario sia più propenso a “impegnarsi” per il timore di perdere il posto di lavoro. Se ciò non bastasse, in un recente documento della stessa OCSE si afferma che la “dualità” tra lavoratori garantiti e non garantiti porta a inefficienze nella distribuzione delle risorse umane disponibili. Non si capisce tuttavia come rendere precario anche l’attuale “posto fisso” possa dare risultati migliori della precarietà sinora introdotta, così pesantemente, nel mercato del lavoro italiano.
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