mercoledì 29 gennaio 2014

A cosa servono le leggi



Prendo spunto dal contenuto di un  post del prof. Alberto Bagnai e da un commento al post che ha suscitato reazioni piuttosto sbrigative e liquidatorie per svolgere alcune considerazioni da giurista.

Sarebbe da sciocchi o da ingenui non ammettere che, ad esempio, nel diritto internazionale degli Stati le norme ed i trattati siano scritti con inchiostro sempre delebile e che quando si va a toccare la sovranità del comportamento di Nazioni, vi sia il rischio dell'irrilevanza del diritto rispetto al fatto; basta pensare che il tentativo di regolamentare la responsabilità giuridica degli Stati, compiuto nel 2001 dalla Commissione di Diritto Internazionale dell'ONU con il Progetto di articoli sulla responsabilità dello Stato è rimasto appunto un progetto che non è mai stato trasformato in norma di diritto, anche se è diventato la base nella prassi per la valutazione dei comportamenti di un Paese e dei suoi organi al fine di emettere le risoluzioni dell'ONU.

Sarebbe però altrettanto sciocco ed anche pericoloso ritenere allora che il diritto sia un orpello inutile, che la legge sia solo quella del più forte e che una norma valga meno della carta sulla quale è scritta. Pericoloso perché è quello che vogliono farvi credere: se esistono i "piddini", utili ai poteri economici, che credono che la colpa della crisi sia la "castacriccacorruzione" (per dirla alla Bagnai), esiste anche un diverso tipo di "piddino", altrettanto utile ai poteri finanziari, per il quale "laleggenoncontaepoiigiudicisonotutticorrotti".

Cominciamo col capire cosa è una norma e qual'è il suo valore.

Una norma si può definire come una statuizione che obbliga, vieta o regola un certo comportamento, con modalità che dipendono dal momento storico e politico: quando si crea una consapevolezza della necessità, del disvalore o della funzione sociale di un certo comportamento, sia in campo civile che penale, e questa consapevolezza raggiunge un certo grado di diffusione e consenso, allora quel comportamento viene regolato di conseguenza. Possiamo dire che normalmente la norma di diritto segue e codifica una sensibilità sociale già maturata dai cittadini, la cristallizza e la rende un dato acquisito. Questo è appunto il suo valore: il fatto che, da quel momento in poi la valutazione "storica" di un comportamento umano lascia il posto ad una valutazione "astratta" e quindi a-temporale, diventa un patrimonio acquisito della società che l'ha espressa, un nuovo tassello di quello che possiamo definire progresso sociale, che può da alcuni essere considerato un regresso, ma che non elimina il fatto fondamentale di essere un elemento che si va ad aggiungere agli altri già consolidati, portando così ad un mutamento della società, alla sua crescita, esattamente come cresce un cristallo, strato dopo strato.

Una volta acquisito, questo dato normativo ha una resistenza al cambiamento - più forte in quanto sia più forte il consenso sociale al suo mantenimento - che è un'opposizione potremmo dire "fisiologica" alla sua cancellazione o modifica. Le lotte sociali dei lavoratori degli anni 60/70 ad esempio hanno portato nel diritto del lavoro ad un corpo di leggi a tutela della dignità del lavoratore ed a difesa del posto di lavoro, che negli anni successivi, anche se il sentire sociale era nel frattempo mutato, hanno continuato ad esplicare il loro effetto. Questo "effetto persistenza" della norma è ciò che più preoccupa chiunque voglia intervenire sull'assetto sociale regolato; un esempio è stata la lotta furibonda contro l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, con un tentativo di abrogazione effettuato dal governo Berlusconi nel 2002 poi abortito e, solo dopo dieci anni, un intervento che non lo elimina, ma ne mina le fondamenta, da parte del governo Monti, grazie alla nuova formulazione della norma voluta dalla riforma Fornero. Solo un depotenziamento quindi, nonostante vi fosse da tempo la spinta da parte della grande e media industria per abolirlo, essendo un ostacolo alla flessibilità (precarizzazione) del rapporto di lavoro.

C'è però un altro modo per evitare l'ingombro di una norma: ignorarla. Se si ha abbastanza potere e si può controllare il dissenso, o che è lo stesso orientare il consenso, è possibile agire come se la norma non esistesse, soprattutto come detto in campo internazionale. E' notorio che la Germania fu il primo Paese a sforare i parametri europei di rapporto deficit/PIL, ignorando le regole che la UE si era date e, forte del suo potere politico all'interno dell'Unione, forzò una modifica e su proposta dell'Italia che aveva la presidenza dell'Ecofin (per il sano principio che mandare un sicario a fare il lavoro sporco è sempre meglio) un procedimento di infrazione già avviato, che avrebbe dovuto portare all'irrogazione delle sanzioni previste dal Patto di Stabilità, fu trasformato in una mera "raccomandazione" politica a rispettare i parametri, raccomandazione che ovviamente rimase lettera morta.

Però, pur se ignorata una norma esiste e questa sua esistenza mostra e continua a mostrare l'illiceità della condotta tenuta da chi l'ha ignorata: ecco l'altra importante caratteristica di una legge: la sua incomprimibilità. Si può ignorare o violare una prescrizione, ma essa esiste e può in ogni momento essere richiamata per sanzionare il comportamento in violazione; in altre parole, esiste sempre un giudice che, chiamato a decidere sulla legittimità dell'azione rispetto alla norma, potrà, in base a quest'ultima, sanzionare chi ha agito o in casi più gravi annullare l'azione stessa. Si può dire che finché esiste la norma violata esiste ed è palese la violazione che ne viene fatta, violazione che continua a pendere sul capo di chi ha agito come una minaccia.

Questo spiega quindi perché chi è in torto ed è interessato a far dimenticare l'illiceità del suo comportamento voglia che voi pensiate che una legge, una prescrizione in fondo siano solo vuote parole: il tentativo è quello di legalizzare ex post, di far ratificare come ormai accettabile o inevitabile quello che sa potrebbe essere rimesso in discussione. L'esempio attuale più forte è quello del dettato costituzionale: l'erosione di diritti da parte dell'Unione Europea e l'omissione di azioni doverose da parte del Governo, in nome del "ce lo chiede l'Europa" è insanabilmente in contrasto con quanto prescrive la nostra Carta e, se ci fosse la consapevolezza di questo contrasto, si capirebbe che esisterebbe la possibilità giudiziale di sindacare tutto quello che è stato fatto finora, come ha mostrato più volte e soprattutto in questo post un giurista come Quarantotto, facendo crollare tutto il sistema liberista che stiamo implementando.

Ecco che in quest'ottica si capisce cosa sono le riforme strutturali e perché ce le chiedono con insistenza e preoccupazione: la modifica legislativa dei diritti dei lavoratori, la cancellazione formale del sistema delle tutele, la sottrazione allo Stato di alcune attività prima di tutto sociali, come la sanità o la previdenza, una volta attuate con leggi ed abrogazioni, cristallizzerebbero finalmente (per chi lo sostiene) un sistema liberista di ispirazione vonhayekiana in maniera intangibile e soprattutto lo renderebbero un sistema "giusto" perché secondo legge.

Fino a che non riusciranno in questo intento saranno sempre sotto la minaccia di una ri-espansione per ribellione popolare delle norme attualmente calpestate, di una restaurazione virtuosa dei diritti e delle tutele. E siccome chi può riportare la legalità, soprattutto ripristinare il dettato costituzionale ed opporsi a norme che siano in contrasto con questo è la Corte Costituzionale, ecco spiegato l'attacco avutosi nei giorni scorsi all'immagine dei Giudici, con tutti i discorsi, fintamente morali, riguardo agli emolumenti ed ai costi della Corte, o la valutazione fortemente negativa, come difesa fra caste, di una decisione giuridicamente corretta per quanto socialmente odiosa. E' lo stesso metodo di delegittimazione ipocrita che ha portato altri organi di tutela, come la Corte di Conti, ad essere screditati ed ha portato nel suo complesso la Magistratura a perdere il suo prestigio e soprattutto la fiducia della gente nel suo operato. Il metodo è conosciuto e sperimentato: si parte sempre da fatti reali per quanto minoritari o circoscritti, possibilmente odiosi o scatenanti invidia sociale, per montare campagne, tanto indignate quanto ipocrite, contro una presunta "casta" che gode privilegi ed immunità. La campagna può avere o no un forte riscontro popolare, ma, che si scopri essere una calunnia o la pura verità, sempre ed inevitabilmente un certo livello di credibilità dell'istituzione viene eroso, un frammento di fiducia viene perso ed è esattamente questo il risultato voluto. Il rapporto Eurispes sulla fiducia nelle istituzioni italiane è chiaro: La credibilità dei giudici è passata da un 52,4% del 2004, sommando le risposte di chi ha molta o abbastanza fiducia nella Magistratura, al 42% del 2013, con una perdita del 10,4%, mentre la sfiducia complessiva è passata dal 41,1% al 56,4%, con un aumento persino maggiore del 15,3%, derivato dalla presa di posizione negativa di chi precedentemente non aveva un'opinione, passati dal 6,5% al 1,6%.

Ora è chiaro e sono io il primo a dirlo come avvocato che vi siano ragioni oggettive di peggioramento del servizio Giustizia ed anche e soprattutto della qualità della statuizione giudiziale, peggioramento dovuto non come ultima causa dall'utilizzo di giudici non togati poco preparati, per coprire i soliti buchi di organico, come è indubbio che vi siano stati episodi di protagonismo o parzialità da parte di alcuni magistrati, ma questo trend negativo, questo sentiment così peggiorato non può avere una spiegazione se non nella campagna incessante, spesso altrettanto faziosa e distorta, fatta negli anni passati da politici e giornalisti contro l'istituzione stessa, per interessi spesso personali. Bisogna però stare attenti e comprendere che l'attacco a certi poteri, soprattutto quando essi sono comunque l'ultimo baluardo contro la trasformazione definitiva della nostra democrazia in un regime ordoliberista, spesso può essere pilotato e voluto, o comunque incoraggiato e sostenuto (per il noto principio degli "utili idioti"), esattamente come pilotata e voluta è l'attenzione esagerata e continua alla corruzione ed agli sprechi della classe politica, tanto esistente quanto ininfluente sulla situazione di crisi economica, per distrarre da ben altri e più gravi problemi. Rendere non credibile i giudici tout court significa delegittimare a priori qualsiasi decisione si ponga in contrasto con interessi economici camuffati da "riforme" necessarie, suggerendo ragioni personali o contrasti ideologici e politici di chi giudica. Lo stesso attacco alla Costituzione, mostrata come un vuoto contenitore di proclami storicamente datati e quindi da modificare per renderla attuale (falsità che sarà oggetto di analisi in un prossimo post) è funzionale a quest'azione di accerchiamento dei nostri principi democratici.

Non fate il gioco di chi vuole togliervi i vostri sacrosanti diritti dicendo che sono sorpassati.

venerdì 17 gennaio 2014

Il semestre italiano for dummies



''Se la crescita o la stabilità ci sono solo in Germania, questa cosa fa male anche alla Germania'' (11 novembre 2013); ''Dare energia a un'Europa che ha le batterie scariche... bisogna interpretare la nostra presidenza come quella che chiude il periodo di sola austerità per aprire quella della stabilità e della crescita in Europa e in Italia'' (11 dicembre 2013); "La lotta alla disoccupazione giovanile sara' la bandiera del nostro impegno, uno dei titoli principali del semestre di presidenza italiana'' (20 dicembre 2013); "Il nostro semestre e' l'inizio della nuova legislatura europea, e avrà la possibilità di indirizzare l'Unione europea verso la strada delle politiche per la crescita... o l'Europa mette in campo politiche fortissime contro la disoccupazione o sara' sempre più lontana dai cittadini" (10 gennaio 2014).

Questa una raccolta delle ultime dichiarazioni di Enrico Letta sul semestre di presidenza italiano che comincerà a giugno (dopo quello greco attualmente in corso, sul quale è sorta qualche polemica). Per il governo italiano e per il PD questa è l'ultima spiaggia per cercare di risollevare l'idea di Europa unita e quindi le proprie sorti che ad essa sono ormai appese, idea pesantemente andata in crisi con il perseverare delle difficoltà economiche, viste, non a torto, come il frutto delle ricette di austerity imposte dalla Commissione europea. Da qui il florilegio di dichiarazioni ottimistiche ed improntate ad un cambio di rotta che l'Italia sarà in grado di fare, orientando l'azione dell'EU a politiche di sviluppo ed occupazione, alla tanto agognata crescita.

Ma siamo sicuri che queste politiche si possano fare? E siamo sicuri che, in queste condizioni, una crescita ci farebbe bene? E già, sembra incredibile, ma anche questa è una domanda legittima: la trappola dell'euro ha degli effetti perversi... In parole povere: che significato reale hanno questi proclami?

No all'Euro: la metà degli Italiani boccia la moneta unica



«Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principali fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.
“Scenari economici” mostra l’inesorabile progressione dell’opposizione all’euro: ad aprile 2013, il centrodestra era schierato al 68% contro la moneta di Francoforte, mentre a ottobre la quota dei contrari è salita al 76%. Percentuali analoghe a quelle dei “grillini”, mentre il centro – Monti e Casini – resta ancorato alla valuta della Bce, anche se in modo più tiepido (dal 94 si passa all’83%), mentre il consenso verso l’euro cresce solo nel centrosinistra, che passa dall’89 al 90%. La bocciatura dell’euro diventa definitiva nella terza tornata di sondaggi, effettuata lo scorso dicembre. Un italiano su due (il 49%) si dichiara «favorevole alla reintroduzione di una valuta nazionale al posto dell’euro». Postilla: occorre ovviamente affiancare questo processo «con il ripristino della Banca d’Italia come prestatore d’ultima istanza, al fine di calmierare i tassi d’interesse sui titoli del debito pubblico italiano». Era solo la fine del 2011 – due anni fa – e proprio l’alibi dello spread aveva spianato la strada a Mario Monti ed Elsa Fornero, saliti al potere per “rimettere in ordine in conti”, come se lo Stato fosse un’azienda privata.
Un po’ è davvero così, da quando la repubblica italiana ha perso il suo “bancomat” istituzionale, la Banca d’Italia, come finanziatrice “illimitata” del governo, attraverso il Tesoro, grazie alla “privatizzazione” del debito a vantaggio della finanza privata. Poi, con l’euro, il definitivo ko: l’impossibilità tecnica di risalire la china, emettendo moneta come fa il resto del mondo, fino al caso-limite del Giappone il cui debito raggiunge il 250% del Pil senza timore di attacchi speculativi: gli “squali” sanno benissimo che la banca centrale di

giovedì 9 gennaio 2014

Lex monetae



Non sono un economista. Chi mi legge lo sa, sono un appassionato di economia che ha rispolverato qualche studio universitario, che si è ristudiato qualche fondamento e che si è comprato dei libri, oltre a seguire autorevoli blog economici e giuridici (i link sono quelli della home page). Però sono un giurista. Ho insegnato diritto societario e contrattuale in corsi finanziati dalla Comunità Europea e in corsi di preparazione per l'esame di Avvocato e svolgo la libera professione.

Naturalmente da profano ho il massimo rispetto per chi è un professionista dell'economia e cerco di non dare giudizi economici o fare divulgazione tecnica senza prima essermi informato ed aver trovato basi di appoggio a quello che affermo; vorrei però che gli economisti o comunque i tecnici di settori economici facessero lo stesso con il diritto. Perché dico ciò? Perché di questi tempi sento sempre più voci di euristi che, tra le tante affermazioni economiche discutibili o "lievemente imprecise"  ne fanno una giuridica, altrettanto avventata: la frase di solito è "se usciamo dall'euro e svalutiamo la nuova moneta del 30% il nostro debito pubblico e privato sarà più caro del 30% perché ci siamo indebitati in euro e dobbiamo restituire euro.". Questa affermazione è una sciocchezza detta da persone che ignorano che nel nostro ordinamento vige una serie di disposizioni, all'interno del Codice Civile, conosciute genericamente sotto il nome di Lex monetae.

Riportiamo i primi due articoli del capo VII sezione I:

Art. 1277.
Debito di somma di danaro.
I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale.
Se la somma dovuta era determinata in una moneta che non ha più corso legale al tempo del pagamento, questo deve farsi in moneta legale ragguagliata per valore alla prima.


Art. 1278.
Debito di somma di monete non aventi corso legale.
Se la somma dovuta è determinata in una moneta non avente corso legale nello Stato, il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, al corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento.

Questi sono i primi due articoli che trattano dei debiti pecuniari. Cosa ci dicono? Una cosa semplice: il primo che solo la moneta avente corso legale è idonea ad estinguere i debiti; conseguenza è che se una moneta non ha più corso legale al tempo del pagamento questo va fatto obbligatoriamente nella nuova valuta, l'unica che ha effetto solutorio. Il secondo che se il debito è in una valuta che all'interno dello Stato non ha corso legale, il debitore ha la facoltà (e non l'obbligo) di pagare con moneta a corso legale, con il cambio valutato al momento del pagamento. E' evidente che la differenza è data dal fatto che la moneta descritta in questo articolo ha corso legale, ma non all'interno dello Stato, ovvero si tratta di moneta estera; la norma quindi indica il criterio, che è il pagamento facoltativo (facoltà lasciata al debitore) con moneta nazionale, ragguagliata al valore di cambio al momento del pagamento.

sabato 4 gennaio 2014

Evento: Oltre l'Euro per salvare l'Italia

Cari amici ecco a voi la locandina di un incontro contro l'Euro che si terrà a Londra dove interverranno nostri cari amici. Per chi fosse interessato i dettagli li troverà nella locandina sottostante: