giovedì 22 gennaio 2015

Kaboom! QE? Draghi sugnu...


Quantitative Easing, per gli amici QE, è l'ultimo argomento di moda (nei peggiori bar e (tele)giornali...).

Conosciuto anche come "il bazooka di Draghi" tutti i TG di oggi lo presentano come l'arma finale per far ripartire la crescita, sconfiggere la recessione, allontanare il rischio (?) di deflazione e spingere di nuovo su i consumi. Praticamente l'equivalente economico dell'elisir di lunga vita...

Ma che cos'è il QE? E perché non c'hanno pensato prima a questa bomba "fine di mondo (gramo)"?

Il quantitative easing è una manovra strettamente monetaria con la quale una Banca Centrale si impegna all'acquisto massiccio di titoli, di solito di Stato, per un periodo di tempo determinato, ma piuttosto lungo. Il risultato è che si immette una gran quantità di denaro nel circuito finanziario, nel presupposto che esso scarseggi e che sia questa scarsità a frenare gli investimenti ed i consumi. Quindi si "spara" denaro per aumentarne la massa in circolazione, cosa che dovrebbe portare ad un aumento dell'inflazione, sconfiggendo il rischio di deflazione, ed ad un aumento di disponibilità monetaria per gli operatori economici che avrebbero così più facilità di ricevere prestiti dalle banche.
A cascata ciò porterebbe ad un aumento degli investimenti, quindi dei posti di lavoro, quindi dei redditi, quindi dei consumi. Bello, no?

E siamo alla seconda domanda: perché hanno aspettato tanto? Perché in Europa c'è chi teme l'inflazione e vede nell'acquisto di titoli di uno Stato un aiuto allo Stato stesso, che piazza facilmente il suo debito, con il rischio di condividere con lui il "rischio Paese", ovvero che quei titoli in pancia alla BCE perdano valore se quello Stato fa default, e non onori il suo debito (non ci vuole Poirot per capire chi è "chi"...).

Siccome "chi" è piuttosto influente la BCE ha deciso che solo il 20% del QE sarà condiviso, mentre il rimanente 80% sarà onore ed onere delle BC dei singoli Paesi, le quali acquisteranno i titoli di Stato e ne risponderanno con i loro assets (leggi riserve auree e monetarie).

Prima di indignarvi per la mancanza di cooperazione (che non c'è mai stata dall'inizio di questa sedicente Unione Europea) vi do una notizia: il QE di Draghi non servirà a (quasi) niente.

Non lo dico io, che sono un dilettante (nel senso che mi diletto) di economia: lo dice qualche commentatore più qualificato, come Frances Coppola, Alberto Gallo (head of macro credit research at RBS) e... la BCE!

Frances Coppola in due splendidi articoli che vi invito a leggere "The fiscal theory of monetary expansion" e "Let's all play QE" ci dice sostanzialmente che il semplice stimolo monetario, senza un conseguente stimolo fiscale (spesa a deficit e/o riduzione tassazione), non può stimolare domanda e redditi, crea tensioni sui cambi con i partner finanziari e commerciali, soprattutto se la loro moneta ha un cambio fisso con l'euro, ed ha un effetto deflattivo, non inflattivo!

Alberto Gallo in "ECB QE will not make Europe a good investment" afferma sostanzialmente lo stesso, ovvero se gli Stati non fanno politiche espansive il QE non ha effetti nell'economia reale se non un momentaneo stimolo all'export extra UE per l'indebolimento dell'euro, creando solo aspettative di ulteriori iniezioni di liquidità nel mercato finanziario (come in Giappone) e la creazione di "bolle" mobiliari, spingendo su il prezzo ed il rendimento in conto capitale dei titoli.
Ciò favorirebbe il 10% circa della popolazione europea, detentrice di significative quantità di titoli; sfortunatamente questo 10% è quello che ha una propensione marginale al consumo 3 volte meno del 50% più povero della popolazione, rendendo di fatto ineffettivo lo stimolo derivante dal maggior reddito da capitale. (la propensione marginale al consumo sarebbe quella quota di maggior reddito che un soggetto destina al consumo. Intuitivamente più è il reddito di base, meno il suo incremento va ad aumentare i consumi: chi è più ricco se guadagna di più non consuma molto di più, differentemente dal povero che consuma gran parte del maggior reddito).

Chi ci fornisce questi numeri? Ma la stessa BCE, in un suo studio di marzo 2014 (citato da Gallo). In definitiva quindi lo studio della BCE ci dice che il QE della BCE... non funzionerà, se non per arricchire chi è già benestante e, aggiungo io, per comprare tempo agli Stati in difficoltà, rimandando l'inevitabile default o l'uscita dall'euro.

Non è fantastico? Buon QE a tutti...!

martedì 20 gennaio 2015

Fact checking: Passera e gli interessi sui mutui

"Se usciamo dall'euro gli interessi dei mutui, non dico 10, ma almeno 5 volte aumenterebbero" "poi avremo dei debiti in euro da ripagare con le lire" (Passera, Piazzapulita del 19.1.15)

Questo sarebbe un banchiere. Uno che non sa neanche come sono fatti i mutui, la legge che regola i pagamenti e soprattutto che non conosce la determinazioni ed i tipi di interessi in vigore. O forse sì?

Per Passera e per voi affezionati lettori ecco qualche utile chiarimento.

I mutui sono principalmente di due tipi: a tasso fisso ed a tasso variabile. Se uscissimo dall'euro cosa accadrebbe? Mettiamo che il nuovo governo in carica decide di fare il grande passo ed abbandonare l'euro per adottare le "lirette" (nome scelto per far piacere a Mieli, Zucconi ed altra genia eurista; d'altronde chiamarle "bungalire" come simpaticamente le definisce quel mattacchione di Scacciavillani mi sembrerebbe eccessivo...). Immediatamente tutti i rapporti denominati in euro e retti da legislazione italiana o anche esteri senza una valuta espressamente indicata come unica fonte di pagamento, con clausola "effettiva" o similare, vengono convertiti nelle nuove lirette, con un tasso di conversione 1/1, se non vogliono far impazzire i contabili. Quindi i mutui del cittadino qualunque (che è l'oggetto delle attenzioni "pelose" degli euristi) si trasformano per il futuro in mutui in lirette, sia per gli interessi che per la sorte.

Il Governo poi saggiamente, per non rovinare i suoi cittadini, fa un decreto, con il quale, in deroga all'art.1278 c.c. stabilisce che i debiti già esistenti che andranno a scadere saranno pagati con valuta calcolata al momento della conversione, e non al momento della scadenza del debito. Ciò significa che il creditore avrà la valuta senza la eventuale successiva rivalutazione o svalutazione intercorsa. Ti devo mille euro tra tre mesi, e tra tre mesi ti darò mille lirette, qualsiasi sarà all'epoca il rapporto di cambio. Non è un grande sacrificio, e comunque fa parte del rischio di valuta.

Torniamo ai mutui: il mutuatario vedrà quindi il suo mutuo in euro trasformato in lirette. Ma gli interessi? Ci sono due possibilità: se sono a tasso fisso, nulla questio; devo un 4% fisso e quindi pagherò un 4% fisso. Mi sembra logico ed intuitivo. Se è a tasso variabile, questo di solito è composto da due parti: un tasso fisso e una parte determinata sull'Euribor, ovvero l'Euribor + una percentuale fissa di aumento. La parte fissa rimane fissa, mentre per l'Euribor ci sono due possibilità: essendo un tasso formato da una media dei tassi di prestito interbancario di un paniere di banche europee, o l'Italia, non facendo parte più dell'euro, esce dal paniere, e quindi l'Euribor andrà calcolato sul restante panel di banche, oppure l'Italia resta nel paniere e, l'eventuale aumento del tasso di interesse che dovrà pagare la banca nel panel per rifinanziarsi da altre banche europee, entrerà nel calcolo del tasso Euribor.

Ora se il paniere è composta da circa 40 banche, l'aumento dei tassi di 4 (tante sono le italiane nel panel) quanto incide sul totale? 1/10. Quindi, può l'Euribor aumentare di 5 volte, partendo mettiamo dal 0,5%? Ci vorrebbe un tasso interbancario applicato alle banche italiane del 20%, perché ciò avvenga... Può aumentare di 4 volte? No. Di 3? No. Di 2? forse, sarebbe un tasso del 5%, alto ma non impossibile.

La verità è che anche un aumento significativo del tasso di rifinanziamento delle banche italiane inserite nel paniere, diluendosi nella determinazione media porterebbe ad un aumento dell'Euribor probabilmente di un punto percentuale, a parità delle altre condizioni, quindi un aumento del tutto accettabile per chi ha un mutuo variabile, considerando il miglioramento economico che a medio termine dovrebbe procurare l'uscita dal cappio dell'euro e dei suoi parametri.

Il tasso complessivo aumenterebbe di 5 volte, come ipotizzato da Passera? Evidentemente no. Come il prezzo della benzina è solo per il 25% influenzato dal costo del petrolio, così un tasso variabile vedrebbe l'aumento dell'Euribor di un punto influenzare il proprio tasso solo di una percentuale, rimanendo uguale la parte fissa (spread) del tasso applicato.

Per tutti gli altri rapporti debito/credito c'è la famosa Lex Monetae, già esaminata. Sintetizzando: NESSUNO e sottolineo NESSUNO potrebbe richiedervi il pagamento in euro del vostro acquisto ancora pendente (auto, ad esempio) o derivante da contratto in essere (rateale, di durata, ecc.) perché non sarebbe più una moneta avente corso legale in Italia, e NESSUNO potrebbe rifiutare un pagamento in lirette. Se poi avete fatto un contratto sotto legislazione estera probabilmente avevate i vostri buoni motivi e comunque avete affrontato un rischio consapevolmente. Si chiama rischio di impresa.

Questa è la meno immaginifica e mirabolante, ma più tranquilla realtà.

Anche Passera passerà...

venerdì 16 gennaio 2015

The neverending story



Vi ricordate il film "Neverending story"? E' un fantasy degli anni '80 per bambini dove un ragazzino veniva risucchiato da un libro dentro il mondo di Fantàsia per affrontare la minaccia dall'Oscurità (The Nothing in originale) che, come una coltre, stava coprendo tutto e distruggendo quel mondo. Ecco, la storia della crisi che l'Italia sta vivendo è molto simile: anche qui c'è un'oscurità (economica) che sta man mano distruggendo il nostro Paese e sembra non avere fine. Sono ormai sei anni che siamo in crisi e non se ne vede l'uscita: vediamo per capire come è l'andamento dei principali indicatori economici al 2014

grafico 1

grafico 2

grafico 3

grafico 4

grafico 5

grafico 6

Potrebbe andare peggio... potrebbe piovere. (Marty Feldman).

Ad ulteriore conforto (...) vi annuncio che il 2014 si è chiuso con un rapporto Debito/PIL che sfiora il 138% con una contrazione consolidata del PIL dello 0,4 (dati ISTAT).

E' evidente che con questi dati la svolta nel 2015 non vi sarà, nonostante i soliti proclami: " Nel 2015, la variazione del Pil tornerà debolmente positiva (+0,5%), chiudendo la lunga recessione del triennio precedente. Per il 2016 è previsto un consolidamento della crescita economica (+1%), che si dispiegherà a ritmi inferiori a quelli dei più dinamici concorrenti europei ed internazionali." (ISTAT Le prospettive per l'economia italiana 2014-2016 p. 3).

Perché non riusciamo ad uscire dalla crisi? Eppure il governo Renzi sta facendo tutto quello che ci viene chiesto dagli organismi politici ed economici internazionali: riforma del mercato del lavoro, riforme istituzionali per snellire l'iter burocratico legislativo, tagli alla spesa pubblica... Ecco, appunto: il governo Renzi sta facendo tutto quello che non serve per uscire dalla crisi, ma anzi ne peggiora ed amplifica gli effetti.

Vediamo perché.

1. Riforma del mercato del lavoro (Jobs Act)

Ne abbiamo parlato, Questa riforma agisce in due direzioni: da una parte rende flessibile l'entrata nel mondo del lavoro, con il contratto a tutele crescenti, dall'altra facilità l'espulsione del lavoratore, con l'applicazione attenuata dell'art. 18 Statuto Lavoratori. Questo dovrebbe favorire l'assunzione di nuovi lavoratori, non avendo il datore di lavoro il timore di "sposare" il lavoratore, offrendogli un contratto a tempo indeterminato e rendendo meno onerosa e soprattutto definitiva la sua uscita.

Risolve i problemi che abbiamo evidenziato? Assolutamente no. Le imprese assumono ed hanno sempre assunto considerando l'utilità marginale del lavoratore, ovvero, in parole più semplici, quanto può incrementare il reddito l'utilizzo di quel lavoratore in rapporto al suo costo. Ciò evidentemente dipende dalla domanda di beni che l'imprenditore si aspetta di dover soddisfare; ora in una conclamata crisi di domanda (vedi grafico 3) l'impresa non ha alcuna convenienza ad assumere e ad incrementare una produzione che già è eccessiva rispetto alla richiesta. Il fatto che possa produrre anche a costo inferiore non modifica questa situazione, poiché la crisi di domanda è crisi di reddito (come si vede dal grafico 1 del PIL), ne consegue che questa recessione non deriva se non in minima parte dal fatto che il consumatore, aspettandosi prezzi futuri più bassi, dilaziona gli acquisti, ma semplicemente dal fatto che non vi sono i soldi per procedere agli acquisti. Punto.

Gli imprenditori questo lo sanno, ed infatti nel grafico 3 si vede che sono crollati i consumi anche per gli investimenti, dato che comprare macchinari nuovi per tenerli inutilizzati o sottoutilizzati non è economicamente logico. Se quindi si interviene solo dal lato dell'offerta (costo del lavoro) non si risolve il problema, che è dal lato della domanda: Il poco compianto (politicamente parlando) Monti ed i suoi successori Letta e Renzi hanno (per ragioni che abbiamo già esaminato) distrutto i nostri redditi (come simpaticamente ha ammesso Monti intervistato dalla CNN) e quindi la nostra capacità di spesa e non è producendo più beni od anche a minor costo che si supera la crisi.

Che il Jobs Act non funzionerà lo dicono i precedenti storici: nonostante la moderazione salariale degli ultimi anni e l'incremento dell'utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato (che ha superato quelli a tempo indeterminato) e quindi della flessibilità tanto invocata, la disoccupazione è continuata a salire (grafico 4).

2. Riforme istituzionali

Si è detto che l'iter di approvazione delle leggi è lungo ed inutilmente complesso, con due Camere che duplicano le funzioni legislative: da qui la riforma che elimina il Senato come Camera legislativa e la fa diventare un'assemblea con competenze minori, occupandosi solo di alcuni tipi di leggi, e sostanzialmente diverse, diventando una specie di tramite per le istanze degli Enti locali. E' questa la soluzione di un vero problema che ha impedito di agire per contrastare la crisi? Chiaramente no, e che sia un falso problema lo dimostra un semplice dato: l'incremento abnorme dell'uso dei decreti legge da parte degli ultimi governi, Vediamo qualche dato tratto dal sito del Senato :

2008  DL approvati Camera   49 / Senato   58 / Comm. Camera   5 / Comm. Senato   5
2009  DL approvati Camera 102 / Senato 113 / Comm. Camera 41 / Comm. Senato 27
2010  DL approvati Camera 109 / Senato   80 / Comm. Camera 25 / Comm. Senato 11
2011  DL approvati Camera 143 / Senato   90 / Comm, Camera 14 / Comm. Senato 20
2012  DL approvati Camera 133 / Senato 126 / Comm. Camera 53 / Comm. Senato 29

Ora il DL dovrebbe essere uno strumento da utilizzare per ragioni d'urgenza che non permettono l'attesa dei tempi ordinari legislativi: come si vede dal 2009 l'utilizzo di tale strumento si è più che raddoppiato ed è diventato la fonte principale di legislazione. Evidentemente la crisi economica ha costretto i governi che si sono succeduti a legiferare d'urgenza ed il Capo dello Stato a "chiudere un occhio" sull'esistenza dei requisiti di ammissibilità, ma proprio per questo non può essere stata la lunghezza degli iter legislativi (che sono stati bypassati) ad aver impedito o ad impedire l'attuazione di norme efficaci a contrasto della crisi.

Le altre riforme in cantiere (legge elettorale, eliminazione Province, numero dei deputati) possono forse migliorare il funzionamento dell'apparato statale (personalmente ne dubito), ma hanno un impatto zero sulla situazione economica.

3. Tagli alla spesa pubblica

Ormai dovreste averlo capito: questa è attualmente una crisi di domanda causata da politiche di riduzione dei redditi, per contrastare uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti originariamente causato da un eccesso di indebitamento del settore privato con l'estero (Se siete nuovi o non vi è ancora chiaro andate sulla maschera di ricerca di questo blog per cercarvi i post che trattano la questione o partite semplicemente da zero. Tranquilli, ce la potete fare...).

In questo contesto tagliare la spesa pubblica, che è domanda, sia diretta, perché la PA chiede beni e servizi per la sua attività, sia indiretta, perché fornisce redditi ai suoi dipendenti, redditi che vengono spesi nel mercato privato e diventano quindi guadagno privato, significa togliere ancora più risorse disponibili al consumo e, grazie al moltiplicatore keynesiano, porta ad una contrazione del PIL che è maggiore del risparmio di spesa, con la bella conclusione di innalzare il rapporto debito/PIL, perché diminuisce il denominatore più di quanto faccia il numeratore.

Le vere ragioni dei tagli le abbiamo viste quando abbiamo parlato più volte di privatizzazioni (solito consiglio: maschera di ricerca) ed evidentemente non hanno nulla a che fare con la crisi, se non che per qualcuno la crisi è una ghiotta occasione per arricchirsi.

Se queste quindi sono le azioni a contrasto del declino economico che ci affligge prepariamoci ad una "storia senza fine" da tramandare ai nostri figli ed ai nostri nipoti: d'altronde a ben pensarci abbiamo già The Nothing che ci governa...



giovedì 8 gennaio 2015

L'attacco finale


Siamo alla resa dei conti.

Dopo l'attacco indiretto portato dal M5S, sotto le spoglie accattivanti e superficialmente giuste del c.d. reddito di cittadinanza, che non è un vero reddito di cittadinanza e proprio per questo provoca effetti distorsivi e deflattivi, come si può vedere qui, arriva l'attacco diretto e definitivo al lavoro, il vero bersaglio di tutte le politiche liberiste attuate negli ultimi 40 anni in Italia. Per capirlo basta guardare questo grafico:

Fonte: Goofynomics
E' dalla fine degli anni '70 che la quota salari sul prodotto interno ha cominciato a calare progressivamente fino ad arrivare a livelli pre anni '60, con un lieve recupero nei primi anni dell'euro (quando l'economia tirava, drogata dal debito estero) fino allo scoppio della crisi. Ciò significa che da allora il conflitto distributivo è andato a favore del capitale, il quale si è appropriato, con l'incremento della quota dei profitti, dell'aumento della produttività, fino alla fine degli anni '90. Lo si vede bene qui:

Fonte: Goofynomics

la "pancia" fra le due linee rappresenta l'incremento della quota salari rispetto all'incremento della produttività: come si vede la quota salari aumenta più che proporzionalmente della produttività, recuperando così a proprio favore la quota di distribuzione del reddito, fino al 1980, poi comincia a calare in termini reali, ovvero cala più dell'incremento della produttività, perdendo mano a mano quota fino al 1997, quando le curve si incontrano e procedono parallelamente fino allo scoppio della crisi.

Tenete presente che, in un mondo capitalistico perfetto, in presenza di un giusto salario, le due curve dovrebbero precedere accostate parallelamente, come è avvenuto dal 2000 al 2008, ovvero ad un incremento di produttività dovrebbe corrispondere un pari aumento dei salari, cosa che sosterrebbe la domanda globale di beni e permetterebbe di assorbire la produzione e di rendere stabile la crescita (non contando nel consumo per semplicità le esportazioni e le importazioni). Quindi quello che è accaduto è che, con le lotte sindacali negli anni '70 i lavoratori hanno migliorato a proprio favore il conflitto distributivo, orientandolo maggiormente verso i salari ed ottenendo così degli aumenti reali di reddito (cioè maggiori rispetto alla produzione) per circa un decennio, poi gli industriali e gli altri detentori di capitale hanno spostato a loro favore tale conflitto aumentando la quota di reddito destinata al profitto.

E' una particolarità tutta italiana? No, quello che è successo in Italia è il riflesso di quello che è successo in tutte le economie avanzate nello stesso periodo: in tutto il mondo vi è stata una "controffensiva" del capitale sul lavoro:

Fonte: Sinistrainrete     Dati: AMECO Commissione Europea
La linea nera rappresenta il tasso di profitto rispetto al PIL (scala di sinistra) delle tre economie più avanzate, ovvero USA, Europa e Giappone (media ponderata), mentre la linea grigia il tasso ponderato di incremento della produttività delle tre zone (scala di destra). Come si vede a partire dagli anni '80 il tasso di profitto decolla, nonostante la produttività vada calando, aumentando sempre più la propria quota sul PIL. Il conflitto distributivo pende quindi a favore del profitto a scapito del lavoro.

Da notare che, anche dopo la crisi e l'austerità indotta, il tasso di profitto rimane comunque ben più elevato della produttività; ciò significa che vi sono aziende che continuano ad avere un buon tasso di profitto che non è stato intaccato dal calo della domanda globale, ma che si è mantenuto grazie al crollo dei salari ed alla disoccupazione. Ciò significa anche che per alcune aziende la crisi è comunque un'opportunità di guadagno (un esempio lo trovate in questo articolo) e queste aziende e gli uomini che le rappresentano non si dannano certo l'anima per cambiare o far cambiare tale situazione. Questo vi dovrebbe spiegare molte cose...

In questo quadro il Job Act di Renzi trova una sua perfetta collocazione: con il contratto a tutele crescenti si è infatti riuscito a trasformare il contratto a tempo indeterminato, ultimo baluardo delle lotte sociali degli anni '70 - con la sua stabilità e sicurezza garantita dallo Statuto dei Lavoratori - in un tipo particolare di contratto precario, lasciando quindi alla mercé del datore di lavoro la durata e soprattutto la qualità del rapporto lavorativo.

A parte infatti quanto emerge dallo studio della UIL, citato fra gli altri in questo articolo, che spiega il "lato oscuro" del rapporto indennizzi/incentivi, per cui si rischia che sia conveniente per le imprese assumere e poi dopo due/tre anni licenziare il lavoratore, il problema vero del nuovo contratto a tempo indeterminato è dato dal fatto che il dipendente non ha più la stabilità del contratto come base diciamo "negoziale" per i suoi rapporti con il datore di lavoro. Sottostando alla possibilità di essere licenziato senza obbligo di motivazione (non applicandosi l'art. 18, neppure nel testo rimaneggiato e depotenziato che esce dalla riforma), se non una generica e soggettiva non idoneità al lavoro, è evidente che il dipendente per i primi anni sarà totalmente succube del proprio datore, il quale lo utilizzerà come ritiene più opportuno, sia riguardo all'orario, sia riguardo alle modalità di svolgimento dei compiti assegnati e soprattutto riguardo alla paga, che può essere non a caso oggetto di accordi aziendali.

Questa riforma ci porta quindi più vicino agli USA ed all'etica liberista che permea i contratti di lavoro oltreoceano, aggravato dal fatto che il NAFTA (l'accordo di libero scambio Nord Americano), come abbiamo visto, ha tirato giù ulteriormente i salari degli americani, messi in competizione con i lavoratori messicani (ed è quello che ci toccherà con il TTIP), ed è appunto l'attacco finale al concetto di lavoro come diritto di cui all'art. 4 Cost. (e non come favore), e ad una retribuzione che garantisca un'esistenza libera e dignitosa di cui all'art. 36 Cost., che sono la base della nostra società e del nostro assetto economico costituzionale.

A chi giova questa riforma? Agli stessi che abbiamo già visto quando abbiamo parlato di art. 18 dello Statuto: basta rileggersi l'ultima parte di quell'articolo per avere le risposte (un po' di impegno dopo la pigrizia delle feste...)

Buona lettura.