mercoledì 31 dicembre 2014

Considerazioni di fine anno: la democrazia è faticosa e, per alcuni, fastidiosa



Stavo scrivendo un post "tecnico" sul lavoro (sarà un viatico per iniziare bene il 2015...) quando, girellando un po' su Facebook - che non amo (mi perdoneranno gli amici che ho su FB) perché molto spesso è una sentina di livore ed autorazzismo, pieno, se va bene, di facciamoqualcosismo e bisognaunirsituttiperlaPatria (salvo dividersi poi ferocemente per un pur minimo diverso "credo" sovranista), se va male di vimeritatetutto e sietedeirivoluzionaridatastiera (gli altri, naturalmente) - girellando, dicevo, mi sono imbattuto, prima nella proposta lanciata da Scenari Economici di candidare il buon Rinaldi a Presidente della Repubblica (hai il mio voto, Antonio!), pieno di commenti del tipo "magari, ma gli italiani sono pecoroni e pigri e menefreghisti e cinici, quindi è tutto inutile", poi nel post di Arlette Zat che riportava un post di Bagnai con una frase meravigliosa che probabilmente conoscerete, ma che riporto per quei pochi che ignorano Goofynomics:

"Noi avremmo il diritto di sbattercene dell'economia, come della medicina, o della botanica. In una democrazia normalmente costituita dovrebbero essere i politici a doverla capire, l'economia, per indirizzare il paese secondo il mandato politico ricevuto dagli elettori. Non starebbe agli elettori farsi carico di conoscere tutto lo scibile, la Repubblica dei filosofi non esiste perché non può esistere, la funzione alta della politica dovrebbe proprio essere questa, questo tipo di mediazione culturale."

Successivamente ho letto la domanda secca di uno che, rivolgendosi agli "economisti" (che sono ormai le moderne Sibille), chiedeva in pratica "glie 'a famo?" con conseguenti risposte/commenti del tipo "siamo spacciati", condite dal solito "colpa di chi non si informa e vive serenamente beato e italianimerdesimeritanotutto" (scritto probabilmente da un Pari inglese...).

Non so a voi, ma a me l'insieme di questi elementi mi ha spinto ad una riflessione: la democrazia è faticosa. A questa si è collegata una seconda, un tantino meno ovvia: la democrazia non è compatibile con un capitalismo di tipo liberista.

Questa seconda affermazione, mi direte, non è nuova: già J.P. Morgan, in un suo paper aveva chiarito che le Costituzioni democratiche dei Paesi del Sud Europa, nate dalle lotte contro la dittatura, erano incompatibili con l'applicazione di politiche liberiste "pure" come quelle che vuole implementare la UEM; la differenza però è in un non trascurabile dettaglio: non una democrazia di impianto sociale/socialista è incompatibile, ma la democrazia tout court. Che è un bel passo avanti.

Partiamo però dalla prima questione: la democrazia è faticosa, perché presuppone una coscienza ed una capacità di comprensione che solo una formazione culturale solida di base dà e obbliga ad interessarsi di quello che accade al di fuori del nostro vissuto quotidiano. Il primo punto spiega anche perché la democrazia non è esportabile, come fosse un pacco regalo, a Paesi che per il loro percorso storico non hanno ancora una sufficiente alfabetizzazione di massa o comunque le condizioni socio-culturali per svilupparla: la democrazia è una pianta che ha bisogno di trovare il terreno adatto. Ma non basta. La pianta va innaffiata con la partecipazione collettiva, quella che viene chiamata opinione pubblica, che permetta di valutare le scelte politiche ed indirizzare tali scelte con il voto consapevole. 

Qui però sorge il problema: se un cittadino ha legittimamente il diritto di non essere un esperto di economia, di diritto, di non essere un filosofo, come dice giustamente il professor Bagnai, perché dovrebbe darsi la pena di essere informato, che già ha il suo lavoro che lo impegna e tanti altri pensieri per la testa? Perché la democrazia rappresentativa, come descritta dal noto economista, forse sta mostrando dei limiti invalicabili e per salvarci dobbiamo faticare di più

Il discorso di Bagnai è teoricamente corretto, ma presuppone che vi sia una categoria di cittadini, i politici, che, delegati appunto dal popolo a curare gli interessi della Nazione, lo facciano con dedizione, altruismo, capacità ed onore (questo riecheggia non a caso il contenuto dell'art. 54 Cost. "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore"). In altre parole tali cittadini (primi inter pares) dovrebbero studiare e capire le materie di cui sopra, per decidere cosa è meglio per il popolo. Si dirà: ma non devono diventare dei tuttologi, ci sono i tecnici, ovvero gli esperti, i quali dovranno fornire gli strumenti, già elaborati, per poter decidere. Giusto, ma come si può giudicare un parere tecnico, senza avere almeno dei rudimenti della materia, magari per contrastare un certo parere? Vedete, è il problema che hanno nel processo i Giudici con i consulenti tecnici, quando devono decidere: mi affido totalmente e con fiducia alle conclusioni del perito (e quindi decido secondo il SUO parere), o cerco di capire il contenuto della perizia, magari perché ci sono dei punti critici e non condivisibili (e decido secondo il MIO parere)? Un vecchio brocardo definisce il Giudice "peritus peritorum" e questa è/dovrebbe essere la linea prevalente: il magistrato è il "perito dei periti" e sta a lui l'onere e l'onore di decidere se conformarsi o meno al risultato della perizia, naturalmente motivandolo.

Anche il politico quindi e a maggior ragione, dovendo decidere dell'interesse di tutti, non di poche parti, dovrebbe essere un peritus peritorum e voi capite la difficoltà in una realtà estremamente complessa come l'attuale. Questa difficoltà tra l'altro è ciò che ha portato negli anni '80 ed ancor più oggi al mito del "governo tecnico" caldeggiato, come sempre, dai liberisti: se il politico non ci arriva e vede solo il suo interesse privato e quello delle clientele ad esso legate, allora che vadano a governare i "tecnici", scevri da ogni interesse politico-elettorale, che sanno cosa bisogna fare e possono, appunto per la loro neutralità, agire senza condizionamenti. Per la critica a questo pensiero, soprattutto per la dimostrazione della "fallacia dell'ottimo economico" vi rimando al libro di Bagnai, appena uscito, "L'Italia può farcela"; qui ci limiteremo a dire che la politica ha una funzione inalienabile di indirizzo che deve essere preservata. Ma per preservarla occorre che i politici siano preparati e mediamente colti, ovvero che vengano scelti con criteri di merito e capacità. E qui il sistema democratico rappresentativo mostra già dei limiti. Sono ormai decenni che la classe politica scelta o imposta ai cittadini o non è all'altezza del suo compito o tradisce il mandato popolare, per interessi di una sola parte, di solito chi paga la campagna elettorale e può garantire una lunga carriera (ed un bel posto alla fine del mandato).

Si è quindi creata una classe di "ottimati" tanto radicata, quanto incapace o collusa, che di fatto ha reso un mito la rappresentanza delegata, quella per cui si scelgono via, via le persone più capaci e ci si affida al loro governo, buttando solo un occhio di tanto in tanto su quello che fanno, pronti a punirli con il (mancato) voto alle prossime elezioni. Forse non è mai stato così, questa è evidentemente una favoletta, ma per lo meno si tendeva almeno nelle dichiarazioni a questo ideale. Ora ci dicono che chi pone dei dubbi sullo splendido e progressivo percorso attuato dal Governo è un gufo...

Quindi ricapitolando una democrazia rappresentativa che funzioni presuppone una doppia fatica: quella dei politici ad essere pronti e preparati a gestire la Res Publica, con un'attenzione all'interesse collettivo e quella dei cittadini di controllare che ciò venga fatto bene e appunto nel loro interesse. E' possibile attualmente? Probabilmente no, e comunque, qui è il limite invalicabile, se e solo se ci raccontano le cose come stanno, ovvero ci permettono di farci un'idea corretta, senza dover diventare noi stessi dei segugi della notizia e degli esperti dello scibile umano. E qui ci vorrebbe un saggio solo sul problema dell'informazione, per il quale, oltre alla lettura e visione di questo post di Marcello Foa, posso solo rimandarvi ad un altro aspetto interessante da me trattato, ovvero il paradosso della troppa informazione.

Ecco dove la democrazia rappresentativa mostra di essere purtroppo fuori dal nostro tempo: essa presuppone una specie di "patto sociale" duplice, da una parte che i politici delegati non tradiscano il popolo che li ha eletti e non li conducano alla distruzione per interessi altri e magari stranieri (fischiano le orecchie, senatore Monti?), dall'altra, visto che i politici sono uomini e non angeli, che i mezzi di informazione facciano realmente il loro lavoro, che sarebbe quello di dare notizie, possibilmente vere, e non opinioni e veline di spin doctors, così da permettere alla gente, senza troppo impegno e studio, di farsi una corretta opinione ed esercitare il diritto di giudizio e scelta, tramite il voto (ed infatti si dovrebbe poter votare, vero Renzi?). Un patto questo che evidentemente non sussiste più e forse non ha più le condizioni per sussistere.

La soluzione? Io non la so, ma i liberisti ne hanno una ottima come dicevo: cavalcare l'onda ed abolire del tutto la democrazia, prima informalmente, tramite continue scelte "emergenziali" e "necessitate" (che, purtroppo, impongono tempi rapidi e decisioni che non possono aspettare il compimento di iter democratici, lunghi e laboriosi...), poi, quando la rana-popolo è abbastanza bollita da considerare l'emergenza vera o presunta la normalità (notato quanti bei decreti leggi rapidi e spediti fanno gli ultimi governi, senza uno straccio di reale urgenza e necessità, nel silenzio imbambolato o peggio complice dell'opinione pubblica "colta"?), anche formalmente, per esempio abolendo una Camera.

Una vera democrazia presuppone una serie di check and balance (controllo e bilanciamento fra poteri) il più importante dei quali è il voto consapevole e libero del popolo. Ma un popolo consapevole magari non si fa spolpare per ripagare debiti esteri neanche propri e magari si fa due conti su come viveva prima e dopo l'avvento salvifico dell'euro e, sempre magari, si fa una sonora risata in faccia al Plateroti di turno che evoca il costo della benzina come quello dell'uranio se si esce dall'Eurozona (spero che le "pillole rosse" di questo blog le abbiate lette...). Ecco tutto questo da un po' fastidio a chi vuole manovrare liberamente, dentro e fuori l'Italia e siccome la formazione e soprattutto la curiosità di sapere si impara a scuola, ecco che la scuola magicamente va a picco e, a volte letteralmente, in macerie. Come dice quello bravo, tout se tient...

No, decisamente per alcuni la democrazia è fastidiosa e deleteria, un cancro da estirpare, cominciando con l'avvelenarne le radici, ovvero la Costituzione. Spero che, se mi avete letto fino ad oggi, lo abbiate ormai ben chiaro in mente.

Buon 2015.


venerdì 12 dicembre 2014

Il referendum che non c'è


Siamo in piena febbre referendaria.

Il Movimento 5 Stelle si è deciso e sta raccogliendo le firme per poter fare un referendum sull'uscita dall'euro, gli attivisti sono mobilitati e Grillo tuona contro gli scettici, come la Lega, ricordando che un referendum di indirizzo si può fare, perché si è già fatto nel 1989. quando fu chiesto al popolo italiano se avesse voluto che la Comunità Europea si trasformasse in un'Unione vera e propria, dotata di un Governo che rispondesse al Parlamento Europeo, dando quindi un mandato costituente a quest'ultimo.

Ha ragione Grillo? Purtroppo no.

Il referendum da lui citato fu introdotto con legge costituzionale 3 aprile 1989 n. 2 e constava di quattro articoli; all'art. 2 vi era il quesito vero e proprio, che riporto integralmente:

Art. 2.
1. Il quesito da sottoporre al referendum e' il seguente: "Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunita' europee in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunita'?".
Questa consultazione, del tutto anomala, dato che la nostra Costituzione non prevede la possibilità di indire un referendum di indirizzo, fu effettuata in via straordinaria e quindi non suscettibile di estensione analogica, perché in tutta Europa si stavano svolgendo consultazioni simili, al fine di capire se i popoli europei avessero voluto una vera e propria Costituzione europea. Poiché noi non avevamo uno strumento consultivo costituzionalmente previsto, come in Francia, Olanda ed Inghilterra, eccezionalmente fu introdotta con una deroga singola, la possibilità di interpellare i cittadini. Secondo molti giuristi, si trattò di un referendum ad oggetto impossibile a valenza meramente plebiscitaria, senza un vero potere di indirizzo, dato che si rivolgeva ad un organo non nazionale, come il Parlamento europeo.

Questa esperienza può essere ripetuta? La risposta è ancora no.

La fonte della legge in deroga del 1989, che ribadisco non ha introdotto nulla nel nostro ordinamento in via generale, era lo stesso Trattato di Roma, il quale prevedeva espressamente che l'eventuale previsione di un potere costituente fosse sottoposto a ratifica da parte di tutti gli Stati firmatari. Nei Paesi dove tale strumento era legislativamente previsto, tale ratifica sarebbe avvenuta con un referendum popolare, altrimenti sarebbe stato il Parlamento a ratificare, come in effetti è avvenuto in vari Paesi, come la Germania, la Spagna, L'Austria e la Grecia. Era quindi un trattato internazionale che fondava il diritto di procedere con uno strumento non ordinario, e fu in base a questa legittimazione ed al consenso unanime politico che la legge potè essere promulgata. In Italia il Trattato era già stato ratificato dal Parlamento a larghissima maggioranza (con esclusione di Rifondazione Comunista e della Lega che votarono contro) e quindi giuridicamente il consenso era già stato prestato, ma, per avere una legittimazione popolare, fu deciso di effettuare una consultazione dei cittadini, peraltro senza prima operare alcun tipo di informazione ed ancor meno di discussione del tema posto all'attenzione: il risultato fu un plebiscito emotivo a favore della delega costituzionale con l'88,1% di voti positivi.

Per potersi avere un nuovo referendum consultivo (che comunque non impegnerebbe in alcun modo il Governo) dovrebbe pertanto essere proposta una nuova legge costituzionale per una deroga ad hoc, questa volta senza legittimazione, neppure "morale" da parte di una fonte internazionale. A parte ciò, e le conseguenti resistenze giuridiche ad una legge siffatta, questa dovrebbe essere sottoposta al procedimento, previsto dall'art. 138 Cost, il quale prevede due distinte votazioni delle due Camere ripetute con un intervallo di almeno tre mesi fra l'una e l'altra, e la seconda con maggioranza qualificata; se nella seconda votazione non si raggiunge il voto favorevole dei 2/3 di ciascuna delle Camere, la legge può essere sottoposta a referendum confermativo, se richiesto da 1/5 dei membri di una Camera o 500.000 elettori o cinque Consigli regionali, e non è promulgata finché non raggiunge al referendum la maggioranza assoluta dei votanti.

Come si può notare, non è un procedimento né semplice, né breve e presuppone una volontà politica uniforme nel Parlamento. Esiste attualmente questa volontà in tema di uscita dall'euro? Evidentemente no, ciò significa che una proposta di legge costituzionale per introdurre una consultazione in deroga rischierebbe di fallire, non raggiungendo neppure la maggioranza assoluta necessaria per sottoporla a referendum.

Se comunque si ammettesse che tale procedimento possa andare a buon fine, poi ci sarebbe comunque la necessità di indire ed organizzare il referendum, con un quesito che possa passare il vaglio della Corte Costituzionale. Questione questa piuttosto delicata, in quanto qualsiasi quesito sottoponesse ai cittadini una decisione che influisse negativamente sulla partecipazione a trattati internazionali già ratificati, si scontrerebbe con il divieto di referendum abrogativo su tali temi previsto dall'art. 75 Cost.. Anche qui i tempi stimati sono nell'ordine di 1 o 2 anni.

Tirando le somme, l'idea suggestiva di sottoporre ad un referendum di indirizzo - che in effetti sarebbe solo un referendum consultivo, come lo era quello sulla Costituzione europea, - la questione della permanenza nell'area euro si scontra contro difficoltà ed impedimenti che la rendono di fatto inutilizzabile come strumento di pressione politica e, nelle more, sottoporrebbe l'Italia a tensioni economiche che sono facilmente intuibili.

Un referendum sull'euro ha quindi la stessa possibilità di un referendum sulla partecipazione alla NATO: temi suggestivi e corretti (se volete il mio parere, io uscirei dalla NATO...), ma totalmente irreali e buoni solo per illudere chi crede nella possibilità della "democrazia diretta" in un Paese grande e complesso come l'Italia, nel quale è costituzionalmente previsto che siano i politici delegati con il voto, attraverso gli organi designati, a compiere, bene o male, le scelte per noi.








martedì 11 novembre 2014

L'Italia può vivere di esportazioni?

Ormai dovrebbe essere chiaro. Ne abbiamo parlato in questo post e anche in questo: l'Europa ed il sistema ultra-liberista al quale si ispira vogliono che diventiamo TUTTI dei Paesi export-led ovvero che basiamo la nostra crescita e prosperità sulle esportazioni e non più sulla spesa pubblica, considerata solo dannosa, fuorviante e fonte di corruzione. Non importa che uno Stato sia storicamente e per ragioni oggettive non adatto ad esportare, come ad esempio la Spagna, che, con tutti gli sforzi fatti, si attesta attualmente ad un 32% del PIL, o la Grecia, che ha un export pari al 27%, le economie devono essere stravolte per diventare esportatori come il Belgio all''85% o l'Olanda che è all'87% o la Germania, che ha un rapporto export/PIL del 52%.

E' lecito però domandarsi: è possibile che un Paese delle dimensioni dell'Italia possa vivere quasi esclusivamente di export? E quali sono le condizioni per farlo? E quali le conseguenze?

Iniziamo a ragionare su qualche dato: i quattro grandi Stati in Europa sono la Germania, la Francia, l'Italia e la Gran Bretagna ed il valore delle esportazioni di ciascuno nel 2010 (non ho dati per comparazione più recenti) era, 46% per la Germania, 28% per la Francia, 27% per l'Italia e il 29% per la Gran Bretagna; come si vede, tranne la Germania, gli altri grandi Paesi avevano nel 2010 esportazioni che pesavano poco più di 1/4 del PIL. Che cosa ha reso unica la Germania? Questo:


L'abbattimento del costo unitario del lavoro per tutto il periodo 2000-2009, con un salario reale che non solo non seguiva la produttività, ma addirittura scendeva in termini effettivi, non recuperando neppure il potere d'acquisto perso con l'inflazione.

Tanto in Europa lo sanno, che le ricette economiche che amorevolmente ci consigliano di attuare sono sostanzialmente l'abbattimento del costo del lavoro, attraverso una drastica deflazione salariale. Ma ammesso che si volessero attuare, si risolverebbero davvero i problemi di costo dei beni e si aumenterebbe notevolmente l'export? La risposta la troviamo in questi grafici:



Fonte: Eurostat
Il periodo favorevole per poter attuare una simile politica con successo è passato. La Germania, abbattendo il costo del lavoro poco dopo l'unione monetaria, ha potuto sfruttare il differenziale di inflazione così creato che ha avuto i suoi scarti maggiori fra il 2001 ed il 2005; poi è avvenuta la convergenza in Europa, come si vede dal primo grafico, ed i differenziali fra i tassi si sono appiattiti, arrivando attualmente ad una sostanziale deflazione. A questo punto il vantaggio accumulato dai tedeschi non è più colmabile; c'è un detto popolare che dice: "chi mena primo mena due volte", ecco, la Germania ha menato (e forte) per prima ed il vantaggio di prezzo che ne ha ricavato ha portato ai surplus che possiamo vedere qui:
Saldo partite correnti Germania su dati Bundesbank. Fonte: www.re-vision.info
Tale situazione non è più ripetibile come detto e ce lo dimostra anche il grafico dei prezzi alla produzione



Come si vede non c'è un problema di dinamiche dei prezzi della produzione in Italia, le quale risultano pressoché in linea con quelle europee, ed attualmente anche un po' più basse. L'unica maniera per diminuirle ulteriormente, nella fase attuale di deflazione, sarebbe di fare forti investimenti per ottimizzare la produttività o diminuire drasticamente la forza lavoro impiegata od il suo costo. Ciò non è possibile, o, se possibile, solo a fronte di fortissime tensioni sociali, come ci dimostrano questi grafici:








Cosa ci dicono questa raffica di grafici? Innanzitutto che gli investimenti con la crisi sono andati a picco, perché è andato a picco il risparmio privato; ciò significa che è impossibile nel quadro attuale effettuare miglioramenti produttivi, che oltretutto si dimostrerebbero antieconomici, visto la profonda crisi di domanda derivante dal crollo dei redditi in Italia, passati dall'essere sopra la media UE a sotto la media, battuti, tra i maggiori Paesi, solo dalla Spagna (portata ultimamente ad esempio...). Poi che gli investimenti pubblici non sono possibili perché... l'Europa non li vuole! Come si vede siamo l'unico Paese che rispetta i parametri del 3% di deficit, mentre la media EU è sotto, e Stati come la Spagna (come sopra...) sforano tranquillamente, con un deficit che nel 2013 si attestava al 6,6%. Questo comporta che lo Stato italiano non può spendere, né investire, e che pertanto la leva pubblica, che agisce in maniera anticiclica con gli investimenti diretti e con il supporto a quelli privati, non può essere utilizzata.

Rimane la contrazione degli occupati, non supportata però, come abbiamo detto, da investimenti in macchinari, e la deflazione salariale. Chiunque indichi questa strada deve fare però i conti con l'ultimo dei grafici proposti: il tasso attuale di disoccupazione. Siamo sopra la media UE, al tasso del 12.7%, ovvero ad un tasso mai raggiunto in tempo di pace. Un ulteriore aumento dei disoccupati porterebbe a conseguenze sociali gravissime; d'altra parte una riduzione salariale porterebbe ad un ulteriore crollo dei redditi degli occupati, non compensato dal modesto aumento degli impiegati, come è successo in Spagna, dopo le ricette della Troika 

Spagna, PIL pro-capite su dati Eurostat
Spagna, tasso di disoccupazione

Il PIL pro-capite è crollato, ovvero sono crollati i redditi dei lavoratori, e la disoccupazione è prima arrivata al 27%, per l'espulsione di lavoratori, poi è passata ad una media del 25%, che attualmente è in calo (anche se si dovrebbe analizzare la qualità dell'occupazione creata e il tasso di emigrazione che abbassa la percentuale di disoccupati), ma sempre attestandosi ad un spaventoso 23,7%, che, come abbiamo visto, non è compensato da un miglioramento generale dei redditi, ma anzi da un costante calo. Si lavora in (pochi) più, ma per molto meno.

E' questa la soluzione per l'Italia? Io credo di no. Quello che ha fatto la Germania non è ripetibile e tutto sommato non conviene neanche ripeterlo...

martedì 4 novembre 2014

Il "blocco" costituzionale alle norme internazionali: una chiave di lettura sovranista


Ha avuto un notevole risalto mediatico per il tema trattato (risarcimento dei danni di guerra causati dal Terzo Reich) la sentenza della Corte Costituzionale del 22 ottobre che ha sancito l'inapplicabilità della norma consuetudinaria internazionale che stabilisce l'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile, recepita dalla Legge 14.01.2013 n° 5 nel nostro ordinamento, in quanto in violazione dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell'uomo tutelati dalla nostra Costituzione. La decisione in sé ripercorre il filone di altre sentenze della Consulta emesse in riferimento a norme comunitarie, o del Concordato con la Santa Sede, secondo le quali "il limite che segna l’apertura dell’ordinamento italiano all’ordinamento internazionale e sovranazionale è costituito […] dal rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo, elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale" (sentenze n 30/1971 Gualtieri e 31/1971, Ghisotti-Siliprandi).

Quello che la rende interessante è però le modalità, espresse nella sentenza, con cui si attua questo limite: secondo la Corte infatti esiste un "blocco" all'entrata nel nostro ordinamento di una norma internazionale o sovranazionale, recepita ex art. 10 Cost., che sia in violazione dei diritti e principi fondamentali che costituiscono l'assetto del nostro sistema, come delineato nella Carta. Questo controllo, che avviene ex post, può essere effettuato esclusivamente dalla Corte Costituzionale, poiché le norme così recepite assumono rango equivalente a quello di norme costituzionali, ma una volta che ne sia stabilita la violazione è obbligo del giudice statuale di non considerarle esistenti e quindi vi è il potere/dovere di non applicarle.

Ě da rilevare che i Giudici ritengono pertanto sottoponibile al sindacato della Corte anche una norma di diritto internazionale c.d. “generale”, ovvero di tipo consuetudinario prevalente, recepita appunto ex art. 10, norma che ha una forza quale fonte di diritto certamente superiore a quelle “pattizie” che trovano la loro legittimazione nell’art. 11 Cost.: mentre infatti le prime trovano la loro legittimazione nell'avere alle spalle un uso anche secolare, nell'essere universalmente riconosciute come cogenti nei rapporti internazionali, le seconde trovano la loro legittimazione appunto in un patto, che può essere modificato o sciolto, e che ha una forza derivante esclusivamente dalla volontaria sottoposizione degli stati firmatari allo stesso. Risulta evidente che se è ammissibile un sindacato di legittimità persino di una norma consuetudinaria fondamentale, tanto più la Corte avrà il diritto di valutare una norma "pattizia": come infatti giustamente evidenzia Barra Caracciolo nel suo commento alla sentenza, “Se quanto così affermato vale rispetto al diritto internazionale generale di cui all'art.10 Cost, a maggior ragione opera come limite al diritto internazionale "da trattato", ancorchè "europeo", che è fonte di rango inferiore, in Costituzione e nel diritto internazionale, rispetto al d.i. "generale” (http://orizzonte48.blogspot.it/2014/10/corte-costituzionale-sentn238-del.html)

Questa ricostruzione dogmatica quindi stabilisce una volta per tutte che nessuna norma di diritto internazionale può essere considerata di rango superiore a quelle costituzionali fondamentali e che sussiste sempre il potere/dovere della Consulta di valutare il contemperamento fra le prime e le seconde per stabilire se le prime abbiano o meno e in quali limiti il diritto di entrare nel nostro ordinamento ed essere applicate.

Tale posizione sembra modificare ancora una volta il percorso "sofferto" di integrazione delle norme comunitarie con il diritto interno e che ha visto la nostra Consulta passare dal primato della norma costituzionale rispetto a quella comunitaria, considerata di diritto comune, attraverso il riconoscimento della norma statuale di applicazione, e quindi superabile da una legge posteriore (sentenze 14/1964, Costa/ENEL e 98/1965, Acciaierie San Michele), ad una posizione di equivalenza del diritto comunitario con quello costituzionale, essendo la norma comunitaria "veicolata" dall'art. 11 Cost., cosa che che le permette di essere immediatamente precettiva e di prevalere sulla norma statuale anche successiva, con essa incompatibile (sentenze 183/1973, Frontini e 232/1975, Industrie Chimiche), alla posizione più recente di "autonomia" dell'ordinamento comunitario rispetto al diritto interno, il quale viene semplicemente ignorato nell'applicazione dal giudice ordinario, ogniqualvolta esso sia in contrasto con il precetto sovranazionale (a partire dalla sentenza 170/1984, Granital).

Ciò avvicina la nostra Corte alle posizioni di quella tedesca, che, a più riprese, ha affermato il dovere di esaminare qualsiasi accordo internazionale o decisione per valutarne la congruità ed il non contrasto con la Costituzione tedesca: basta ricordare l'opposizione al programma OMT di Draghi, che i Giudici tedeschi hanno considerato in violazione del principio di controllo della spesa fiscale del contribuente tedesco, il quale spetta esclusivamente al Bundestag, rimettendo sì la questione alla Corte di Giustizia Europea, come previsto dall'art. 263 TFEU, che stabilisce la giurisdizione esclusiva di quest'ultima sugli atti della BCE, ma non prima di averla esaminata direttamente, senza sospendere il ricorso in attesa della decisione della CGUE, e soprattutto dando preventivamente indicazioni sulla illegittimità e proponendo alla stessa CGUE le modifiche da attuare per renderla per i tedeschi accettabile.

La Corte tedesca è arrivata così a porre un vero e proprio “ultimatum” alla Corte di Giustizia, sia sui tempi che sui modi della decisione, con l’affermazione espressa che in caso contrario verrà considerata anticostituzionale e disapplicata dalla Germania, in barba al principio della vincolatività delle decisioni della CGUE (vedi sul punto e per un esame approfondito delle conseguenze della presa di posizione della Corte di Karlsruhe, Barra Caracciolo “La questione "OMT" e la morte virtuale della facciata cooperativa dell’euro” su http://orizzonte48.blogspot.it/2014/02/la-questione-omt-e-la-morte-virtuale.html.)

La sentenza della nostra Corte è più morbida nel suo dettato e non compie lo “strappo” di quella tedesca rimanendo nell’alveo delle proprie decisioni più recenti, in quanto considera, non il mero contrasto con qualunque principio costituzionale, anche di competenza dei poteri impositivi, come quella tedesca, ma solo quello con le norme fondamentali per l'assetto democratico e di tutela di diritti inviolabili; nonostante ciò appare essere una leva che potrebbe sollevare il macigno, formato dalle norme europee in materia economica recepite nel nostro ordinamento, che opprime la nostra economia e la nostra società.

La decisione della Consulta ridà infatti dignità alla tutela dei principi e dei diritti cardine su cui si basa l'Italia, affermandone l'incomprimibilità, qualsiasi sia il livello (internazionale, sovranazionale, consuetudinario o pattizio) delle norme che vogliono incidere su tale assetto. Ogni limitazione di sovranità e diritti dei singoli, in quanto riconosciuti e tutelati dalla Carta, pur se accettati o ratificati in trattati che si considerano vincolanti e cogenti, come quello UE, deve sottostare al sindacato di coerenza con il dettato costituzionale, per valutarne la necessità e le finalità che non possono essere diverse da quelle dell'art. 11, e che pur perseguibili in via diretta o indiretta, sono sempre e comunque "controlimite" all'applicazione di accordi che diminuiscano la piena potestà statuale e comprimano i diritti sociali ed economici dei cittadini, riconosciuti fondanti dagli artt. 1, 2 e 4 Cost..

Evidentemente secondo questa logica non possono essere considerati accettabili, qualsiasi siano le finalità ultime espresse astrattamente nei trattati, e devono essere quindi considerate mai entrate nel nostro ordinamento, tutte quelle norme che direttamente stabiliscano una cessione definitiva di parti di sovranità nazionale, sovranità che si esplica con il diritto di stabilire un'imposizione fiscale coerente con i principi e le finalità dell'art. 3 Cost. comma II o che impone di perseguire a deficit politiche di ridistribuzione e sostegno dei redditi o di tutela e sviluppo del welfare, e che non può, per implicita ratio ex art. 11 Cost., essere ceduta permanentemente, od anche quelle norme che impongano per la loro attuazione o per il perseguimento delle finalità che impongono, una trasposizione in legge ordinaria. Vengono in mente ad esempio le regole del fiscal compact, che impongono un certo deficit ed il perseguimento di una riduzione del debito pubblico incompatibile con lo sviluppo economico in un periodo di ciclo economico recessivo.

Ma, a mio avviso, la sentenza permette un'interpretazione ancora più incisiva: dovendosi sempre e comunque valutare la norma internazionale "pesandola" con l'assetto costituzionale sul quale va ad incidere, anche un trattato che si autoproclami esplicitamente "un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni" secondo il dettato dell'art. 11 Cost. - e questa è sempre stata la chiave per respingere alla fonte ogni contestazione della legittimità costituzionale degli articoli dei trattati europei ("le precise e puntuali disposizioni del Trattato forniscono sicura garanzia, talché appare difficile configurare anche in astratto l'ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana." così ad esempio Corte Cost 183/1973 si esprimeva, con un certo ottimismo, sul trattato di Roma) - non può sic et simpliciter essere considerato "giusto" in ogni suo aspetto ed in ogni sua determinazione.

Nel momento in cui si riscontri che l'applicazione di norme comunitarie non direttamente lesive provochi situazioni che mettano in pericolo il Paese, nella sua consistenza economico/produttiva (come è noto dall'inizio della crisi abbiamo perso il 25% del nostro tessuto produttivo) o che provochino per il loro rispetto l'annullamento di fatto dei diritti su cui è basata la Nazione (prima di tutto l'effettività e la dignità del lavoro) è mio parere che l'eventuale questione di costituzionalità di tali disposizioni comunitarie o delle leggi ad esse riferentesi debba essere sollevata avanti alla Corte Costituzionale, la quale sarà tenuta a valutarne l'impatto sull'assetto economico/sociale fondante lo Stato italiano.

Ciò comporta l’ulteriore conseguenza che a rigore lo stesso trattato TFUE possa e debba essere considerato nella sua interezza per valutare la congruità dell’impianto stesso dell’accordo con i principi fondanti della Repubblica. Se infatti si eliminano una volte per tutte le pregiudiziali di coerenza ed adesione del Trattato UEM con le finalità di “pace e giustizia fra le Nazioni” costituzionalmente previste per l’ammissibilità del suo inserimento nel corpo legislativo nazionale, se quindi ci si toglie quel paraocchi, quel filtro buonista-europeista che non ha mai permesso un esame obiettivo delle reali finalità del Trattato, considerando sufficiente il vago richiamo all’inizio dell’art. 3 TFUE alla volontà di “promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli”, ci si accorge che la reale portata del TFUE è ben diversa da quanto apoditticamente affermato, e si prende coscienza del fatto che esso tende a contrastare ed ostacolare i compiti istituzionali dello Stato, come previsti dalla nostra Carta all'art. 3 comma II.

Basta già considerare quanto lo stesso art. 3 TFUE candidamente ammette nel suo terzo comma, dove fra le caratteristiche dell’accordo spicca il fatto che sia basato “su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva” per poter cominciare a dubitare della reale volontà sottesa al Trattato. Come nota puntualmente Barra Caracciolo “certamente l'Unione economica e, ancor più, monetaria europea, - priva di ogni riferimento al perseguimento della pace e della giustizia tra le Nazioni, e giuridicamente cresciuta e stratificata come insieme di regole caratterizzate dall'instaurazione di un libero mercato fortemente competitivo che privilegia la stabilità dei prezzi e la piena occupazione ad essa connessa, cioè unicamente in quanto compatibile con tale stabilità, instaurando la competizione mercantilista tra gli Stati coinvolti,-  non ha nulla a che vedere con un'organizzazione che svolge la promozione della pace sia all'interno dei partecipanti sia, collettivamente, verso l'esterno” (http://orizzonte48.blogspot.it/2014/07/lart11-cost-e-adesione-allue-cosa-dice.html).

Evidentemente quello che viene alla luce è l’illegittimità tout court di un vincolo esterno limitativo della sovranità nazionale, che non trova realmente fondamento nell’art. 11 Cost. e quindi l’impossibilità ab origine della sua accettazione nel corpo legislativo statuale. Non è un caso che i Costituenti avessero negato l’accenno nel corpo dell’articolo in questione all’unità europea: essi sentivano che non sarebbe stato corretto dare una “patente di legittimità” a priori ad una costruzione europea, perché, come notava lucidamente il presidente della Commissione Costituente, On. Ruini, “Non si può prescindere dalla indicazione dello scopo. Vi possono essere organizzazioni internazionali contrarie alla giustizia ed alla pace”.

Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti, ma questo spunto deve e può essere ulteriormente sviluppato, per permettere un impianto teorico immediatamente applicativo, volto a contrastare ulteriori cessioni ed al ripristino di quella sovranità che, in nome di ideali astrattamente affratellanti, si sta illegittimamente cedendo, con il plauso ed il complice accordo di pressoché tutta la nostra classe politica, avendone in cambio solo competizione mercantilistica e conseguente ed inevitabile corsa alla distruzione dei diritti dei singoli, in ossequio ad un ideale liberista che coltiva la disuguaglianza e la sacralizzazione del profitto.


giovedì 23 ottobre 2014

La "polpetta avvelenata" dei trattati di libero scambio: l'ISDS


C'è una "polpetta avvelenata" all'interno di tutti i trattati di libero scambio, siano il NAFTA o il prossimo TTIP o siano semplici accordi bilaterali fra Stati, ed è il famigerato quanto poco conosciuto ISDS, ovvero Investor-State Dispute Settlement. Cos'è l'ISDS? E' un accordo fra i contraenti del trattato, i quali si impegnano a risolvere le controversie fra imprenditori e Stati, nate o che abbiano comunque influenza sull'applicazione dello stesso, attraverso un procedimento di tipo arbitrale, riconoscendo valore di sentenza inappellabile alla decisione presa dagli arbitri.

Mi direte, ma cosa c'è di diverso rispetto alle normali clausole arbitrali che ormai sono comuni in quasi tutti i contratti che gli operatori economici stipulano? Se una controversia viene risolta da arbitri, non è un fatto positivo, visto i tempi procedurali di un'azione giudiziaria? Non è meglio un organo ad hoc, snello flessibile e soprattutto super partes, a cui le parti affidano la controversia, considerando soprattutto che i soggetti coinvolti sono Stati e quindi ci sarebbero oggettivi problemi di imparzialità degli organi giudicanti con il pericolo di decisioni "politiche" a sfavore delle imprese di uno Stato contraente?

Ed in effetti questa è la "polpetta" che ha fatto sì che gli ISDS venissero salutati positivamente dagli addetti ai lavori e dagli stessi politici dei Paesi interessati: ad esempio per il NAFTA molti funzionari e politici canadesi credettero seriamente, come riferisce Todd Weiler in "Arbitral &
Judicial Decision: The Ethyl Arbitration: First of Its Kind and a Harbinger of Things to Come" che le previsioni dell'ISDS inserite nel trattato sarebbero state utilizzate esclusivamente dalle imprese canadesi e nord-americane per contrastare misure arbitrarie (come nazionalizzazioni, espropriazioni o imposizione di vincoli e dazi) da parte del governo messicano. Uno "scudo" insomma, per difendere gli investitori dalla prepotenza di Nazioni poco democratiche ed aperte agli scambi. Ed invece, come riporta Ray C. Jones nel suo "NAFTA Chapter 11 Investor-to-State Dispute Resolution: A Shield to Be Embraced or a Sword to Be Feared?" "Chapter 11 (il capitolo del trattato che istituisce l'arbitrato) has become a “sword” for investors, allowing them to attack the NAFTA countries, rather than the “shield” it was intended to be."(grassetto mio).

Ma la cosa più ironica è che, come risulta dall'esame storico dei casi affrontati attraverso questo procedimento arbitrale, la maggioranza di questi hanno coinvolto come parte chiamata a rispondere delle violazioni gli Stati Uniti ed il Canada, ovvero quegli Stati che ritenevano l'ISDS una protezione dal Messico!

Il veleno però non sta in questo, bensì nel contenuto delle azioni che questa "spada" ha legittimato e permesso. Come già abbiamo visto esaminando alcuni casi di controversie, l'ISDS è stato un arma per contrastare legittime politiche dei Paesi aderenti contro lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali o per difendersi da azioni pericolose per la salute dei cittadini. Di più: le azioni si sono rivolte anche contro decisioni di policy economica ed utilizzate persino in via preventiva per impedire l'approvazione di norme in contrasto con gli interessi economici delle imprese, stabilendo così un vero e proprio diritto al profitto, legislativamente tutelato con sanzioni, diritto considerato superiore ad ogni altro diritto sociale.

Oltre agli esempi riportati nel post sopra linkato, è interessante riportare un caso esaminato da Jones nel suo articolo: Ethyl v/s Canada.

La Ethyl Corporation è una società multinazionale chimica con sede in Virginia. Essa è la principale produttrice americana di tricarbonil metilciclopentadienil manganese (MMT), usato come additivo nei carburanti per migliorare le performance dei motori. La sussidiaria canadese della Ethyl importava in Canada tale prodotto per venderlo alle raffinerie locali. Nell'aprile del 1997 il Parlamento canadese propose di bandire il MMT perché degli studi avevano dimostrano una certa evidenza di pericolo per la salute all'esposizione di tale prodotto: prima che la legge venisse approvata la Ethyl sollevò la questione attraverso il Capitolo 11 del NAFTA, lamentando che una tale legge avrebbe significato di fatto una "espropriazione", come definita dall'art. 1110 del trattato, se si fosse impedito di esportare il MMT in Canada senza prevedere un giusto risarcimento. Quando il Parlamento approvò tale legge la Ethyl attivò il procedimento arbitrale chiedendo un risarcimento di 251 milioni di dollari. Poiché le eccezioni procedurali sollevate dal governo canadese furono respinte e la corte arbitrale confermò la legittimità dell'azione proposta, prima ancora che i giudici entrassero nel merito della questione il Canada revocò la legge approvata, permettendo alla Ethyl di riprendere le sue operazioni e pagò a questa a titolo di rimborso delle spese legali e risarcimento la somma di 13.000.000 di dollari.

In questo caso quindi il legittimo diritto di un Paese di difendere la salute dei propri cittadini da esposizioni a sostanze potenzialmente dannose ha ceduto il passo al diritto di fare i propri affari di una multinazionale, per evitare di pagare dei danni che avrebbero portato ad un esborso estremamente gravoso per le casse dello Stato.

Naturalmente il fatto che l'ISDS sia uno strumento di pressione e ricatto nei confronti delle politiche degli Stati deriva dal contenuto degli accordi che questi Stati hanno sottoscritto: il problema principale è che i trattati di libero scambio, come quello che si vorrebbe concludere fra EU e USA, mettono sullo stesso piano politiche nazionali ed interessi privati delle imprese, tolgono quella sovranità statuale che si esplica attraverso l'imposizione di regole per il bene comune, anche in contrasto con l'interesse privato del singolo. Quello che è un principio fondante delle costituzioni democratiche, ovvero il limite del bene pubblico alla libertà del privato, limite che nella nostra Costituzione si esplica attraverso l'art. 41, per cui l'iniziativa privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, viene sostituito dal principio della totale libertà dell'impresa al perseguimento del suo scopo, ovvero fare profitto, dal principio della giustezza sempre e comunque dell'agire economico, che diventa un diritto assoluto e quindi sempre lecito. Di fronte a tale diritto quasi "sacralizzato", ogni altro diritto personale o sociale deve cedere il passo, o, se proprio non è possibile, lo Stato, che per compito istituzionale difende e tutela i suoi cittadini, deve comunque risarcire l'illegittima compressione, l'illecito ed interferente contrasto fra questi diritti sociali, quasi trattati con fastidio come "minori" (come quelli alla salute, alla sicurezza, alla dignità...), ed il diritto alla piena esplicazione dell'attività economica delle imprese.

Questo totale stravolgimento dei principi democratici sociali, in nome della facilità e sicurezza degli scambi economici, è il vero veleno che trova negli ISDS lo strumento per farsi inoculare, il mezzo con cui le imprese multinazionali trovano la piena e totale vittoria contro uno Stato che si è fatto ingolosire dalle promesse di sviluppo e crescita senza capire che quello che veniva offerto non era il benessere per tutti, ma la perdita di diritti per molti.

In Europa siamo ancora in tempo ad evitare questo tranello. Facciamoci sentire e cerchiamo di informare quelli che ancora non sanno cos'è il TTIP, per non diventare sudditi delle multinazionali in un mondo alla Gibson.

venerdì 19 settembre 2014

Lo Statuto dei lavoratori al tempo di Renzi


L'art. 18 era solo l'antipasto.

Preannunciato dalle dichiarazioni rilasciate ad agosto da Renzi "l'articolo 18 è un totem ideologico, è giusto riscrivere lo Statuto dei lavoratori.", Alfano quattro giorni fa, davanti alla Direzione Nazionale del NCD, ha scoperto le carte “Noi sosteniamo fino in fondo la strada di cambiare lo Statuto dei lavoratori, dentro cui c’e’ anche l’articolo 18. Superiamo tutto lo Statuto dei lavoratori”, concetto ribadito oggi "Lo Statuto dei Lavoratori - ha ricordato - è stato approvato cinque mesi prima che io nascessi. Io sono nato nell'ottobre del 1970 e lo statuto dei lavoratori è stato approvato nel maggio del 1970... dal 1970 a oggi, è cambiato tutto: sono cambiate le relazioni industriali, il modo di produrre in Italia, la legislazione europea, è cambiato tutto in Italia e non è possibile mantenere le regole per quel mercato del lavoro che non è più quello di oggi".

Una prece per lo Statuto, quindi. Ma prima di seppellirlo facciamoci una domanda: la legge n. 300 del 20.5.1970 "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento" (tale è il suo nome ufficiale), anche alla luce delle modifiche successive attuate, si può e si deve realmente ritenere superato? La risposta corretta è: dipende.

Lo Statuto nasce sull'onda delle lotte sindacali degli anni '60, lotte che avevano cercato di contrastare l'arbitrio totale con il quale erano gestiti negli anni '50 e primi anni '60 i rapporti fra datore di lavoro ed operai, da una parte, e di imporre e tutelare la sindacalizzazione come strumento di aggregazione per la creazione di una forza capace di veicolare le istanze dei lavoratori per condizioni di lavoro migliori e più dignitose, dall'altra. Come ci ricorda la giornalista Lucrezia dell'Arti "Al tempo dell’approvazione della legge (1970) nessuno faceva caso all’articolo 18. L’articolo più importante sembrava il 28, «Repressione della condotta antisindacale». Poi il 2 (le guardie giurate vigilino sul patrimonio aziendale e non sul lavoro operaio), il 4 (tv a circuito interno), il 5 (medici fiscali dell’azienda sostituiti dai «servizi ispettivi degli istituti previdenziali»)" (articolo qui). La CGIL all'epoca della sua promulgazione dichiarò: "Con lo Statuto di oggi i diritti individuali dei lavoratori e delle lavoratrici e la piena cittadinanza del sindacato sono garantiti anche nei luoghi di lavoro. La legge n. 300 porta la Costituzione dentro le fabbriche ed era attesa fin dal 1952 quando il terzo Congresso Nazionale della CGIL approvava una bozza di statuto presentata del segretario Giuseppe Di Vittorio: lo “Statuto dei diritti democratici dei lavoratori nei luoghi di lavoro”. A proposito di questa bozza di statuto vale la pena di leggere con attenzione ed integralmente l'articolo di Giuseppe Di Vittorio, fra gli esponenti più autorevoli del sindacato italiano del secondo dopoguerra italiano, scritto nel 1952, all'indomani della sua proposta presentata al Congresso dei Sindacati chimici:

La proposta da me annunciata al recente Congresso dei Sindacati chimici – di precisare in uno Statuto i diritti democratici dei lavoratori all’interno delle aziende – ha suscitato un enorme interesse fra le masse lavoratrici d’ogni categoria. Il Congresso della Camera del Lavoro di Mantova, per esempio, ha chiesto che lo Statuto stesso venga esteso anche alle aziende agricole. E qui è bene precisare che la nostra proposta, quantunque miri sopratutto a risolvere la situazione intollerabile che si è determinata nella maggior parte delle fabbriche, si riferisce, naturalmente, a tutti i settori di lavoro, senza nessuna eccezione.

Le prime reazioni padronali alla nostra proposta sembrano, invece, per lo meno incomprensibili. «Il Globo», infatti – giornale notoriamente ispirato dagli ambienti industriali – pretende che io, avanzando la proposta dello Statuto, avrei dimenticato «troppe cose». Che cosa? Ecco: «che gli stabilimenti non sono proprietà pubblica ma ambienti privati di lavoro nei quali l’attività di tutti, dirigenti e imprenditori compresi, è vincolata e coordinata al fine produttivo da raggiungere»; che esistono i contratti di lavoro, «nei quali sono previsti i doveri e i diritti dei lavoratori nell’ambito del rapporto contrattuale»; che esistono le Commissioni interne, ecc. ecc. è giusto. Tutte le cose che ricorda «Il Globo» esistono; e nessuno lo ignora.

Il giornale degli industriali, però, dimentica un’altra cosa, che pure esiste: è la Costituzione della Repubblica, la quale garantisce a tutti i cittadini, lavoratori compresi, una serie di diritti che nessun padrone ha il potere di sopprimere o di sospendere, nei confronti di lavoratori. Non c’è e non ci può essere nessuna legge la quale stabilisca che i diritti democratici garantiti dalla Costituzione siano validi per i lavoratori soltanto fuori dall’azienda. È vero che le fabbriche sono di proprietà privata (non è qui il caso di discutere questo concetto), ma non per questo i lavoratori divengono anch’essi proprietà privata del padrone all’interno dell’azienda. Il lavoratore, anche sul luogo del lavoro, non diventa una cosa, una macchina acquistata o affittata dal padrone, e di cui questo possa disporre a proprio compiacimento.

Anche sul luogo del lavoro, l’operaio conserva intatta la sua dignità umana, con tutti i diritti acquisiti dai cittadini della Repubblica italiana. Se i datori di lavoro avessero tenuto nel dovuto conto questa realtà, chiara e irrevocabile – e agissero in conseguenza – la necessità della mia proposta non sarebbe sorta; non avrebbe dovuto sorgere.

Il fatto è, invece, che numerosi padroni si comportano nei confronti dei propri dipendenti come se la Costituzione non esistesse. Si direbbe che la parte più retriva e reazionaria del padronato (la quale non ha mai approvato la Costituzione, ma l’ha subita, a suo tempo, solo per timore del «peggio»), mentre trama per sopprimerla, l’abolisce, intanto, all’interno delle aziende.

L’opinione pubblica ignora, forse, che in numerose fabbriche s’è istaurato un regime d’intimidazione e di terrore di tipo fascista che umilia e offende i lavoratori. I padroni e i loro agenti sono giunti al punto d’impedire ai lavoratori di leggere il giornale di propria scelta e di esprimere una propria opinione ai compagni di lavoro, nelle ore di riposo, sotto pena di licenziamento in tronco. Si è giunti ad impedire ai collettori sindacali di raccogliere i contributi o distribuire le tessere sindacali, durante il pasto o prima e dopo l’orario di lavoro.

Se durante la sospensione del lavoro, l’operaio legge un giornale non gradito al padrone, o l’offre a un collega, rischia di essere licenziato. Si è osato licenziare in tronco un membro di Commissione Interna perché durante la colazione aveva fatto una comunicazione alle maestranze. Si pretende persino che la Commissione Interna sottoponga alla censura preventiva del padrone il testo delle comunicazioni da fare ai lavoratori. Peggio ancora: si è giunti all’infamia di perquisire gli operai all’entrata della fabbrica, per assicurarsi che non portino giornali o altri stampati invisi al padrone.

Tutto questo è intollerabile. E tutto questo non è fatto a caso, né per semplice cattiveria. Tutto questo è fatto per calcolo; è fatto per affermare e ribadire a ogni istante, in ogni modo, l’assolutismo padronale onde piegare il lavoratore a uno sforzo sempre più intenso, a un ritmo di lavoro sempre più infernale, alla fatica più massacrante, sotto la minaccia costante del licenziamento. E tutti sono in grado di misurare la gravità di questa minaccia, in un Paese di disoccupazione vasta e pertinente come il nostro.

È un fatto che l’instaurazione di questo assolutismo padronale nelle fabbriche è accompagnata da un aumento crescente del ritmo del lavoro. Il supersfruttamento dei lavoratori è giunto a un tale punto da determinare un aumento impressionante degli infortuni sul lavoro (anche mortali) e delle malattie professionali, come abbiamo ripetutamente documentato. Soltanto nelle aziende della Montecatini abbiamo avuto 35 morti per infortuni in un anno! Questa situazione non è tollerabile. Bisogna ripristinare i diritti democratici dei lavoratori all’interno delle aziende e porre un limite a queste forme micidiali di supersfruttamento.

Intendiamoci bene: noi non siamo contro la necessaria disciplina in ogni lavoro; ma deve trattarsi della disciplina normale, umana. Non contestiamo affatto che il lavoratore, durante le ore di lavoro, abbia lo stretto dovere di adempiere al suo compito professionale. E noi sappiamo bene che la generalità dei lavoratori concepisce l’adempimento scrupoloso del proprio dovere come primo fondamento della propria dignità professionale.

Ma fuori delle ore di lavoro durante il pasto, prima dell’inizio del lavoro e dopo la cessazione, i lavoratori sono, anche all’interno dell’azienda, liberi cittadini, in possesso di tutti i diritti garantiti agli altri cittadini, per cui hanno l’incontestabile diritto di parlare, di esprimere liberamente le loro opinioni, di distribuire le tessere della propria organizzazione, di collettare i contributi sindacali, ecc. ecc., così come hanno il diritto di farlo fuori della fabbrica. Il «vincolo contrattuale» con l’azienda – di cui parla «Il Globo» – è un vincolo di lavoro, non di coscienza. Ottenuto il lavoro dovuto dall’operaio, il padrone non deve pretendere null’altro.

Naturalmente, le minacce e gli abusi di cui sono vittime quotidianamente numerosi lavoratori, danno spesso luogo a proteste collettive, ad agitazioni, a scioperi. Se si continuasse ad andare avanti nel senso deplorato, queste agitazioni sarebbero destinate a moltiplicarsi e a generalizzarsi, dato che la situazione è giunta al punto estremo della sopportabilità. Dalle fabbriche e da altri luoghi di lavoro si leva una protesta unanime, accorata, come sorgente da un bisogno di respirare, di sentirsi liberi, anche all’interno delle aziende.

La nostra proposta tende a risolvere la questione in modo pacifico e normale, mediante l’adozione d’uno Statuto che, ribadendo i diritti imprescrittibili dei lavoratori, non dia luogo né agli abusi lamentati, né alle agitazioni che ne conseguono. E poiché si tratta d’un interesse vitale e generale di tutti i lavoratori, senza distinzioni di correnti, riteniamo perfettamente possibile un accordo con le altre organizzazioni sindacali, sia nella formulazione dello Statuto che propugniamo, sia nell’azione da svolgere per ottenerne l’adozione.

Questo era il segretario della CGIL all'epoca...

Ora è possibile chiarire la risposta data alla nostra domanda: lo Statuto dei lavoratori può ritenersi superato ed obsoleto solo ed in quanto sia ritenuta superata ed obsoleta la nostra Costituzione e la sua visione del lavoro, già esaminata quando abbiamo affrontato il tema dei minijob. Nell'ottica attuale di rivincita del liberismo economico e sociale è evidente che una legge che limita il potere del datore di lavoro di gestire all'interno della propria azienda i lavoratori ed i loro diritti come meglio gli aggrada, spostandoli, demanzionandoli, eliminando ferie e permessi o spezzettando il lavoro in orari incompatibili con una vita privata del dipendente (tutti fenomeni ben presenti a chi attualmente svolge un'attività subordinata, sia temporanea che a tempo indeterminato) è vista come un intollerabile ostacolo all'organizzazione interna, esattamente come lo vedevano allora i datori di lavoro degli anni 50/60. Ciò non toglie e non deve far dimenticare che, fino a prova contraria o fino a che non sarà smantellata nei suoi principi fondanti, la Costituzione e la sua previsione di un lavoro dignitoso e dignitosamente pagato, che permetta l'esplicazione della personalità del lavoratore, sia dentro che fuori dall'ambiente di lavoro, e la sua partecipazione alla vita sociale, economica e politica della Nazione, prevale e deve prevalere su ogni tentativo di trasformare il lavoratore in una "merce lavoro" liberamente prezzabile ed utilizzabile.

Sembra di oggi il monito che lanciò Donat Cattin alla Camera dei Deputati il 14.5.70: "La più perfetta Costituzione ha valore nella misura in cui vi sia un costume civile democratico e in cui vi siano forze capaci di dare ad essa concreta attuazione in tutti i suoi contenuti democratici. Quando invece si modificano i rapporti di forza, le tendenze e il costume democratico, anche la più perfetta Costituzione può finire col rimanere svuotata e inapplicata."

Diversamente di quel che pensa Alfano, quindi, lo Statuto dei lavoratori è vivo e deve rimanere tale, quanto più si fanno pressanti, in nome dell'emergenza occupazionale ed economica, le spinte a smantellare i diritti acquisiti, perché "non ce li possiamo più permettere", in quanto espressione ed applicazione nell'ambiente di lavoro delle norme costituzionali fondamentali. D'altronde, come ha dimostrato nel suo articolo "Stop structural reforms, start public investments" De Grauwe, la favola che la colpa del mancato recupero economico post crisi sia da addebitare alla rigidità strutturale dei Paesi colpiti (e quindi bisogna intervenire sul mercato del lavoro, flessibilizzandolo, permettendo l'espulsione libera del lavoratore, ecc.) non regge all'esame dei dati ed è quindi solo una scusa per fare le riforme che vuole la politica legata alla finanza ed un certo tipo di imprenditoria. Se ci liberassimo da ricette economiche errate e controproducenti non ci sarebbe alcun bisogno di colpire diritti e welfare dei cittadini.

Ma questo è esattamente il punto...

domenica 7 settembre 2014

Minijob e Costituzione



Si torna a parlare di minijob. Se ricordate, ne abbiamo accennato quando abbiamo visto le ragioni della concorrenzialità della Germania dopo il 2002 e, se ne volete un consuntivo da parte di chi li ha applicati, questo articolo su Voci dalla Germania ne mostra luci ed ombre. Da ultimo l'ottimo blog Kappa Di Picche ha esaminato come funzionano.

Quello che a me interessa approfondire è il rapporto fra questo modello di lavoro e i concetto di lavoro che vige nella nostra Costituzione, per vedere se i sistemi sono compatibili. Intanto poniamoci una domanda: tutti sappiamo che l'art. 1 definisce l'Italia come una Nazione fondata sul lavoro, ma, in concreto, cosa significa questo essere fondati sul lavoro?

L'art. 1 è la norma che da, non solo una definizione del nostro Paese, ma diciamo la cornice entro la quale esso si definisce e caratterizza; l'Italia come Nazione, ovvero come una comunità che si riconosce in un sistema sociale ed in un territorio, è tale in quanto è una Repubblica ed è retta da un sistema democratico ove il popolo è sovrano, quindi si autodetermina nei limiti e con le forme previste dalla Costituzione. Se mancasse uno di questi elementi mancherebbe la Nazione stessa. Fate attenzione: quanto detto basterebbe già a definire uno Stato, vi sono tutti gli elementi caratterizzanti, ma la norma va oltre, definisce anche il principio fondante di questa comunità e, fra tutti i principi (libertà, uguaglianza, giustizia, pace, ecc.) indica il lavoro, facendolo diventare così un ulteriore elemento indispensabile alla definizione di Italia come Nazione.

Questo non è di poco conto: siccome il lavoro è un espressione della personalità dell'individuo, la nostra Costituzione ci dice che l'Italia considera questa espressione come la più alta in assoluto. Il lavoro è quindi la più elevata e nobile espressione della persona, con il lavoro l'uomo afferma la sua dignità di cittadino e quindi crea insieme agli altri la Nazione che si chiama Italia. La nostra Costituzione conseguentemente non ama gli sfaticati, quelli che possono, ma non lavorano: il lavoro è un dovere, oltre che un diritto, ce lo dice l'art. 4, perché appunto la crescita della comunità, la sua prosperità economica e morale deriva dall'apporto lavorativo, ciascuno secondo le sue capacità, del singolo individuo, lavoro che può essere fisico o mentale, materiale o spirituale o artistico, ma che deve concorrere al progresso della società.

Cosa comportano queste affermazioni? Evidentemente che il lavoro è un valore che deve essere salvaguardato, che deve avere dignità e che rientra fra i compiti dello Stato garantirlo e far si che sia effettivo, in quanto diritto supremo del cittadino. Come vedete dalla collocazione del lavoro nell'art 1 possiamo già dedurre quello che sarà poi effettivamente esplicitato negli artt. 3, 4, 35, 36, 37, 38, 39 e 46 della Costituzione: se andate a leggerli (tutti dovrebbero leggere e rileggere la nostra Carta, così poco conosciuta...) vi troverete quanto abbiamo finora detto ed altre necessarie conseguenze, come la tutela previdenziale, sindacale ed il diritto a partecipare alla gestione delle aziende.

Uno di questi articoli, il 36, merita un'attenzione particolare. Vediamo cosa dice:

Articolo 36

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

La norma è chiara e, come detto, è l'esplicazione del principio della concezione "alta" del lavoro: la retribuzione, pur parametrata all'attività svolta, deve in ogni caso permettere al lavoratore di non essere schiavo del bisogno (questo è il senso del concetto di libertà) e di esistere dignitosamente, che è cosa ben diversa dal mero sopravvivere.

In questo quadro quindi come si pongono e soprattutto che compatibilità hanno i minijob? Vediamo qualche dato, tratto da uno studio spagnolo:

Fonte http://blogs.publico.es

I minijob come si vede sono massicciamente utilizzati in alcuni settori dei servizi e dei lavori più semplici, a bassa specializzazione: il dato non irrisorio di occupati nell'industria di trasformazione (596.769, dato a luglio 2013) conferma quel dumping salariale che è alla base del boom delle esportazioni che ha fondato il "miracolo" economico tedesco e che è stato messo in luce da un'inchiesta del settimanale Die Zeit, di cui trovate la traduzione qui e qui. Il dato più significativo è però quello della terza tabella relativa alla durata media dei contratti minijob, contratti che ricordo nascono con l'intento di fornire un'attività lavorativa temporanea a studenti, casalinghe o altri soggetti che non vogliono un'attività a tempo pieno, ma un aiuto economico per integrare i loro redditi: quasi il 12% dei minijobbers impiegati nel settore imprenditoriale (esclusi quindi colf e lavoratori comunque domestici) hanno un contratto che dura da almeno sette anni e complessivamente sono il 32% i lavoratori che da almeno quattro anni lavorano con questo tipo di contratto.

Secondo Francisco Trillo, professore di Diritto del Lavoro e della Previdenza Sociale all’Università di Castilla-La Mancha, più di 4,5 mln. di donne lavorano con contratti del genere e di queste più di 3 mln. non hanno altra fonte di reddito: inoltre sempre le donne sono impiegate in una percentuale tra il 70 e l'80% nella fascia di lavori di bassissima qualità.

Infine riguardo alla previdenza, stando a un rapporto del Ministero del Lavoro tedesco, le contribuzioni per gli impiegati dei minijob daranno loro diritto solo a 3,11 euro di pensione al mese per ogni anno di lavoro: calcolando un lavoratore che non avesse altra fonte di reddito per 37 anni lavorativi alla fine si ritroverebbe con una pensione mensile di 115,7 euro!

Se quindi consideriamo come in pratica sono stati applicati in Germania non possiamo che rispondere alla domanda che ci siamo posti in questi termini: i minijob sono in insanabile contrasto con il dettato costituzionale. Essi sono l'espressione coerente del principio liberista della perfetta flessibilità del salario in basso ed il loro uso è coerente con l'idea del lavoro come merce, antitetico alla visione "keynesiana" del lavoro nella Carta.

Il primo articolo violato è evidentemente proprio l'art. 36: una retribuzione media di 450 euro per una attività lavorativa che nella pratica viene utilizzata per sostituire un contratto regolare (dall'introduzione dei minijob sono stati eliminati 340.000 posti di lavoro stabili), pur con gli aiuti statali a sostegno, non può essere considerata una retribuzione dignitosa; conseguentemente all'impossibilità di un tenore di vita, se non di mero sostentamento, viene violata anche la norma dell'art. 29 e dell'art. 31 che prevedono il dovere dello Stato di garantire ed agevolare la formazione della famiglia, intesa come nucleo originale sociale.

Altro articolo in contrasto è l'art. 38 che garantisce la previdenza, visto che alcuni minijob, quelli più bassi, non prevedono alcun tipo di tutela per malattia, ed il diritto alla pensione, che, come abbiamo visto, è praticamente inesistente.

Anche l'art. 37 che tutela il lavoro femminile e con esso il diritto della lavoratrice alla propria maternità, è incompatibile con l'applicazione di questi contratti, che non prevedono la maternità e soprattutto che relegano le donne ad un'attività lavorativa di bassissima qualità, creando dei veri e propri "ghetti" mansionali, in dispregio del principio sancito della parità di trattamento con l'uomo.

Perseguire quindi una "piena occupazione" attraverso il minijob è non solo un'ipocrisia sociale, poiché si fa finta di risolvere un problema occupazionale gonfiando a dismisura la precarietà, ma e soprattutto una chiara violazione del principio costituzionalmente garantito della dignità del lavoro, come mezzo supremo di esplicazione dell'uomo e come strumento per godere pienamente di tutti gli altri diritti, ovvero quella libertà di partecipare alla vita sociale, politica, culturale e d economica del paese, sancito dall'art. 3.

Il nostro Governo ed il nostro Parlamento dovranno valutare bene quindi in che misura e con quale grado di tutele dovranno eventualmente essere integrati nel nostro ordinamento: il rischio di una pronuncia di incostituzionalità che travolga tutto il sistema, soprattutto se si dovesse prendere acriticamente il "modello" tedesco, non può essere ignorato, neppure in nome della produttività.

mercoledì 13 agosto 2014

Chi ha paura dell'art. 18? Parte seconda.



Allora, le domande con cui ci siamo lasciati erano: è l'art. 18 Statuto dei lavoratori la zeppa che impedisce al meccanismo produttivo di funzionare? A chi da realmente fastidio l'art. 18?

Rispondere alla prima domanda parrebbe intuitivo se si è letta la prima parte: una norma che tutela pienamente il posto di lavoro (perché solo la reintegra lo tutela pienamente, è bene averlo ben chiaro in testa, specie in tempi in cui non è facile trovare un altro impiego) esclusivamente per i licenziamenti palesemente discriminatori (sì, si applica anche ai licenziamenti nei quali la causa addotta è totalmente inesistente o per la quale il CCNL non prevede il licenziamento, ma fidatevi, non esistono casi del genere in pratica...), quindi penalizza solo l'arbitrio puro del datore di lavoro, non può in alcun modo essere considerato un ostacolo alle assunzioni o in generale all'attività produttiva. Chiunque dica il contrario, o non sa di cosa parla (vero Alfano?), o è rimasto alla formulazione originaria dell'art. 18, oltretutto nell'interpretazione anni '70/'80 data dalla giurisprudenza. E allora perché salta fuori adesso il dibattito su questo articolo?

La ragione a mio avviso è duplice.

La prima è che la politica italiana si dibatte negli ultimi anni nella difficoltà di conciliare i vincoli fiscali imposti dall'Europa con la necessità di stimolare la crescita; l'appoggio dato a Monti da parte della quasi totalità della destra e della sinistra al momento del suo insediamento si spiega con la genuina speranza che egli potesse realmente mettere mano nella nostra disastrata economia in crisi e risanare il bilancio statale, ponendo le basi per una crescita del Paese, confidando nelle sue ricette, dure ma necessarie. Con Monti però si è implementato ancor di più un pensiero economico liberista che, si può dire schematicamente, pensa ed agisce solo dal lato dell'offerta, per il quale la competitività perduta è causata dal nanismo delle imprese e dal conseguente mancato o insufficiente investimento in ricerca ed innovazione, dalla tassazione eccessiva sul lavoro e la produzione, oltre che dalla rigidità del mercato del lavoro, in entrata ed in uscita e dal suo costo. Lo Stato nulla può fare, ed anzi deve intervenire il meno possibile attivamente, concentrandosi sul risanamento dei propri conti, attraverso tagli di spesa e temporanei aumenti di tasse, che dovrebbero portare in un secondo tempo a risparmi di spesa per interessi e quindi a meno tasse e sviluppo: la c.d. "austerità espansiva".

Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Ormai però il mantra "più flessibilità" è entrato nell'immaginario sociale e politico e, dato che la flessibilizzazione in entrata ormai consolidata non ha portato ai risultati sperati (come abbiamo visto appena la crisi si è fatta sentire la disoccupazione, soprattutto giovanile, si è impennata, in barba ai contratti di apprendistato, a tempo o a progetto) adesso ci si rivolge a quella in uscita, scaricando sulla supposta rigidità a licenziare la colpa delle mancate assunzioni. Questo per chi è in buona fede.

L'altra ragione è più sottile ed implica una consapevolezza unita al perseguimento di uno scopo preciso: la flessibilità estrema in uscita non interessa il nostro sistema produttivo, fatto in stragrande maggioranza da piccole e medie imprese, ma importa e molto alle grandi imprese e multinazionali estere, che intendono investire in Italia. Vediamo perché.

Le PMI sono caratterizzate dall'utilizzo di un numero limitato di lavoratori: ecco la situazione nel 2012


Oltre il 50% delle imprese italiane ha un numero di dipendenti fra 1 e 49 ed il 71% è classificabile come PMI secondo i parametri europei, che prevedono un limite di 249 addetti.

La caratteristica dei lavoratori delle PMI è che essi sono un vero valore aggiunto, trattandosi in grande maggioranza di c.d. skilled workers, ovvero lavoratori specializzati che sono stati formati all'interno dell'azienda, spesso acquisendo il know how produttivo che la caratterizza, molte volte considerabili quasi degli artigiani per la loro maestria. Questi lavoratori sono un patrimonio per l'imprenditore, che ha speso anni di tempo e fatica per plasmarli e che pertanto non ha alcun interesse a mandar via o sostituire, a meno che non ne sia costretto. Alla PMI pertanto non interessa affatto l'art. 18, neanche quando esso tutelava contro il licenziamento motivato astrattamente da ragioni meramente economiche. L'operaio di una piccola impresa è parte di una "famiglia produttiva" e spesso lo stesso datore di lavoro ne condivide gli orari e la fatica, ne conosce vita e problemi e preferisce dar fondo a tutte le sue risorse economiche piuttosto che mettere sulla strada i propri dipendenti e se non riesce, come purtroppo è successo e succede, si sente talmente in colpa che può arrivare a gesti estremi di disperazione.

A rigore, neanche la flessibilità in entrata interessa il piccolo/medio imprenditore: quando un lavoratore ha acquisito le conoscenze e l'esperienza produttiva il datore di lavoro ha tutto l'interesse a trattenerlo, sia perché c'è voluto, come detto, tempo e fatica per renderlo pienamente produttivo e se fosse a termine si perderebbe quella produttività, sia perché, avendo acquisito i "segreti produttivi" che caratterizzano spesso il successo di un'azienda, lasciarlo andar via significherebbe rischiare che tali segreti siano utilizzati in proprio o peggio acquisiti da un concorrente.

Neanche l'idea che l'art. 18 impedisca alle PMI di crescere, per paura di superare il limite di applicazione della norma, che ricordiamolo è di 15 dipendenti, ha alcuna base concreta: ecco due grafici tratti da uno studio del sito lavoce.info, con dati fino al 1998, ma che si possono considerare tutt'ora attendibili, estremamente illuminanti:

Fonte: La Voce 2012

Fonte La Voce 2012
Il primo mostra la distribuzione delle imprese secondo il numero degli addetti, il secondo la propensione a crescere delle imprese, man mano che raggiungono un certo numero di dipendenti.

Come nota il sito economico nell'articolo che correda lo studio, se l'art. 18 fosse un deterrente a crescere vi sarebbe un ammasso di imprese che si situano poco sotto il tasso soglia di 15 dipendenti e si avrebbe una forte riluttanza a crescere: nel primo grafico la distribuzione a decrescere appare invece omogenea, senza scalini particolari, mentre nel secondo grafico uno scalino c'è, ma è piuttosto irrisorio (la propensione passa dal 35% al 34%), ed è influenzato anche dal fatto che è lo stesso limite dimensionale sopra il quale scatta l'obbligo di assunzione di un disabile.

Assodato che l'art. 18 ha un'influenza pressoché nulla sulle decisioni strategiche delle PMI e che l'interesse di queste a licenziare liberamente i propri dipendenti è estremamente basso, vediamo chi può invece averne maggior interesse, ovvero la grande impresa. Questa è caratterizzata dall'utilizzo in maggioranza di lavoratori "no skilled", in quanto inseriti in processi produttivi standardizzati nel quale l'operaio cura un limitato settore e viene impiegato per mansioni ripetitive o comunque di difficoltà relativa. Anche nei settori di servizi e distribuzione il dipendente è chiamato semplicemente ad imparare pochi concetti: l'utilizzo di certi tasti o procedure del software in uso nell'ambito dei servizi (banche, assicurazioni, servizi postali) o di semplici operazioni di collocamento e controllo merce (supermercati ed altri punti vendita "fai da te"). Nessuno di questi lavoratori acquisisce particolari competenze e know how aziendali, niente che un breve tirocinio non possa riformare in capo ad un nuovo assunto.

In questo tipo di impresa però la possibilità di ristrutturare, chiudere e spostare interi complessi è fondamentale per rispondere a crisi e difficoltà economiche locali, oltre a permettere un controllo maggiore sulla propria forza lavoro, tenuta costantemente sotto pressione dal rischio di perdere il posto di lavoro e quindi, come diceva Kalecki, "tenuta in riga". Una norma quindi, per quanto depotenziata, che astrattamente può inceppare questo meccanismo, anche solo per l'incertezza dell'esito di una causa e per la lunghezza di essa (così si spiega l'interesse espresso più volte dalle società estere di avere una giustizia più rapida per investire maggiormente nel nostro Paese, anelito del tutto condivisibile, ma che, provenendo da multinazionali, mi suona sempre un po' sinistro...) è un ostacolo intollerabile e va quindi rimosso. Siccome in questo momento, per le ragioni che ben sappiamo, l'Italia è un paese in svendita e si avvia ad essere semplicemente un luogo dove avvengono le trasformazioni di materie prime e le lavorazioni intermedie, a beneficio delle produzioni estere, che stanno acquisendo buona parte del nostro tessuto produttivo, con il plauso di certa stampa ed una certa preoccupazione di altra, ecco che il dibattito su quello che rimane dell'art. 18 si fa di nuovo attuale.

Così ha trovato risposta anche il nostro secondo quesito e forse adesso vediamo con più chiarezza il quadro di insieme.

Se volete invitare Alfano o Sacconi o, perché no, Renzi a dare un occhiata a questo post, prima di lanciarsi in battaglie che hanno impatto zero sull'economia italiana, almeno finché rimane tale, avrete tutta la mia sincera gratitudine. Ma che accettino l'invito ci conto poco.