mercoledì 17 luglio 2013

L'Euro verrà distrutto come il Gold standard?

Da un articolo sul sito dell’Economist, la sintesi del paper di Bordo e James sui parallelismi tra la crisi dell’euro e la crisi del gold standard. Una serie di trilemmi ricapitola ciò che viene sistematicamente messo a rischio nei paesi che adottano un sistema di cambi fissi associato a libertà di movimento dei capitali: autonomia delle politiche monetarie, stabilità finanziaria e infine democrazia.


Traduzione di Henry Tougha da freeexchange sul sito dell’Economist

Dalla scorsa estate i leader europei hanno goduto di un periodo di tregua dalle turbolenze finanziarie. Eppure l’euro è ancora vulnerabile. Non appena la coalizione di governo si è spaccata, i tassi d’interesse dei bond portoghesi hanno ricominciato a salire. L’economia irlandese si è contratta per tre trimestri di fila. Un’unione bancaria adeguata è ancora lontanissima. La fragilità dell’euro è stata sottolineata da un nuovo studio * di Michael Bordo della Rutgers University e di Harold James dell’Università di Princeton. I due storici dell’economia hanno analizzato i difetti di un altro regime monetario internazionale che si pensava indistruttibile, il gold standard, e hanno trovato dei buoni motivi per preoccuparsi della moneta unica.

I parallelismi tra euro e gold standard non sono del tutto precisi. L’euro è un’unione monetaria con al suo vertice una Banca Centrale Europea (BCE); il gold standard non aveva una simile istituzione. L’euro fluttua rispetto alle altre valute come il dollaro, e la BCE è tenuta a mantenere la stabilità dei prezzi invece che la convertibilità in oro. Ciononostante, per i 17 paesi che oggi condividono la moneta unica essa rappresenta un nuovo gold standard, poiché di fatto tra loro ci sono dei tassi di cambio fissi.

Quest’osservazione non è una novità, ma è nuova l’analisi che loro fanno delle tensioni che alla fine hanno fatto naufragare il gold standard. Tali tensioni, essi affermano, emersero da un trio di “trilemmi”, ciascuno dei quali consiste in un set di tre opzioni di cui due assieme sono fattibili, ma non tutte e tre contemporaneamente. Uno dei tre trilemmi è ben noto agli economisti: si tratta della “impossibile trinità” di tassi di cambio fissi, liberi movimenti di capitali, e politiche monetarie indipendenti. Ciò significa che quando le valute sono a cambio fisso e i capitali possono muoversi liberamente, i paesi devono rinunciare alla libertà di condurre delle politiche monetarie proprie. Ma Bordo e James fanno osservare che i paesi sotto regimi come l’euro o il gold standard non solo sacrificano la possibilità di stabilire i tassi d’interesse, ma stanno anche rinunciando alla stabilità finanziaria e addirittura mettendo a rischio la democrazia.

Cominciamo con l’indipendenza monetaria. Gettando via la chiave del tasso di cambio, i paesi sono costretti a modificare prezzi interni e salari quando questi si trovano disallineati. Nel suo momento di massimo splendore prima della prima guerra mondiale, il gold standard funzionava bene. Esso generava pressioni sia sui paesi in surplus che su quelli in deficit quando questi rispettivamente guadagnavano o perdevano competitività. I paesi in surplus acquistavano oro, aumentando l’offerta di moneta, rialzando i prezzi e rendendosi così meno competitivi. I paesi in deficit perdevano oro, il che causava una restrizione dell’offerta di moneta, spingeva in giù i prezzi e dava loro un vantaggio rispetto ai concorrenti.

Sfortunatamente l’euro ricorda molto la versione difettosa del gold standard che ci fu tra le due guerre mondiali, anziché quella classica del periodo ante-guerra. Quando il gold standard fu reintrodotto negli anni ’20, le banche centrali dei paesi in surplus come la Francia (che lo aveva reintrodotto ad un tasso di cambio sottovalutato) sterilizzarono gli effetti dell’afflusso di oro in modo da non far aumentare i prezzi. Questo scaricava tutta la pressione dell’aggiustamento sui paesi come la Gran Bretagna, che aveva reintrodotto il gold standard nel 1925 ad un tasso di cambio sopravvalutato. Un duro processo deflazionistico di questo genere è oggi in corso nei paesi dell’Euro-periferia come la Grecia. I loro aggiustamenti sarebbero molto meno draconiani se i paesi dell’Euro-core fossero disposti a tollerare un livello d’inflazione considerevolmente più alto di quello medio dell’Eurozona. Ma la Germania si oppone ferocemente.

Il secondo trilemma descritto dagli autori è l’incompatibilità dei tassi di cambio fissi e della mobilità dei capitali con la stabilità finanziaria. Quando i paesi entrarono nel gold standard, esso conferì loro un “sigillo di garanzia” che incoraggiò grandi afflussi di capitali esteri. Ciò gonfiò il credito, portando a un’espansione delle banche nazionali che spesso andavano a finire male. Sotto il gold standard, un paese forte poteva sostenere investitori e banche vacillanti; nella Russia ante-guerra, ad esempio, la banca centrale era chiamata la “Croce Rossa della borsa”. Ma un paese debole poteva facilmente perdere la fiducia degli investitori, come avvenne all’Argentina nella sua crisi bancaria e di debito del 1890. La stessa vicenda si è ripetuta durante la breve storia dell’euro. I soldi sono affluiti a cascata verso l’Euro-periferia, provocando un boom del credito bancario e bolle immobiliari. Nel disastro che ne è seguito, il compito di ricapitalizzare le banche ha provocato il tracollo dello Stato sia in Spagna che in Irlanda.

Il terzo trilemma è il più inquietante: la potenziale incompatibilità dei tassi di cambio fissi e dei liberi movimenti di capitale con la democrazia. La Germania riuscì a rientrare nel gold standard dopo la prima guerra mondiale grazie al rafforzamento della fiducia favorito dal Piano Dawes del 1924, che riguardava i risarcimenti di guerra. Ma la dura medicina fiscale somministrata durante la Grande Depressione nello sforzo di rimanere dentro il gold standard, contribuì all’ascesa del Nazismo. La Gran Bretagna abbandonò l’aggancio all’oro nel 1931, prefigurando la fine del gold standard, poiché l’austerità che esso richiedeva era diventata insostenibile.

Il popolo e i popoli.

La possibilità di una simile reazione negativa alle pretese economiche e fiscali dell’Unione Monetaria Europea è evidente. Sebbene i paesi del sud Europa vogliano ancora restare nell’euro, non da ultimo perché il costo di un’uscita sarebbe più duro di quello dell’abbandono del gold standard, vi è un crescente disincanto. A febbraio gli elettori italiani hanno detto “basta” all’austerità. Il governo portoghese si sta logorando di fronte all’ostilità popolare contro gli aumenti delle tasse e i tagli della spesa. Ed anche i nord-europei sono scontenti. L’opposizione popolare all’idea di pagare per i salvataggi dell’Eurozona impedisce ad Angela Merkel, la cancelliera tedesca, di dire chiaramente quali sacrifici dovranno essere fatti dagli elettori per mantenere l’euro.

Nulla di tutto ciò implica che un’esplosione sia imminente. Le tensioni politiche possono continuare ancora a lungo prima di esplodere. La recessione dell’Eurozona dovrà pur finire prima o poi. I progressi verso le riforme istituzionali potrebbero accelerare dopo le elezioni tedesche in settembre. Ma se la sostenibilità a lungo termine della moneta unica venisse assicurata, gli Europei sarebbero davvero in controtendenza rispetto alla Storia.

* “The European Crisis in the Context of the History of Previous Financial Crises” [“La Crisi Europea nel Contesto della Storia delle Precedenti Crisi Finanziarie”], NBER Working Paper 19112, Giugno 2013

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