1) Il mercato unico europeo non è nato per favorire la cooperazione
Il documento ribadisce per ben due volte, con frasi evidenziate in neretto, che il Trattato di Lisbona disegna un'economia di mercato “altamente e fortemente competitiva”, in cui i singoli Stati sono chiamati a “promuovere il proprio posizionamento” cercando di “migliorare la propria situazione comparata” (ovviamente a scapito degli altri). Interessante, non vi pare? Quando mai agli italiani è stato detto con chiarezza che i trattati europei non costituiscono affatto la base di forme di collaborazione fra gli Stati, e che quella che chiamano “Unione” in realtà non è altro che un teatro di guerra economica dove ciascuno deve lottare all'ultimo sangue contro tutti gli altri?
A tutto ciò va aggiunto che noi, in quanto appartenenti all'eurozona, possiamo contare su meno armi di altri, avendo rinunciato allo strumento della flessibilità del cambio. Apriranno finalmente gli occhi quelli che pensavano che l'appartenenza al mercato unico europeo fosse, o potesse diventare, fonte di cooperazione fra le nazioni?
2) Per essere salvati dovremo cedere sovranità
Nel paragrafo “La tabella di marcia per l’integrazione economica e democratica” (che guarda caso, a discapito del titolo, non dice assolutamente nulla sulla democrazia), si ribadisce ciò che tutti i documenti ufficiali riportano, cioè che l'accesso ai fondi cosiddetti “salva-Stati” sarà possibile solo: “per quei Paesi della zona euro che sono in regola con le condizioni poste nel quadro del semestre europeo e del Patto di stabilità e crescita”, cioè solo per chi seguirà alla lettera e senza discussione i diktat della Commissione e della BCE.
Del resto, già nel Giugno scorso, i capi di Stato avevano firmato un accordo pubblico nel quale veniva scritto, nero su bianco, che i fondi sarebbero stati utilizzati al fine di "stabilizzare i mercati per gli Stati membri che rispettino le raccomandazioni specifiche per paese e gli altri impegni, tra cui i rispettivi calendari, nell'ambito del semestre europeo, del patto di stabilità e crescita e delle procedure per gli squilibri eccessivi. Tali condizioni dovranno figurare in un memorandum d'intesa.”. Ovviamente da nessuna parte si fa menzione del fatto che quei fondi non vengono dalla Luna. Sono nostri, cioè li abbiamo versati noi agli organismi europei.
3) Monti è qui per “svendere” il tessuto industriale italiano all'estero.
Questo è un tema di grande importanza, i cui risvolti probabilmente ancora sfuggono a buona parte dell'opinione pubblica italiana. Il documento di Palazzo Chigi sottolinea con enfasi il grande sforzo messo in campo dal premier per convincere potenziali investitori stranieri ad acquistare titoli ed aziende italiane. Pochi giorni fa, in Kuwait, Monti si è rivolto ad una platea di sceicchi dichiarando che: “i titoli a reddito fisso e le valutazione delle imprese in Italia sono bassi. E’ il momento di comprare a buon mercato perché si rivaluteranno”. Si potrebbe pensare che questa non sia una strategia sbagliata: siamo in crisi, quindi perché non importare capitali dall'esterno per favorire la ripresa economica?
Purtroppo questa logica è sensata solo all’apparenza, perché nelle nostre attuali condizioni affidarsi all'importazione di capitali esteri è del tutto controproducente. Innanzitutto perché il primo modo con cui Monti ha reso “appetibili” le aziende italiane è stato quello di attaccare i diritti dei lavoratori: ecco spiegato l'accanimento contro l'articolo 18, anche se è noto che per la maggioranza degli imprenditori italiani lo statuto dei lavoratori non è un problema. Naturalmente tutto ciò determina il depauperamento delle condizioni di vita dei lavoratori italiani, che vedono disperdersi diritti e salario, con ovvi effetti recessivi. Altro che uscita dalla crisi!
Ma c'è di peggio. Abbiamo visto che Monti cerca di convincere i potenziali acquirenti esteri fornendo loro la prospettiva di una rivalutazione a breve-medio termine del capitale impiegato in Italia. Immaginiamo che gli sceicchi seguano il suo consiglio e acquistino titoli e imprese italiane. L'afflusso di capitali, probabilmente, determinerebbe nell'immediato alcuni effetti positivi (aumento dell'occupazione, segnali di ripresa economica e così via). Difficilmente però questo consoliderebbe l'economia del Paese, sia perché buona parte dei profitti se ne tornerebbe a casa degli sceicchi, sia soprattutto perché nel frattempo le criticità strutturali dell'eurozona non sarebbero state risolte. Non essendo state rimosse le cause scatenanti della crisi, sugli asset italiani continuerebbe a gravare una forte incertezza che determinerebbe la minaccia continua di perdita di valore. A un certo punto, visto che l'attesa (e promessa) rivalutazione tarderebbe a concretizzarsi, e vista l’incertezza, gli investitori prenderebbero a vendere tutto quello che avevano comprato. Le vendite determinerebbero un'accelerazione della tanto temuta svalutazione e si scatenerebbe un effetto a catena: per contenere i danni, sempre più capitali prenderebbero il volo, scatenando il caos.
E' uno scenario da incubo, ma non è ipotetico: è esattamente quello che è sempre successo ai paesi che hanno agganciato il valore del cambio della loro moneta ad una valuta più forte e poi hanno cercato di attrarre investimenti esteri: si chiama “ciclo di Frenkel”, poiché prende il nome dallo studioso che lo ha efficacemente descritto.
Ecco dunque la destinazione finale verso cui ci porta la strada descritta negli “appunti di viaggio” del governo Monti: il baratro.
di Fabrizio Tringali
Fonte: byoblu
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