Uno studio di Morgan Stanley di Leonardo Mazzei
L'euro forte, cioè germano-centrico, altro non è che una pesante zavorra per le economie dell'Europa meridionale. A dirlo non siamo solo noi, ma organismi e personaggi di ben altro orientamento.
E' il caso di Morgan Stanley, che ha recentemente pubblicato le conclusioni di una sua ricerca su quello che dovrebbe essere il rapporto di cambio euro/dollaro «giusto», cioè confacente alla concreta situazione economica di diversi paesi dell'eurozona.
I risultati della ricerca ["Per Berlino l'euro è mini", di Alessandro Merli. Il Sole 24 Oredel 9 febbraio] sono interessanti per tre motivi: in primo luogo perché dimostrano l'insostenibilità della moneta unica; in secondo luogo perché evidenziano la necessità di una svalutazione monetaria per le economie dell'Europa meridionale; in terzo luogo perché mostrano come tali svalutazioni (purché guidate in maniera adeguata) sarebbero sostanziali ma non catastrofiche.
Tre cose che - come sanno bene i nostri lettori - sosteniamo da sempre, da quando cioè la crisi dell'eurozona è scoppiata con tutta la sua virulenza. Tre cose però rigorosamente vietate dal politically correct in versione europea.
Lo studio di Morgan Stanley non è stato realizzato in un asettico laboratorio, bensì nel cuore di una vera e propria guerra valutaria, che vede i governi di Washington e di Tokio impegnatissimi ad operare per una forte svalutazione delle proprie monete (il dollaro e lo yen), in particolare nei confronti dell'euro. Una manovra che va bene anche a Pechino, dato che il governo cinese ha di fatto ancorato lo yuan al dollaro.
Questa pressione ha indispettito il presidente francese Francois Hollande —la Francia, come vedremo, non è poi messa troppo bene (vedi anche questo articolo di Jacques Sapir)— ma non ha minimamente scalfito l'indifferente alterigia di una Germania che sembra avere in Draghi un sicuro alleato. Una Germania che non ha alcuna intenzione di resistere, anzi! , alla politica di Stati Uniti e Giappone, per la semplice ragione che dal suo punto di vista (ma praticamente solo dal suo) l'euro è ancora troppo sottovalutato.
A darci una conferma di tutto ciò, è arrivata appunto Morgan Stanley.
Come abbiamo già detto, la banca d'affari newyorchese ha infatti calcolato quale sarebbe il cambio «appropriato» nei confronti del dollaro per ciascun paese. Questi i risultati: Germania 1,53 - Irlanda 1,41 - Austria 1,35 - Finlandia 1,28 - Spagna 1,26 - Portogallo 1,24 - Francia 1,23 (ecco spiegati i malumori di Hollande) - Olanda (sorpresa relativa) 1,22 - Belgio 1,19 - Italia (che invece tace) 1,19 - Grecia 1,07.
Tre paesi stanno quindi sopra la soglia di 1,33 —assunta come base dallo studio— ed è come avessero attualmente una moneta svalutata nella misura seguente: Germania -13,2%, Irlanda -5,7%, Austria -1,5%. Gli altri, invece, si ritrovano con una moneta sopravvalutata: Finlandia +3,8%, Spagna +5,4%, Portogallo +7,3%, Francia +7,8%, Olanda +9,1%, Belgio +12,0%, Italia +12,1%, Grecia +24,3%. Ecco quindi spiegato perché i paesi del primo gruppo non si oppongono all'attuale rivalutazione dell'euro, mentre quelli del secondo di certo non gioiscono, anche se l'ortodossia europeista gli impedisce una vera e propria azione di contrasto all'indiscussa egemonia tedesca.
Morgan Stanley ha calcolato che un 10% di rivalutazione dell'euro (da luglio 2012 siamo ad un +15%) si traduce in una contrazione del Pil dello 0,5%, il che non è poco in tempi di recessione come gli attuali. Ma per la Germania non c'è problema, tanto la sua guerra commerciale è rivolta soprattutto verso i disgraziati partner dell'eurozona, i quali niente possono fare, dato che altrettanto disgraziatamente si ritrovano la stessa moneta dei capitalisti tedeschi.
In altre parole, per Berlino è accettabile perdere competitività rispetto alle merci americane e giapponesi, l'importante è poter continuare a sfruttare il gap che si è determinato con le altre grandi economie dell'eurozona (Italia, Francia, Spagna).
Abbiamo detto all'inizio che questi dati dimostrano principalmente tre cose. Vediamole.
Euro, moneta insostenibile
La prima cosa, qualora ce ne fosse bisogno, è che l'euro è una moneta che non può reggere. Certo, le oligarchie finanziarie faranno di tutto per tenerla in piedi, ma alla lunga tutto ciò si rivelerà inutile. Peraltro, la resistenza delle oligarchie non è tanto il frutto di una convinzione sulle prospettive, quanto piuttosto la conseguenza degli interessi immediati delle banche e delle altre istituzioni finanziarie, che hanno un obiettivo che prevale su ogni altra considerazione: la riscossione delle cedole ed il recupero dei crediti verso gli Stati, da ottenere in moneta forte e sonante.
Tutta la politica istituzionale è «europeista» a prescindere, ma c'è forse qualcuno che si periti di dire come si intende azzerare, o quantomeno ridurre, gli squilibri interni all'Unione, evidenziati anche dallo studio di Morgan Stanley? No, nessuno lo dice. E la ragione è semplice: tutti sanno che non è possibile, se non passando sopra il cadavere della Germania. Ma l'Unione è strutturalmente centrata sugli interessi di Berlino, e dunque anche questa prospettiva è semplicemente improponibile. Non resta che la disintegrazione, ma questo è il più grande dei tabù, specie a sinistra. Come ovvio, Morgan Stanley non osa affermarlo apertamente, ma le risultanze del suo studio questo ci dicono: l'euro è una moneta insostenibile.
La svalutazione necessaria
Le cifre della banca americana mettono in luce la necessità di una svalutazione per le economie dell'Europa meridionale. Ma c'è un piccolo problema: non si può svalutare se prima non si esce dall'euro. Ecco allora che l'esigenza svalutativa si riflette sull'euro, con (l'inascoltata) richiesta francese alla Bce di operare per fermare quantomeno la pericolosa rivalutazione in corso nei confronto di yen e dollaro.
Siccome nessuno crede veramente alla possibilità di un riequilibrio interno all'Unione, che richiederebbe, oltre che una convergenza delle politiche fiscali, una politica economica di massicci trasferimenti dal nord al sud dell'UE, e quindi in definitiva un vero processo di unificazione politica, non c'è altra via per i paesi del sud che quella delle necessarie svalutazioni da attuarsi subito dopo essere usciti dalla gabbia della moneta unica. O meglio, un'altra via c'è, peccato che sia proprio quella oggi praticata dai servili governi della periferia europea: essa è quella della cosiddetta «deflazione», cioè riduzione, salariale. Chi si oppone alla svalutazione monetaria, come se fosse il peggiore dei mali, deve sapere che questa è l'alternativa, con il suo corollario fatto di disoccupazione e di pauperizzazione di massa.
Svalutazione, ma di quanto?
In polemica con gli interessati catastrofisti «un tanto al chilo», ci siamo più volte soffermati sul fatto che la svalutazione dovrebbe essere sì sostanziale (altrimenti non avrebbe senso insistere tanto su questo punto), ma neppure troppo elevata.
Su questo la discussione è però estremamente difficile, dato che le sparate impressionistiche hanno spesso buon gioco sugli argomenti razionali. In questi giorni, ad esempio, ci è capitato di sentire un pittoresco personaggio di Piacenza, che si picca per giunta di avere qualche precedente come ministro economico, sostenere che senza l'euro l'Italia si ritroverebbe da sola, con la sua «liretta», in mezzo al Mediterraneo. Ora, di grazia, l'Italia, con lira, euro o sesterzio, dov'altro dovrebbe trovarsi?
A noi sembra, per la verità, che non la collocazione geografica sia il problema, quanto piuttosto una moneta che ci aggancia non al Mediterraneo ma ai freddi mari del nord. In ogni caso, Morgan Stanley disegna un quadro ben diverso da quello terroristico prospettato dal socio di Monti. L'Italia dovrebbe svalutare del 12% rispetto all'euro attuale e di circa il 25% rispetto alla Germania.
Da sempre abbiamo detto e scritto che, in base a quello che ci dicono i dati macroeconomici, la svalutazione della nuova lira dovrebbe oscillare tra il 15 ed il 20%. Ipotesi, come si può vedere, sostanzialmente allineata con quella dello studio di cui ci stiamo occupando. Chi spara cifre sul 50% ed oltre, od è perfettamente ignorante od è totalmente disonesto. Naturalmente una cosa non esclude l'altra.
In conclusione
E' naturale che scelte così dirimenti e dirompenti, come quella dell'uscita dall'euro e del successivo riallineamento monetario, possano condurre ad esiti assai diversi a seconda di chi guida e governa il processo di sganciamento. Questa cosa è così ovvia che la risparmiamo ai lettori, senza mai dimenticare che per noi questa prospettiva è sempre legata alla nascita di un governo d'emergenza popolare, come sbocco di una sollevazione di massa capace di mandare a casa l'attuale classe dirigente.
Si tratta solo di sapere che il processo di disintegrazione europea ha una sua potente oggettività. Essa potrà condurre in direzioni anche opposte. Ma di certo niente resterà come prima. E solo chi saprà fare seriamente i conti con questa realtà potrà proporre credibilmente una via d'uscita. Questa è la questione. Niente di più, niente di meno.
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