Vi lasciamo alla lettura sperando finalmente di poter chiudere la questione su questo esterofilismo becero che governa il popolo italiano:
Devo occuparmi dell’argomento “mi’ cuggino”. Eh sì, perché quando si arriva a questo punto, quando si fa notare che la Germania ha praticato fin dal secondo dopoguerra una politica di deflazione competitiva, salta sempre fuori qualcuno che, come nella canzone di Elio, se ne esce con: “m’ha detto mi’ cuggino che alla Volkswagen stanno meglio che alla Fiat”. Se non l’ha detto “mi’ cuggino” l’ha detto “un amico che lavora lì”, se non è un amico è un giornale, uno di quei giornali che vi hanno informati così bene finora, e continuano a farlo, con professionalità e indipendenza (da voi) seconde solo a quelle delle banche centrali.
L’argomento “del cuggino” è che il “netto in busta” sarebbe più alto in Germania, il che rende assurdo sostenere che la Germania faccia competizione sui salari, cioè tramite una “svalutazione interna” competitiva. Argomento sposato da un’altra mia affezionata lettrice, Dana74. Cara, carissima, adorabile Dana74:
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.
(Gozzano, La signorina Felicita)
Vediamo insieme cosa non comprende (in my humble opinion) Dana, e in che cosa l’argumentum ad cugginum è fallace.
I dati che mi’ cuggino non conosce... (ma basta chiedere)
Una cosa credo di aver capito studiando l’economia: se si è disposti a saltabeccare dal livello dell’analisi economica a quello dell’aneddoto, dal ritaglio di giornale ai database dell’OCSE, dalla sociologia alla statistica economica, si può dimostrare tutto, e il suo contrario. A me qui interessa il livello macroeconomico (gli aneddoti ben vengano nei commenti) e mi interessano i dati provenienti dalle fonti ufficiali, che come al solito vi fornirò.Con questa premessa, faccio alcune ovvie considerazioni.
1. La Germania non è la Volkswagen, come l’Italia non è la Fiat. Tutti gli aneddoti sono utili, ma alla fine il risultato complessivo va valutato in termini complessivi. Ad esempio: saranno tutti così felici i lavoratori dell’indotto? Ma non voglio indurvi a raccontare altri aneddoti. Voglio guardare all'aggregato.
2. Nell’aggregato i salari reali tedeschi, dal changeover in poi, sono diminuiti, mentre quelli italiani sono rimasti stazionari. Il dato è ampiamente noto (tranne che in Italia), e ampiamente ammesso dall’establishment tedesco, che, per bocca di Roland Berger, consulente della Merkel, ammette che la ricetta del successo tedesco sta nella "liberalizzazione" del mercato del lavoro e in aumenti dei salari reali inferiori a quelli della produttività. Che poi significa aumenti dei profitti superiori a quelli della produttività (a meno che lo scarto non venga dato in beneficenza). E i risultati si vedono, sono nei dati. Guardate la Fig. 1:
Ora io mi chiedo, e soprattutto lo chiedo a Dana74: lo dicono i dati, lo dicono i responsabili della politica tedesca: occorre altro per capire che la Germania fa competizione sui salari (cioè pratica una “svalutazione interna” o deflazione competitiva)? Evidentemente a te sì. E allora mi arrendo. Hai vinto.
3: "Ma io sto meglio in Germania che in Italia, dice un altro mio carissimo lettore. Nel senso che hai più soldi in busta paga. Giusto. Solo che all’imprenditore non interessa quanto dà a te, ma quanto gli costi, e le due cose sono diverse. In mezzo c’è il cuneo fiscale. Il costo del lavoro non è il netto in busta, e questo voi, che a differenza di me siete uomini pratici, lo capite meglio di me: ci sono di mezzo contributi e tasse. Quindi c’è ovviamente anche un problema di sistema fiscale, e ovviamente un enorme freno alla competitività italiana è posto dall’iniquità italiana, cioè dal fatto, talmente macroscopico che lo vedo anch’io, che sul lavoro dipendente cade il maggiore onere fiscale. E poi: sei sicuro di comprare a Brema lo stesso paniere di beni che compri a Viterbo? Perché tu ci hai detto che guadagni di più, ma... non ci hai detto quanto costa un chilo di pane, quanto spendi per il biglietto dell’autobus, ecc. Siamo sicuri che in Germania la vita costi di meno? L’OCSE tanto sicura non lo è. Se convertiamo i redditi unitari da lavoro dipendente (diciamo, il salario medio al lordo delle tasse) in una comune unità di misura, vediamo che a parità di potere d’acquisto i salari nominale tedeschi e italiani sono perfettamente allineati. Anzi: prima del changeover, cioè prima dell’operazione 1000 lire = 1 euro, la vita in Italia costava sensibilmente di meno, tant’è che a parità di potere d’acquisto i nostri salari erano superiori. Lo si vede bene nella Fig. 2:
Vedete che bel "tuffo" fra 2002 e 2003? Ma naturalmente è solo un problema di percezione. Lo abbiamo percepito noi, e l'OCSE. Il governo (Berlusconi) e i suoi apparati (Istat ecc.) un po' di meno. "Noi veggiam come quei c'ha mala luce...". Anche gli uffici statistici, forse, vedono meglio a distanza. E il tempo, comunque, è galantuomo.
4: il mio lettore dichiara di essere rimasto allibito quando il suo capo (Führer) ha licenziato una sua collega dall’oggi al domani. Caro lettore, hai capito come stanno le cose? Lo sai come si chiama questo? Si chiama liberalizzazione del mercato del lavoro. Che poi sarebbe un eufemismo per disoccupazione. Perché la diminuzione del salari reali vista in Fig. 1 non è stata ottenuta con la moral suasion: è stata ottenuta con la minaccia dei licenziamenti e delle delocalizzazioni, e imponendo un tasso di disoccupazione in alcuni anni fino a 3 punti più alto che in Italia (per citare un esempio). Non credi a me? Hai, come ognuno di noi, me compreso, un lato Dana? E allora guardati i dati della Banca Mondiale:
Vedi come decolla la disoccupazione nel 2003, l'anno che Berger indica come anno della "riscossa", delle "riforme" tedesche? Ma io so che tu lo sai...
La morale della favola (ma non ditela a mi’ cuggino...)
Chiedo scusa per la lunga parentesi. Vorrei non fosse necessaria, e soprattutto vorrei non fosse inutile. Temo sarà l’uno e l’altro. Continuo quindi lasciando Dana74 al suo sbigottimento (“e lo mperché non sanno”) e rivolgendomi agli happy few.Riassumo: la Germania pratica una svalutazione interna competitiva che realizza comprimendo i diritti dei lavoratori, e pretende che noi adottiamo questo modello. Lo fa perché così possiamo competere con lei? No. Lo fa perché i suoi imprenditori vogliono trovare da noi, una volta acquistate le nostre aziende, le stesse condizioni di “liberalizzazione” (leggi: licenziamenti facili e compressione dei salari reali) che gli hanno garantito elevati profitti a casa loro. L’invito alla “virtù alamanna” è ovviamente “pro domo sua” (cioè loro): “buono fantolino, a tu piace voli vola...” dalla finestra, se chiedi l’aumento all’imprenditore alamanno.
Fateci caso: in questa ottica (e solo in questa ottica) l’insistenza del governo sull’art. 18 acquista una logica che altrimenti non avrebbe. Sappiamo che esso non interessa alle aziende italiane. E allora perché interessa tanto al governo degli italiani? Semplice: perché sopprimere l’art. 18 interessa alle aziende tedesche (che ce lo hanno chiesto per interposta Bce). E infatti Berlusconi è stato “sostituito” non appena si è capito che non ce l’avrebbe fatta a imporsi su questo punto. Tu mi intendi, vero, Marino?
Obiezioni inutili
Qualcuno potrebbe obiettare: ma se le politiche di austerità compromettono la redditività, gli imprenditori esteri che affare ci fanno? E la risposta è abbastanza ovvia: intanto, quello che si perde in traino della domanda sul nostro mercati, lo si guadagna in compressione dei salari. Ma il punto è un altro: chi ha detto che gli imprenditori esteri siano interessati alnostro mercato? Sono interessati alla nostra eccellenza manifatturiera, che ha mercato nel mondo. Il nostro destino è quello di diventare una gigantesca “fabbrica cacciavite”, una specie di “Cina” europea, dove gli imprenditori del Nord vengono a produrre per riesportare, approfittando dei bassi salari e dei bassi diritti. Direte allora: ma la Cina ci ha guadagnato! Certo: ma il processo lo ha gestito lei, con regole sulla corporate governance, sul trasferimento di tecnologia, sui requisiti occupazionali, sui contenuti nazionali minimi, ecc. Noi invece lo stiamo subendo. Direte ancora: ma comunque gli investitori esteri porteranno crescita, che alla fine è quello che ci serve. Rispondo: certo! Come in Irlanda. Porteranno crescita, e riporteranno all’estero i profitti realizzati, dando un’ulteriore spinta in discesa all’indebitamento estero(secondo quanto ho spiegato qui).Lasciate perdere... o anche no: non lasciate perdere: parliamone: decenni e decenni di disinformazione non possono non aver lasciato scorie. Depuriamoci insieme. L'acqua della salute è meglio di quella del Letè, che mi sembra tutti stiano bevendo a garganella!
Concludendo
In Italia, a sinistra, va per la maggiore una certa esterofilia un po’ provinciale e un po’ autolesionista, alla Tafazzi. Anche chi intuisce che l’ideologia del vincolo esterno ha creato più problemi economici di quanti ne abbia risolti, anche chi non si nasconde la gravità del furto di democrazia che essa ha determinato, insiste ad autoflagellarsi: ce lo meritiamo, perché non siamo bravi come i tedeschi! I tedeschi ci confessano che in realtà la loro bravura consiste solo nel comprimere salari e diritti, ma i nostri Tafazzi non possono crederci. Confessio regina probationum, ma non per loro. Questi ingenui, che vivono nel “mito della razza ariana”, sono poi quelli che appena arrivano all’estero cercano, come Totò e Peppino, un ristorante italiano, preferendo un pessimo piatto di spaghetti a un’ottima Flammkuchen (salvo poi lamentarsi che gli spaghetti erano scotti... e grazie!).Ma come non capirli? Trovare all’estero le cose di casa è indubbiamente rassicurante, soprattutto per personalità non sufficientemente strutturate. Flaiano, che era di Pescara (terra di spaghetti alla chitarra), definiva non a caso l’Italia una Matria (chi per la Matria muor vissuto è assai). E quando penso ai miei studenti di Pescara, che adoro e rispetto (e loro lo sanno), capisco benissimo quanto la chitarrina della mamma (in senso gastronomico ed edipico) abbia parte nella loro feroce determinazione di non studiare le lingue (ma una cosa la sanno dire: mannàggement – management). E io a dirgli: “non ascoltate me, studiate l’inglese, andatevene”. Ma il campo gravitazionale della chitarrina, anche di quella ai frutti di mare, è invincibile (amor omnia vincit).
Ma questo non è solo un vizio (se è un vizio) italiano: lo condividono anche i nostri “cuggini” tedeschi. I quali in fondo vorrebbero solo trovare qui, da noi, dopo che ci avranno comprato, le cose di casa. Un desiderio innocente: quasi modo geniti infantes. E non mi riferisco tanto alla fragrante Flammkuchen della mamma... quanto alla rassicurante e familiarmente alamanna possibilità di licenziare in tronco i lavoratori che eventualmente desiderassero appropriarsi in busta paga di una parte degli incrementi di produttività.
Del resto, ci mancherebbe altro che fosse difficile licenziare in Italia quegli italiani che è così facile licenziare in Germania! Non per questo abbiamo (chi?) fatto l'Europa!
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