martedì 16 luglio 2013

Chi è nell’euro perde lavoro. Volete la prova? Eccola…


La fonte è a prova di smentita: trattasi dell’Organizzazione internazionale del Lavoro. Il dato inequivocabile, poiché statistico.

Secondo le cifre diffuse alcuni giorni fa e di cui ben pochi hanno parlato in Europa, i 19 Paesi dove l’occupazione è tornata sopra i livelli prima della crisi dei mutui subprime del 2008 sono:
Argentina, Turchia, Ungheria, Repubblica Dominicana, Malta, Romania, Armenia, Brasile, Cile, Lussemburgo, Germania, Colombia, Israele, Uruguay, Perù, Russia, Svizzera, Kazakistan, Thailandia.

I Paesi che l’Organizzazione internazionale del lavoro considera in continuo declino sono:
Giordania, Croazia, Grecia, Spagna, Italia, Marocco, Sri Lanka, Belgio, Portogallo,Slovacchia, Francia, Irlanda, Slovenia, Giamaica, Finlandia, Cipro, Giappone, Danimarca, Olanda, Australia, Nuova Zelanda, Norvegia.

Poi c’è l’Austria che rientra nella categoria dei Paesi in miglioramento ma sotto i livelli pre-crisi.

Dunque: solo 3 Paesi della zona euro stanno veramente bene, ma di questi tre due (Lussemburgo e Malta) sono così piccoli e operano in condizioni talmente particolari da non fare quasi testo. Ne resta uno solo: la Germania.

Tutti gli altri, dall’Italia alle new entry Slovacchia e Slovenia, stanno molto peggio e tutte, tranne forse l’Austria, sono in declino strutturale. Ovvero l’entrata della moneta unica non ha portato i giovamenti a lungo sbandierati e a cui pochi credono ancora. S’incrina un altro teorema consolatorio, quello secondo cui lo scudo dell’euro consente ai singoli Paesi di resistere meglio alle crisi.

E’ vero il contrario: chi adotta l’euro rende anelastica la propria economia e dunque alla fine paga un prezzo molto elevato in termini di crescita e di occupazione. Detto in modo meno elegante e più diretto: quei Paesi diventano più poveri e vedono svanire le prospettive di crescita.

Insomma, a meno di essere tedeschi, non è proprio un affare. E, ne converrete, non si tratta di un’opinione ma di una prova, certificata dall’Organizzazione internazionale del lavoro.


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