martedì 29 aprile 2014

Martin Wolf: "chi parla di iperinflazione da stampa moneta non sa quel che dice"

GRANDE LEZIONE D'ECONOMIA DI MARTIN WOLF DEL FINANCIAL TIMES: STAMPARE MONETA NON PRODUCE IPERINFLAZIONE (BCE AVVISATA)




LONDRA - Alcuni anni fa, ho moderato un dibattito in cui un uomo politico statunitense insisteva che la stampa di denaro della Federal Reserve avrebbe presto portato all'iperinflazione. Eppure oggi la principale preoccupazione della Fed è piuttosto come riuscire far salire l'inflazione all'obiettivo stabilito. Come molti altri, il politico non riusciva a capire il funzionamento del sistema monetario.
Ma purtroppo, l'ignoranza non è beata! Ha reso più difficile per le banche centrali agire in modo efficace. Fortunatamente la Banca d'Inghilterra si sta preoccupando di fornire la formazione necessaria. 
Nel suo ultimo Bollettino trimestrale, il suo staff spiega il sistema monetario. Riporto qui sette punti fondamentali su come effettivamente funziona, al contrario di quel che la gente pensa.
In primo luogo, le banche non sono solo intermediari finanziari. 
L'atto del risparmio non aumenta i depositi nelle banche. Se il tuo datore di lavoro ti paga, il deposito semplicemente si sposta dal suo conto al tuo. Questo non influisce sulla quantità totale di moneta; invece la moneta aggiuntiva è un prodotto dei prestiti. Ciò che rende speciali le banche è che i loro debiti sono soldi - un titolo di debito (IOU) universalmente accettato. Nel Regno Unito, il 97 per cento dell'aggregato monetario più ampio è costituito dai depositi bancari per lo più creati dal credito bancario. Le banche effettivamente "stampano" soldi. Ma quando i clienti rimborsano i crediti, vengono distrutti.
In secondo luogo, il "moltiplicatore monetario" che collega i prestiti alle riserve bancarie è un mito. 
Nel passato, quando le banconote potevano essere liberamente convertite in oro, questo rapporto poteva anche esistere. Dei severi coefficienti di riserva potevano ancora ristabilirlo. Ma non è così che funziona oggi il sistema bancario. In un sistema monetario fiat, la banca centrale crea riserve a volontà. Quindi fornirà alle banche le riserve di cui hanno bisogno (ad un certo prezzo) per estinguere le loro obbligazioni di pagamento.
In terzo luogo, sono i rischi e i benefici attesi che determinano la quantità dei prestiti concessi dalle banche, e così la quantità di moneta che esse creano. 
Le banche devono considerare quanto hanno da offrire per attrarre depositi e quanto potrebbe essere redditizio o rischioso qualsiasi eventuale prestito supplementare. Lo stato dell'economia - in sé fortemente influenzato dalle loro azioni collettive - guiderà queste decisioni. Anche le decisioni degli operatori non-bancari influenzano direttamente le banche. Se i primi rifiutano di contrarre prestiti e decidono di rimborsare quelli che hanno, il credito e così il denaro si ridurrà.
Quarto, la banca centrale influenzerà le decisioni delle banche adeguando il prezzo che fa pagare (il tasso di interesse) sulle riserve supplementari. 
Ecco come funziona la politica monetaria in tempi normali. Dal momento che la banca centrale è il fornitore monopolista delle riserve bancarie e poiché le banche necessitano di depositi presso la banca centrale per aggiustare i loro reciproci pagamenti, la banca centrale può in questo modo determinare il tasso di interesse a breve termine dell'economia. Nessuna banca sana di mente presterebbe a un tasso inferiore a quello che deve pagare alla banca centrale, che è la banca delle banche.
Quinto, le autorità possono anche influenzare le decisioni di prestito delle banche attraverso la regolamentazione - requisiti di capitale, requisiti di liquidità, regole di finanziamento e così via. 
La giustificazione di questa regolamentazione è che il credito bancario ha delle ricadute o "esternalità". Così, se molte banche finanziano coi prestiti la stessa attività - acquisto di immobili, per esempio - faranno salire la domanda, i prezzi e le attività, giustificando così ancora maggiori prestiti. Un ciclo di questo tipo potrebbe portare - anzi spesso ha portato - ad un crollo del mercato, una crisi finanziaria e una profonda recessione. La giustificazione di una regolamentazione sistemica è che serve, o almeno dovrebbe servire, ad attenuare questi rischi.
Sesto, le banche non prestano le loro riserve, non hanno bisogno di farlo. 
Non lo fanno perché tutti gli operatori non-bancari non possono tenere un conto presso la banca centrale. E non ne hanno bisogno perché possono creare prestiti per conto proprio. Inoltre, le banche non possono ridurre le loro riserve aggregate. La banca centrale può farlo con la vendita di asset. Il pubblico può farlo convertendo i depositi in cash, l'unica forma di moneta di banca centrale che il pubblico può detenere.
Infine, il quantitative easing - l'acquisto di asset da parte della banca centrale - amplierà l'offerta di moneta. 
Lo fa sostituendo, per esempio, i titoli di Stato detenuti dal pubblico con depositi bancari, e in questo processo espande le riserve delle banche presso la banca centrale. Questo aumenterà l'aggregato monetario più ampio, a parità di condizioni. Ma dal momento che non vi è alcun moltiplicatore della moneta, l'impatto sull'offerta di moneta può essere - e in effetti recentemente lo è stato - modesto. L'impatto principale del QE è sui prezzi relativi degli asset. In particolare, questa politica aumenta i prezzi delle attività finanziarie e ne riduce il rendimento. La giustificazione per questo è che a livello di tassi zero la normale politica monetaria non è più efficace. Così la banca centrale cerca di abbassare i rendimenti su una più ampia gamma di asset.
Questo non è solo un discorso accademico.
Comprendere il sistema monetario è essenziale. Uno dei motivi è che eliminerebbe gli ingiustificati timori di iperinflazione. Questa potrebbe verificarsi se la banca centrale creasse troppa moneta. Ma negli ultimi anni la crescita della moneta detenuta dal pubblico è stata troppo lenta, non troppo veloce. In assenza di un moltiplicatore monetario, non vi è alcuna ragione perché le cose cambino.
Una ragione ancora più forte è che subappaltare la funzione di creazione della moneta ad imprese private in cerca di profitto non è il solo sistema monetario possibile. E può anche non essere il migliore. Infatti, esiste la possibilità di lasciare che sia lo stato direttamente a creare moneta. Ho intenzione di affrontare questo argomento in un prossimo articolo.

Autore dell'articolo: Martin Wolf per il Financial Times - tradotto da Voci dall'Estero, che ringraziamo.

martedì 22 aprile 2014

Sapir: Sarebbe un errore non votare alle Europee

Un recente post del prof. Sapir sulle elezioni europee sottolinea la necessità di votare e prendere posizione. Dalla gestione della crisi del 2008 ai nefandi programmi della Troika, dalla posizione nella crisi ucraina al TTIP, l'UE si dimostra un fallimento totale rispetto a tutte le sue promesse. A conti fatti non solo l'euro, ma anche questa UE deve essere smantellata (non "cambiata") per poter ricominciare con un'altra Europa.



Dopo la formazione del nuovo governo francese siamo stati subito e pienamente coinvolti nella campagna per le elezioni europee. Queste suscitano in genere uno scarso interesse. E' un errore, e sarebbe particolarmente dannoso se accadesse anche questa volta. La posta in gioco delle prossime elezioni è alta. Esse esprimeranno delle scelte elettorali che saranno, senza dubbio, difficili e delicate. Dobbiamo qui ricordare che tali elezioni riguardano in realtà l’Unione Europea e non l’Europa stessa. Uno può sentirsi culturalmente e storicamente europeo e rifiutare quell’istituzione che si è appropriata del nome di Europa, ma che è ben lontana dall'essere adeguata a tale scopo.

L’Unione Europea alla deriva

Oggi anche i più ferventi difensori dell’Unione Europea ammettono che essa è alla deriva e che, sempre di più, serve unicamente da copertura agli interessi della Germania [1]. Il perseguimento delle politiche di austerità, esplicitamente implementate per “salvare l’euro” senza imporre un costo troppo alto alla Germania, lo dimostra. Queste politiche stanno attualmente conducendo i paesi dell’Europa del sud verso la bancarotta e la miseria. Ma, parlando in generale, l’UE soffre anche di molteplici difetti, che nel tempo sono diventati sempre più evidenti. È politicamente elefantiaca, troppo aperta e senza altra linea di politica industriale se non la famosa “concorrenza libera e senza distorsioni”, che qualsiasi economista minimamente onesto deve riconoscere essere una contraddizione in termini. Essa non garantisce né la sicurezza economica ai popoli degli stati membri, e nemmeno la sicurezza politica – essendo stata catturata da interessi che ora premono per un’opposizione frontale nei confronti della Russia, come si è potuto constatare in occasione della crisi in Ucraina. In questa occasione i leader della UE, che si vantano di rispettare i diritti umani, non hanno esitato a dare il loro sostegno a dei gruppi fascistoidi come il “Pravy Sektory” o SVOBODA. Ricordiamo pure che questa stessa UE si è dimostrata totalmente incapace di evitarci la crisi finanziaria del 2007-2008, a dispetto di tutti i discorsi sul fatto che “l’Europa ci protegge”. Questa linea politica proseguirà con la firma del “Trattato Transatlantico” (il TTIP, ndt), che stabilisce le condizioni di un libero scambio generalizzato con gli Stati Uniti e che, di fatto, impone che le nostre norme sociali e sanitarie debbano essere allineate con quelle degli Stati Uniti. Di fronte a una tale nuova abdicazione a Washington, non si riesce più a vedere, dunque, quale sia la giustificazione per mantenere una “Unione Europea”.


Oltretutto possiamo qualificare l’Unione Europea come un’organizzazione criminale, a causa delle politiche che vengono tuttora implementate dalla cosiddetta “Troika” in Grecia e in altri paesi. Sicuramente, in questo la UE non sta agendo da sola. La “Troika” è costituita dalla BCE, dalla Commissione Europea e dal FMI. Ma bisogna anche riconoscere che il FMI si è ripetutamente opposto alle politiche che venivano implementate dalla “Troika”, poichè ne prevedeva e calcolava le conseguenze. La responsabilità della

venerdì 18 aprile 2014

Se usciamo dall'euro: la teoria e la realtà

Mai come in questo periodo si trovano in rete e sui giornali tanti articoli, scritti da economisti, da soli, in coppia o a gruppi, che analizzano minuziosamente le proposte di uscita dall'euro, concordata o traumatica, per farne, come si dice, "le pulci", criticando e soppesando ogni singolo punto del percorso ipotizzato, trovarne le falle e le lacune, per concludere invariabilmente che l'uscita non è possibile, se possibile non è attuabile, se attuabile le conseguenze sarebbero catastrofiche e distruttive.

Meglio lasciarsi strangolare quietamente dall'euro. Un atteggiamento molto "british" peraltro...

In tutte le analisi, ad esempio, non manca mai l'obiezione: "Eh, ma credete che gli altri Paesi ve la faranno fare? Credete che vi faranno svalutare tranquillamente senza ritorsioni, dazi, senza reagire alla loro perdita di competitività? Saremo isolati, ostracizzati, ecc. ecc.". Questo argomento, a prima vista ragionevole, nasconde parecchie falle e merita un approfondimento.

Innanzitutto è un argomento che contraddice in toto l'altro argomento principe di queste ed altre analisi, ovvero "se svalutiamo che ne sarà di noi, con la liretta dove andremo, come compreremo, i nostri redditi caleranno, i nostri risparmi si ridurranno, ecc. ecc.". Allora, mettetevi d'accordo: o la svalutazione fa male, a chi produce perché aumenta il costo delle le materie prime, ai padri di famiglia ed ai pensionati perché si impoveriscono ed al Paese perché crolla sotto i debiti, ed allora all'estero i nostri concorrenti dovrebbero stappare champagne e festeggiare la nostra stolidità e follia, oppure fa bene, tanto bene che i nostri concorrenti reagirebbero con dazi e guerre commerciali, perché perdono competitività. Tertium non datur, come dicono quelli colti.

Siccome è chiaro che l'ipotesi vera è la seconda, dato che svalutare sarà anche brutto, ma rivalutare dev'essere peggio, visto che nessuno lo vuole fare, vediamo quali sarebbero le conseguenze reali ad una nostra sacrosanta svalutazione (sacrosanta, perché riaggiusterebbe finalmente quel differenziale di inflazione cumulato in questi anni, come ben sapete).

Per saperlo utilizziamo un metodo scientifico, ovvero prendiamo l'ultimo episodio storico che ci riguarda nel quale abbiamo svalutato in maniera consistente. Anche qui bisogna chiarirsi: tutti quelli che affermano l'inutilità di vedere cosa è accaduto storicamente perché "adesso e diverso, c'è il computer per le transazioni e poi c'è la Cina" sono gli stessi che poi dicono che "senza un paper rigoroso le ipotesi non hanno fondamento, ci vuole un modello, ecc.". Ora, in generale, come si fa un modello previsionale corretto di un fenomeno che ha un andamento legato a una variabile casuale (tipo l'andamento di un titolo)? Attraverso una "random walk". E qual'è il dato più probabile in una previsione random walk? quello legato all'ultimo accadimento, che incorpora in sé tutti gli "errori" passati (se vi siete persi provate a leggere qui), ovvero all'ultimo dato storico disponibile! Come sopra...

Allora l'ultima volta che l'Italia ha svalutato in maniera significativa, 20% nello spazio di circa sei mesi, è stato nel 1992, quando siamo usciti dallo SME. Cosa è successo? E' successo che i nostri prodotti sono diventati immediatamente competitivi, come logico, e che, di converso, quelli tedeschi, ovvero quelli del nostro maggiore concorrente diretto, sono diventati più cari per noi e meno concorrenziali, sia da noi che all'estero. Perché? Ma perché da noi appunto costavano di più e quindi meno gente se li poteva permettere (legge domanda/offerta) ed all'estero, pur rimanendo il costo uguale, soffrivano la migliore appetibilità relativa dei nostri prodotti. Spiego meglio: se un francese comprava per un rivestimento mettiamo un klinker tedesco, invece che un marmo di Carrara, perché non poteva permettersi quello italiano, migliore ma più caro, dopo la svalutazione il marmo di Carrara, magari costava sempre più del klinker tedesco, ma con un differenziale minore, ed allora il francese, che ha gusto, decideva che poteva permettersi una lieve differenza in più per avere una maggiore qualità, ovvero il nuovo prezzo compensava il rapporto fra maggiore sacrificio economico e maggiore qualità, tanto da portarlo a permettersi il marmo. Questo è quello che intendevo con appetibilità relativa.

mercoledì 16 aprile 2014

Il Fmi: vivete troppo a lungo! ...la pensione è un lusso!!

«Si dice che la crisi e la guerra servano al sistema capitalista per ridurre le capacità produttive in eccesso, anche quando si presenta un “eccesso” di capitale umano». Stefano Porcari, su “Contropiano”, commenta così l’ultimo report del Fmi, secondo cui la nostra vita media è diventata troppo lunga, e quindi troppo onerosa: la crescente longevità rende i sistemi pensionistici sempre più costosi e questo produce un impatto negativo sui conti pubblici. L’analisi del Fondo Monetario Internazionale è contenuta nel “Global Financial Stability Report” 2014. In particolare colpisce “l’allarme longevità” del Fmi. Ma la longevità non dovrebbe essere un indicatore positivo, per una società sviluppata che si rispetti? Non per il Fondo Monetario, secondo cui i governi dovrebbero affrettarsi ad “adeguare” i loro sistemi di welfare alzando l’età pensionabile e tagliando le pensioni pubbliche.
«Non è la prima volta che torna su questo tasto, e non è certo un bel segnale», scrive Porcari, commentato il rapporto del Fmi. Secondo il Fondo Monetario – uno dei massimi poteri mondiali – l’impatto dell’allungamento delle aspettative di vita sull’economia e i conti pubblici degli Stati è profondo e occorre provi rimedio. «Se nel 2050 la vita media si allungasse di tre anni in più rispetto alle attese attuali (in linea con la media del passato, peraltro sottostimata) sarebbero necessarie risorse extra pari all’1-2% annuo del Pil», scrive il report del Fmi. «Per le economie avanzate, questo significa per il prossimi 40 anni un costo totale aggiuntivo pari al 50% del Pil del 2010 (per le economie emergenti, invece, la stima è pari al 25% del Pil 2010)». I “suggerimenti” del Fmi ovviamente spingono nella direzione della finanziarizzazione della previdenza e dei sistemi pensionistici.
Oltre all’aumento dell’età pensionabile, preferibilmente collegandola con meccanismi automatici all’aumento delle aspettative di vita, si raccomanda l’aumento dei contributi pensionistici o la riduzione dei benefit, lo “stimolo” verso prodotti finanziari (fondi pensione, assicurazioni) che tengano a loro volta conto dell’aumento delle aspettative di vita, nonché «un buon bilanciamento del rischio determinato dall’aumento delle aspettative di vita fra settore pubblico e privato», anche se questo rischio, sui mercati finanziari, «va trasferito dai fondi pensione a soggetti che sono più attrezzati per gestire, appunto, i rischi finanziari, cioè gli squali dei fondi di investimento», osserva “Contropiano”, che conclude: prima o poi, si arriverà addirittura a «ridurre le aspettative generali di vita», per farla finita, una volta per tutte, con «la jattura della longevità».

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mercoledì 9 aprile 2014

Ecco la tragedia che ci aspetta: il micidiale ERF



di Antonio Maria Rinaldi

Mentre i candidati di tutte le compagini politiche alle prossime elezioni per il rinnovo quinquennale del Parlamento Europe già fanno a gara, con sfumature diverse, nel professarsi critici contro questa aggregazione monetaria e verso ogni cosa provenga dai palazzi di Bruxelles, gli eurocrati stanno preparando in silenzio la più micidiale delle trappole a danno dei paesi eurodotati; una sorta di punto di non ritorno nei confronti della totale abdicazione delle residue sovranità nazionali.

E’ drammatico, e nel frattempo stesso patetico per le sorti del Paese, il modo con cui molti esponenti politici italiani trattano argomenti economici pubblicamente senza averne le più che minime conoscenze tecniche e ignorando completamente i vincoli e i dettami sempre più pressanti imposti dalle regole dei Trattati sottoscritti.

DAL TRATTATO DI MAASTRICHT AL FISCAL COMPACT

Cerchiamo però di spiegarci meglio. Il “vecchio” Trattato di Maastricht, firmato nel 1992 e ribadito da quello di Lisbona entrato in vigore nel 2009, prevedevano essenzialmente la possibilità dell’indebitamento massimo del 3% rispetto al rapporto con il PIL e il contenimento del debito non oltre il 60%, sempre secondo l’indicatore della crescita. Successivamente si sono voluti irrigidire ulteriormente questi criteri di convergenza, introducendo il Trattato sulla Stabilità, meglio conosciuto come Fiscal Compact, dove veniva introdotto il principio del pareggio di bilancio, quindi la non più possibilità per uno Stato membro di ricorrere all’indebitamento, inserendo il vincolo anche nel dettame costituzionale, e una metodologia precisa e pianificata per il rientro delle eccedenze delle porzioni di debito pubblico superiori al citato 60% nel limite temporale di venti anni.

IL FISCAL COMPACT SECONDO IL PROF. GUARINO

Premesso che l’Italia è stato per ora l’unico Paese dei 25 firmatari ad averlo inserito in costituzione (art.81), ricordiamo che l’impianto del Fiscal Compact è illegittimo secondo le puntuali deduzioni del prof. Giuseppe Guarino, in quanto lo stesso testo precisa che si applica se non in contrasto con altri Trattati su cui si fonda l’Unione Europea (art.2) mentre questi ultimi specificano chiaramente che il limite dell’indebitamento è del 3% (art. 104 c di Maastricht e art.126 di Lisbona) e non lo 0% come invece recita l’art. 3, n.1, lett.a del Trattato in questione.

IL MICIDIALE, ULTERIORE, MECCANISMO AUTOMATICO

Ma la bruciante crisi economica che da più di 5 anni attanaglia l’eurozona e che ha fatto precipitare tutti i dati macroeconomici, ha indotto la Commissione Europea ad “escogitare” un micidiale ulteriore meccanismo automatico per il rispetto delle regole previste dal Fiscal Compact che altrimenti rischiavano di rimanere lettera morta se affidate solamente alle “volontà” dei rispettivi governi nazionali. 

LA SORPRESINA POST ELETTORALE ESCOGITATA DA BARROSO

Pertanto, mentre per soddisfare i fabbisogni finanziari in regime di “pareggio di bilancio”, per noi tollerato al 0,5%, dovremo far ricorso solo ed esclusivamente a tagli della spesa pubblica e/o aumenti della pressione fiscale a carico delle famiglie e del sistema delle imprese che saranno in questo modo considerati a tutti gli effetti i soli “prestatori di ultima istanza” e non come in tutto il resto del mondo dove questa funzione è svolta correttamente e proficuamente dalle proprie Banche Centrali, per ottemperare lo scoglio della riduzione del debito, la Commissione guidata da Barroso ci ha riservato una bella sorpresina post elettorale. Non guasta ricordare comunque in questa sede che la spesa primaria, cioè al netto degli interessi sul debito, è già comunque inferiore alla spesa sostenuta dalla media dei Paesi dell’eurozona, essendo minore a quella di paesi come la Francia, Finlandia, Austria, Belgio, Germania e Olanda (dati ufficiali AMECO) e che pertanto il futuro reperimento di fabbisogni finanziari sarà soddisfatto con sempre maggiore ricorso alla fiscalità e circostanziando il problema della spesa a criteri qualitativi e non quantitativi.

LE VARIE INTERPRETAZIONI

Poi c’è la questione sulla data di applicazione del Fiscal Compact perché anche qui piovono interpretazioni: nei gineprai dei Regolamenti europei ne spunta uno, il 1467/97 e successivi, che ci dà una piccola mano in quanto prevede che uno Stato membro, soggetto precedentemente a una procedura per disavanzi eccessivi, soddisfa i requisiti per un triennio a decorrere dalla correzione. Pertanto, essendo stata chiusa la procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia il 29.5.13, secondo l’interpretazione della Banca d’Italia dovrebbe scattare dal 2015, perché le lancette le fa partire dal momento dell’inizio della manovra correttiva avvenuta nel 2012, mentre per il Ministero dell’Economia dal 2016, poiché considera invece la chiusura della procedura d’infrazione del maggio 2013!

QUANTO CI COSTERA’ LA STANGATA

In ogni caso se volessimo ad oggi simulare l’entità delle risorse necessarie per soddisfare la riduzione dell’eccedenza del debito così come previsto dal F.C. e tenendo conto dei dati previsionali forniti dal FMI sulla dinamica del debito e del PIL nel 2014 e 2015 nel nostro Paese, dovremmo reperire 38,4Mld di euro, ma a conti fatti potrebbero essere molti di più perché le elaborazioni che in genere fornisce il FMI sulla crescita si sono rivelate essere sempre troppo ottimistiche e non veritiere.

IL FAMIGERATO RUOLO DI UN COMITATO DI ESPERTI…

Ma in ogni caso il Fiscal Compact, almeno come lo conosciamo ora, quasi sicuramente subirà una terrificante evoluzione perché essendo la Commissione Europea conscia che in pochi riusciranno a rispettarlo, ha incaricato un Comitato di esperti di redigere un altro “pilota automatico” per il suo rispetto tecnico. Questo Comitato, composto da 11 titolati economisti europei di cui neanche uno italiano e presieduto dall’integerrima ex banchiera centrale austriaca Gertrude Trumpel-Gugerell, ha terminato i lavori a fine marzo facendo propria la proposta del German Council of Economics Expert avanzata alla fine del 2012 che prevede la costituzione di un Fondo Europeo di Redenzione, ovvero l’ERF, acronimo di European Redemption Fund. Questa proposta, su cui il sottoscritto era già sulle tracce già un anno fa, tanto da inserirla a pag.164 del saggio “Europa Kaputt” del giugno 2013, è stata presa a totale riferimento nel lavoro degli esperti incaricati da Bruxelles per ridurre coercitivamente le eccedenze di debito senza possibilità di moratorie e con modalità automatiche.

ECCO CHE COS’E’ IL FAMIGERATO ERF

Il micidiale ERF funziona essenzialmente in questo modo: tutti gli Stati aderenti conferiscono a un Fondo specifico le eccedenze delle porzioni di debito superiori al 60% del PIL e lo stesso Fondo, per finanziarsi e tramutare i titoli nazionali con quelli con garanzia comune, emetterà sul mercato dei capitali una sorta di super eurobond al cubo e avvalendosi della tripla A, concessa dalle Agenzie di rating alle emissioni della UE, potranno godere di tassi presumibilmente più bassi rispetto a quelli di molti paesi “periferici”.

GLI EFFETTI NEFASTI PER L’ITALIA

Ma siccome nessuno ti regala nulla per nulla, tantomeno i ragionieri esattori europei, in cambio viene pretesa a garanzia l’asservimento dei rispettivi asset patrimoniali nazionali, riserve valutarie e auree e parte del gettito fiscale (es. IVA). In questo modo si firmano cambiali in bianco e la riduzione del debito avverrà automaticamente con la vendita dei beni patrimoniali seguendo la logica del curatore fallimentare più orientata a soddisfare i diritti del creditore che del debitore se non si sarà in grado di versare gli importi previsti ogni anno e per vent’anni! Praticamente per noi una specie di euro Equitalia esattrice-liquidatrice o come avviene con la cessione del quinto stipendio, rimanendo però con il residuo del debito (il 60%) da onorare senza più contare sul “collaterale” patrimoniale!

LA TRISTE FINE DELLE PARTECIPAZIONI DI STATO

Le partecipazioni di ENI, Finmeccanica, Poste, ENEL ecc., beni immobiliari pubblici, riserve auree e valutarie, saranno liquidate automaticamente con il pericolo che saranno letteralmente svendute a favore dei soliti noti, per soddisfare il criterio della riduzione ventennale del debito, visto che attualmente la nostra eccedenza di debito ammonta a circa 1170 Mld., pari al 73% del PIL essendo ora al 133%.

LA TOTALE ABDICAZIONE DELLA SOVRANITA’

Inoltre in questo modo il nostro debito, anche se attualmente espresso in euro, ma di fatto valuta per noi estera in quanto non la stampiamo, almeno è ancora sotto la giurisdizione italiana, mentre con la conversione in emissioni comuni (eurobond), si tramuterebbe in giurisdizione internazionale e non più convertibile in valuta nazionale in caso di uscita poiché non più applicabile il principio di Lex Monetae previsto dagli artt.1277 e 1278 del nostro codice civile. Si tratterebbe dell’abdicazione più totale di qualsiasi residuo di sovranità e saremo depredati di tutto il nostro patrimonio pubblico. E poi per la nota massima “Moneta buona scaccia la cattiva”, il residuale di debito del 60% sul PIL, che rimarrebbe comunque in nostro carico, subirebbe un forte deprezzamento in termini di tassi pur espresso sempre in euro!

Ma possiamo star pur certi che la nostra classe politica, già fortemente deficitaria sulla conoscenza del funzionamento del Fiscal Compact nonostante l’abbia votato e inserito in Costituzione, ignora completamente cosa stiano tramando a Bruxelles e la decisione politica sull’applicazione dell’ERF, il cui iter è da scommettere inizierà un minuto dopo la chiusura delle urne il 25 maggio prossimo, li troverà totalmente impreparati.

Ma questa volta c’è in gioco il destino, il futuro e l’identità del nostro Paese e sono certo che la corretta informazione preventiva farà in modo che la coscienza dei cittadini italiani compenserà l’incapacità dimostrata fino ad ora dalla classe politica nel non comprendere l’irreversibilità di certe scelte scellerate!

giovedì 3 aprile 2014

Le pillole rosse - 7° pillola: i dipendenti pubblici

Pensavo francamente di aver terminato la serie delle"pillole rosse": dalle conseguenze dell'uscita dall'euro al debito pubblico, dalle privatizzazioni alla produttività, mi sembrava di aver trattato tutte le questioni che il Partito Unico Dell'Euro (per gli amici, ma anche no, PUDE) ci presenta per spaventarci o colpevolizzarci.

Mi sbagliavo.

C’è un acuto interesse in America per vedere se sarà un esecutivo che farà finalmente le riforme che si tutti aspettano da moltissimi anni e che Mario Monti ha tentato di fare prima di rinunciare per andare avanti a fare una politica normale" ... "Le relazioni cambieranno se Renzi cambia linea e se smette di strangolare l’economia italiana con le tasse. Deve tagliare la spesa pubblica, questo è il punto chiave. Se farà così le cose andranno certamente meglio" ... Cosa dovrebbe fare Renzi? ”Licenziare come minimo 500mila dipendenti pubblici come hanno fatto in Inghilterra e con quei soldi risparmiati tagliare le tasse di 15 miliardi di euro sia sui redditi personali sia sulle aziende. Così finalmente potrà iniziare un processo di emancipazione dell’Italia”. (intervista di Edward Luttwak ad Affari Italiani, link qui). Ed ancora va bene, sentite qui: " Nel pubblico impiego vi sono un milione di dipendenti in esubero, anche qui si è trattato di uno scambio: io ti assumo e tu mi voti. Con la spending review si è incominciato a mettere mano al problema, lo Stato dovrà dimagrire di un milione di dipendenti pubblici che occupano falsi posti di lavoro." (Stefano Zamagni, prodiano, già Preside della Facoltà di Economia di Bologna, link qui).

La ciliegina però si è avuta qualche giorno fa, in Veneto, con la nascita di un vero e proprio partito anti dipendenti pubblici: il nome non lascia adito a dubbi "Licenziare i dipendenti pubblici". Il fondatore è un imprenditore, Sante Carraro, simpatizzante del movimento dei "Forconi":  "Non ci siamo inventati nulla – spiega all'Intraprendente - Da sessant’anni a questa parte la riduzione del costo dell’apparato pubblico è tra i primi punti del programma elettorale di ogni formazione politica, poi puntualmente violata appena scrutinate le urne. Con la conseguenza che il sistema è al collasso". Soluzione? "Possiamo applicare la regola del taglio lineare che prevede una sforbiciata del 50 percento dei dipendenti pubblici, ma con incarichi dirigenziali. Così facendo riusciremo a risparmiare oltre 100 miliardi di euro" (servizio del Tgcom24, riportato qui).

Insomma, il bersaglio su cui si concentrano le attenzioni dall'estero e dall'Italia sembrano essere diventati i dipendenti pubblici, bersaglio per la verità non nuovo, anzi, si potrebbe definire un "evergreen" che va sempre bene, del quale Matrix (non la trasmissione e neanche il film: leggetevi la prima pillola se non lo sapete) è ben contento di mostrarvi le vergogne, con i statali che timbrano il cartellino e poi vanno a fare la spesa o al bar, o si mettono in malattia e poi fanno un altro lavoro, ecc. ecc..

Ma stanno veramente così le cose? Abbiamo una montagna di dipendenti pubblici, pasciuti e nulla facenti?
Vediamo come al solito qualche dato:


Dal 2001 al 2011 i dipendenti pubblici sono diminuiti da 3.670.000 circa, picco massimo del 2002, a meno di 3.400.000: una diminuzione di 270.000 unità, pari al 7,4% del totale degli occupati. Certo, 270.000 impiegati pubblici in meno (l'equivalente esatto degli abitanti di Venezia) sono un buon numero, ma, si dirà, ancora ce ne sono ben 3.400.000, un esercito. Chissà quanto di più degli altri Paesi europei...

fonte: www.concorsimagazine.it
A quanto pare, incredibilmente siamo nella media UE: se confrontiamo gli altri grandi Paesi, abbiamo circa lo stesso numero della Germania, meno degli addetti francesi e più degli inglesi (che hanno un'amministrazione pubblica storicamente molto snella). Il dato è confermato da questo articolo del Sole24Ore del settembre 2012 che titola: "Italia patria dei dipendenti pubblici? No, nella media: 58 impiegati ogni mille abitanti, come in Germania". Certo, il confronto con tutta la popolazione potrebbe essere fuorviante: vediamo allora in proporzione alla popolazione occupata

fonte: OECD 2012
Anche qui, nonostante vi siano Paesi con tassi di occupazione migliori, che rendono il rapporto dip. pubblici/occupati più basso, l'Italia si piazza nella media OCSE, che è circa del 13%. Se volete una visualizzazione migliore eccola, riferita allo studio del 2010 della Aran, Agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche Amministrazioni

fonte: Aran su dati ISTAT
Come si vede l'Italia vanta un numero di impiegati pubblici del tutto in linea con le media.
Forse però i nostri dipendenti pubblici guadagnano troppo, sicuramente più del lavoratori privati e certamente con una difesa migliore del potere di acquisto del proprio stipendio. Forse.

              
             

fonte: dati ISTAT 2011
Qui sopra sono riportati gli stipendi annuali medi dei lavoratori dipendenti del settore privato, comprensivi di indennità e mensilità aggiuntive (tredicesima, ecc.): la media del settore privato, riportato nell'ultima pagina della tabella è di 23.316, ma si va dai 16.304 dei lavoratori nelle scuole private laiche - che è inferiore persino alla media dei lavoratori agricoli (16.738), il che la dice lunga sulle privatizzazioni, come abbiamo visto - ai 52.462 dei giornalisti (quelli privilegiati che hanno un contratto fisso). I lavoratori dei servizi mediamente guadagnano di più di quelli della manifattura. Bene, ed il settore pubblico? Eccolo

fonte:dati ISTAT 2011
La media è effettivamente un po' più alta, 24.363, ma gli stipendi sono piuttosto omogenei, senza picchi in alto o in basso: a sorpresa i più alti risultano quelli delle Forze dell'Ordine, seguiti dai militari: il più basso mediamente invece è quello dei dipendenti delle Regioni e delle autonomie locali.
Dall'esame comparato si ricava quindi che tra settore pubblico e settore privato, a parità di contratto, non vi sono evidenti e stridenti differenze di trattamento economico. Ma vediamo ora come i vari stipendi si sono difesi dall'inflazione. Questi sono i dati a dicembre 2013 (per approfondimenti e per reperire lo studio completo vedere qui)


A quanto si vede sono i redditi del settore privato (linea grigia) ad essersi difesi meglio dall'inflazione, attualmente anche rispetto agli stipendi delle Forze Armate e dell'Ordine (spezzata nera). Negli ultimi tre anni l'adeguamento per gli stipendi pubblici è stato zero, come si vede dall'andamento piatto delle linee verdi e blu, a differenza di quelli privati che comunque, pur con qualche erosione (le linee grigia e rossa si avvicinano) sono cresciuti uguali o sopra il tasso di inflazione.

Niente di quello che ci viene continuamente detto è vero, dunque, e non è una novità; certo, nel privato contratti a tempo indeterminato se ne fanno sempre meno, ma la maggiore stabilità dell'impiego pubblico è stato comunque pagato dai lavoratori con la perdita di potere di acquisto reale e con il blocco dei turnover che ha portato all'aggravio dei compiti che ricadono sui dipendenti, specie nei settori della Sanità e della Giustizia, colpiti come sempre dai tagli lineari (dell'Istruzione e della Ricerca non è il caso neanche di parlarne...).

Solo un'ultima considerazione: rende sgomenti il furore ideologico che questi soggetti che invocano tagli draconiani ed a cui i dati sopra esposti non dovrebbero essere estranei, esprimono nei confronti dei lavoratori pubblici; proporre il taglio di un milione di dipendenti, che significa mettere in difficoltà circa tre milioni di persone, solo per poter recuperare qualche punto di debito pubblico, pagandolo con la maggiore inefficienza dei servizi e con l'abbandono di fatto di una tutela generalizzata dei cittadini a cui i servizi sono destinati - e la chiusura di ospedali e scuole, come la soppressione di tribunali, tutte cose documentate dai giornali e fonte recente di manifestazioni e proteste, sono lì a testimoniarne la verità - è una cosa che può essere spiegata esclusivamente con il cinismo con il quale l'ideologia liberista dominante considera i lavoratori: un mero fattore economico di produzione, una "merce lavoro" che si può gestire, ridurre od abbattere, per riequilibrare un sistema di libera concorrenza o si può affamare, comprimendo il loro salario, per riaggiustare una bilancia dei pagamenti.

Per questo alla fine saranno sconfitti.






martedì 1 aprile 2014

Euro Truffa intervista il Prof. Joseph Halevi


di Euro Truffa (intervista al Prof. Joseph Halevi)

1) Prof. Halevi, in un suo lavoro scritto con Riccardo Bellofiore dal titolo “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”, sostenete che, con la grande crisi capitalistica del 2007-2008, siamo dinanzi alla terza crisi della teoria economica. Può spiegarci, brevemente, cosa intendete? Quali sono state, invece, le prime due crisi?

La crisi del 2007 è, ovviamente, anche una crisi di tutti quegli approcci teorici che celebravano l’efficienza dei mercati finanziari come trasmettitori di informazioni affidabili per non dire perfette. Ma questo non sarebbe un granché. La fase apertasi col 2007 mette in crisi anche le visioni secondo cui dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il sistema economico sarebbe stato gestito da politiche neoliberiste volte a ridurre il ruolo dell Stato a favore del mercato.

Invece no, per molti versi lo Stato o organismi statuali insindacabili (come quelli dell’UE) hanno aumentato la loro azione ed ingerenza negli affari economici intervenendo attivamente nello spostamento dei rapporti economici e sociali a favore non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici prescelti (Bellofiore ha scritto delle cose fondamentali sulla falsa rappresentazione del neoliberismo da parte della sinistra).

Infine si è dimostrata errata l’idea che la crisi sia il prodotto della moderazione e stagnazione dei salari (negli Usa prima e progressivamente anche in Europa) che ha spinto le famiglie ad indebitarsi. Credo che la dinamica sia stata differente. La stagnazione salariale e le trasformazioni finanziarie, sempre appoggiate dallo Stato fin nei minimi particolari, hanno permesso di acchiappare due piccioni con una fava. Da un lato la stagnazione salariale riduceva la pressione sul costo del lavoro e –cosa ben più importante del costo del lavoro– riduceva soprattutto la possibilità di resistenza organizzata alle decisioni manageriali. Negli Stati Uniti, le delocalizzazioni industriali, prima verso il Messico poi, massicciamente, verso la Cina sono andate pari passo con l’indebolimento salariale e sindacale che sono stati gli strumenti sociali usati per effettuare tali delocalizzazioni.

In parole povere: non avrebbero potuto traslocare con questa facilità se i dipendenti non fossero stati già in crisi profonda tale da non poter offrire grande resistenza. Dall’altro lato le trasformazioni finanziarie, l’invenzione di nuove forme di moltiplicazione dei titoli, sempre rese possibili dalle politiche degli organismi statali, hanno creato ciò che Riccardo Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario privatizzato. In altri termini l’indebitamento non è stato soltanto l’elemento che ha controbilanciato la stagnazione salariale. È andato molto più in avanti. Il sistema giuridico statale ha dato facoltà alle società finanziarie di cercare e creare i soggetti da indebitare anche nelle classi di reddito più basse che altrimenti non avrebbero potuto accedere ad una tale massa di prestiti. In questo modo dagli USA è stata sostenuta la domanda effettiva MONDIALE: tramite le delocalizzazioni e con le conseguenti le importazioni dal resto del mondo. A ben guardare i paesi che negli anni 1985-2007 hanno avuto un tasso di crescita degno di questo nome sono Cina, India, USA e pochi altri. Negli USA il tasso di crescita pro capite è stato moderato ma quello aggregato, che include l’aumento di popolazione è stato maggiore che in Europa o Giappone. Pertanto il processo che è sfociato nella crisi del 2007 evidenzia come sia erronea la contrapposizione di capitalismo finanziario ad economia reale. La fase iniziata con le politiche reaganiane si basa sull’integrazione dei due aspetti al punto che è impossibile fare delle distinzioni. Le altre due crisi sono quella della fine di Bretton Wooods nel 1971 connessa alla guerra del Vietnam che fece deragliare propio la forza del capitalismo post-1945 su cui poggiava l’intervento USA in Vietnam, cioè il keynesismo militare. Per questo nel 1972 la grandissima Joan Robinson nel suo famoso discorso al convegno dell’American Economic Association a New Orleans individuò nella finedel sistema post bellico detto di Bretton aWoods una seconda crisi della politica e teoria economica: cioè del keynesismo pratico –quello militare– e di quello insegnato nella manualistica universitaria che presenta la disoccupazione keynesiana come un problema di breve periodo. Infini, la prima crisi fu quella degli anni 30 che portò alla cosiddetta rivoluzione keynesiana sebbene fin dal 1929 esistessero i lavori del marxista polacco Michal Kalecki. che sui problemi sollevati poi da Keynes aveva svolto considerazioni più pregnanti.

2) Il capitalismo, dagli ultimi tre decenni, si è mosso sui binari della precarizzazione del lavoro, della finanziarizzazione e di quella che lei, Francesco Garibaldo e Riccardo Bellofiore chiamate “centralizzazione senza concentrazione”. Secondo lei, l’Euro (e i vincoli che esso comporta) può essere letto come totalmente organico a questo processo capitalistico globale, visto che si stanno imponendo, con le mani legate, proprio quei processi di flessibilità del mercato del lavoro e di distruzione dei diritti sociali? Insomma, l’Euro come strumento è un qualcosa di ben più ampio rispetto alla crisi dell’Eurozona?

Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania… L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio, l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. Ed infatti Olanda e Austria protestarono ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta ovviamente.

3) Continuando sul tema dell’Euro, oggi se ne dibatte sicuramente molto di più rispetto a qualche anno fa. Molti continuano in un suo tenace “oltranzismo”, come ha detto Emiliano Brancaccio; altri invece ritengono che bisogna uscirne, senza però chiarire se continueranno o meno con il filone di pensiero economico dominante o ritorneranno ad un keynesismo di matrice classica, cioè proponendo generiche politiche fiscali espansive volte al sostegno della domanda aggregata. Nello specifico, come pensa dovrebbe agire una nazione come l’Italia, immeritatamente inclusa tra i PIIGS (pur essendo un paese con un elevato risparmio privato), per trovare una soluzione ai problemi derivanti dall’Euro? È sufficiente tornare a Keynes oppure bisogna andare oltre? Qualora l’opzione fosse proprio l’uscita dall’UME, come dovrebbe essere gestita tale situazione?

Purtroppo gli economisti non danno alcuna importanza alla struttura giuridico statuale dei sistemi economici che dovrebbero studiare. Non si può uscire dall’UME se non si esce anche dall’UE. Per poter permettere l’uscita soltanto dall’UME sarebbe stato necessario includere nei Trattati una separazione tra Eurozona e UE cosa che non c’è, come non c’è alcuna clausola di uscita nei testi che legalizzano l’Unione Monetaria. Bisognerebbe studiarsi l’economia politica dell’UE e dell’UME. Invece si procede per modellini aprioristici infarciti di ipotesi normative (così andrà bene o male, ecc…) senza conoscenza della storia e dei rapporti