Il leader della Linke tedesca Oscar Lafontaine ha dichiarato recentemente che è necessario abbandonare l'euro, tornare in maniera ordinata alle monete nazionali e realizzare un sistema flessibile e concordato di cambi in Europa. È una via percorribile? Perché questo dibattito è completamente assente in Italia?
L'Europa vive una crisi drammatica sia sul piano economico che politico e va incontro a una frattura storica: l'euro però non fa parte della soluzione ma del problema. L'euro sta spaccando l'Europa e occorre trovare rapidamente una soluzione alla crisi dell'euro per tentare di ricostruire la cooperazione europea. La critica radicale proviene niente di meno che da Oskar Lafontaine, il dirigente socialista tedesco che, come ministro delle finanze e presidente della SPD, negli anni '90 ha dato un contributo sostanziale alla nascita dell'euro, e che però nel 2005, in rotta con la SPD, ha lasciato il partito socialista di Gerhard Schröder per fondare la Linke, la formazione politica della sinistra alternativa. Nel suo blog Lafontaine ha scritto recentemente che è necessario abbandonare l'euro, tornare in maniera ordinata alle monete nazionali e realizzare un sistema flessibile e concordato di cambi in Europa. Lafontaine vorrebbe che i paesi più deboli possano svalutare per riguadagnare competitività di fronte alla potenza dominante tedesca, e tornare a crescere. Una soluzione semplice ma originale, finora non prevista né dalla Linke né da Syriza, il partito della sinistra radicale greca.
Ma la soluzione proposta da Lafontaine è valida e praticabile? Per tentare di rispondere occorre partire da una constatazione. L'euro si è rivelato il fattore più problematico e negativo per l'Europa unita. Ormai è chiaro che, come hanno deciso per esempio la Svezia e la Danimarca e la Gran Bretagna, i paesi dell'eurozona e l'Italia avrebbero fatto meglio a non rinunciare alla sovranità monetaria per darla in mano alla Germania e, attualmente, al governo della Merkel.
La realtà è che i paesi europei fuori dall'euro continuano a crescere mentre l'eurozona è in crisi; e che la crisi economica può comportare, come vediamo in Italia, la rinascita dei nazionalismi, la crisi delle democrazie, e il rinvigorimento dei tentativi autoritari. Anche per Amartya Sen, premio Nobel dell'economia, l'euro sta rovinando l'Europa: “Sono stato contrario all’euro per motivi di tempistica. L’unione monetaria avrebbe dovuto essere adottata dopo l’unione fiscale e politica e non prima di questa. Saltando lo scalino, invece, gli stati ancora “nazionali” hanno perso il controllo sulla propria politica monetaria”.
Occorre che la politica italiana discuta apertamente e senza pregiudizi ideologici o politici su come uscire da questa camicia di forza prima che la rottura dell'euro porti alla rotta dell'Europa. Nessuno ha in tasca la soluzione perfetta: ritornare alla lira o al marco, come propone lo statista tedesco, potrebbe non essere facile o possibile (e per alcuni neppure desiderabile). Ma la via d'uscita indicata qualche giorno fa dal presidente francese Francois Hollande, cioè di accelerare i tempi di un accordo politico per il governo europeo dell'economia, pur essendo positiva, appare meno concreta, richiede molto tempo, e comunque non è in contraddizione con la proposta di Lafontaine. E' necessario allora che si elaborino delle alternative senza scartare nessuna ipotesi prima che l'euro fallisca e ci trascini alla rovina completa, come ci preannunciano non solo Lafontaine, ma il Financial Times, il Wall Street Journal e personaggi eccellenti come Joseph Stiglitz, Paul Krugman e George Soros.
Occorre una svolta, anche culturale: infatti sembra che in Italia anche gli economisti di sinistra apparentemente più “sbilanciati” contro le politiche economiche del governo si illudano di potere ottenere miglioramenti graduali all'interno di questa architettura dell'euro che invece garantisce la supremazia tedesca, schiaccia il lavoro, aumenta la disoccupazione e rovina le aziende. Il continuismo non funziona, e di fronte alla dura realtà dei fatti occorre approfondire soluzioni non conformiste ma nuove e originali, e occorrono delle svolte.
L'euro e la debolezza delle classi dirigenti italiane
L'euro è nato per indebolire il marco tedesco e per imbrigliare la potenza della Germania riunificata nell'economia europea. Ma l'euro è nato anche a immagine e somiglianza del marco tedesco, con i criteri dettati fin dall'inizio dalla Bundesbank. Mal concepito, sta sortendo l'effetto esattamente opposto a quello previsto: deprime l'economia europea e la sottomette alla Germania.
La classe dirigente italiana negli anni '90 abbracciò il mito dell'euro per sfiducia nella propria autonoma capacità di governare l'economia: sperava – a differenza di quanto hanno fatto per esempio i governanti della Svezia, della Danimarca e della Gran Bretagna – che la disciplina tedesca ed europea la avrebbe aiutata a internazionalizzare l'economia nazionale, domare l'inflazione, ammorbidire i sindacati, deregolamentare il mercato del lavoro e coprire i debiti con una moneta più forte della lira. La sinistra italiana si è accodata alla scelta dell'euro in maniera entusiasta – contrariamente a quanto fece il vecchio (ma più critico) PCI verso lo SME – per legittimarsi presso le classi dirigenti e perché si illudeva che l'euro si identificasse con il nobile progetto di integrazione europea. Con l'euro le classi dirigenti sono riuscite a prostrare il lavoro ma la moneta unica ha aumentato il deficit commerciale e il debito nazionale. E l'Europa è sempre più dilaniata da una spaccatura crescente tra i paesi creditori del nord, Germania in testa, e i “cattivi” PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). Oggi l'unione sociale, culturale e politica europea è in grave crisi proprio a causa dell'euro. La Gran Bretagna vorrebbe lasciare il continente alla deriva, e soprattutto si aprono contrasti crescenti tra la Francia e la Germania, i due pilastri dell'Europa. La crisi dell'eurozona rischia addirittura di fare deragliare l'economia globale.
L'euro è nato male
Ormai la scienza economica è in grado di spiegare chiaramente perché l'euro è nato male. Infatti l'Europa non è, secondo il premio Nobel Robert Mundell, un'area valutaria ottimale, cioè non è un'area in cui sia possibile introdurre una valuta unica valida per tutti i paesi, a differenza degli Stati Uniti. Le condizioni che rendono sostenibile l’adozione di una moneta unica sono, come noto, quattro: flessibilità di prezzi e salari, mobilità dei fattori di produzione, integrazione delle politiche fiscali e convergenza dei tassi di inflazione. Questi fattori mancano attualmente, in tutto o in parte, nell'eurozona. Non c'è un unico mercato del lavoro, i prezzi divergono e le fiscalità sono differenti. Se l'Europa non è attualmente un'area valutaria ottimale, allora la scienza economica indica che un sistema di cambi flessibili è meglio della moneta unica: il bilancio della UE è molto limitato, non è solidale, non copre i deficit dei singoli paesi, non c'è un Tesoro europeo che emetta eurobond, non c'è una banca centrale che in ultima istanza copra i debiti europei, ecc, ecc.
Nonostante l'Europa non sia un'area valutaria ottimale, e che la moneta unica costituisca il classico carro davanti ai buoi rispetto alle prospettive di unione politica e sociale dell'Europa, si potrebbe in teoria tentare di riformare l'eurozona risolvendo i suoi problemi istituzionali, cioè aumentando il budget europeo, rendendolo fiscalmente solidale, emettendo eurobond, dando alla BCE la possibilità di comprarli, creando anche un po' di inflazione per lo sviluppo, realizzando politiche industriali ed infrastrutturali comuni, ecc, ecc. Ma questo percorso, per quanto ideale, appare purtroppo illusorio sul piano politico. E' molto difficile che Germania, Olanda e Finlandia siano disposte a finanziare il bilancio dell'Unione Europea perché la UE possa a sua volta finanziare automaticamente i paesi più deboli in crisi, come accade negli USA. O siano disposte a emettere eurobond e a fare diventare la BCE una vera banca centrale, come la FED americana! Allo stato attuale neppure i più ingenui sognatori lo potrebbero immaginare! Ci vorrebbe una forte scossa politica, e la minaccia concreta di uscire dall'euro!
Le politiche pro-business e contro il lavoro del socialista Schröder
Lafontaine ha indicato il nocciolo del problema: la riduzione del costo del lavoro e il divario di competitività. Per vincere la concorrenza nell'eurozona, il governo rosso-verde del socialista Gerhard Schröder nei primi anni 2000 ha (contro)riformato il sistema tedesco in grave difficoltà competitiva svalutando il lavoro a favore del capitale: la Germania era infatti allora, secondo l'Economist, il “malato d'Europa” e non godeva di grandi surplus nella bilancia commerciale. Il governo socialista tedesco fece quello che neppure il governo laburista di Tony Blair osò realizzare. Schröder cominciò a diminuire drasticamente le tasse alle imprese. Inoltre, sfruttando gli alti livelli di disoccupazione (8% -10%), la minaccia di licenziamenti e di delocalizzazione, il governo socialista-verde, nonostante la (troppo debole e collusa) opposizione del sindacato socialista, sviluppò una politica di svilimento dei contratti nazionali, di liberalizzazione e aziendalizzazione dei contratti di lavoro, e di riduzione delle tutele sindacali: dal 2003 al 2009 i salari reali dei lavoratori tedeschi sono scesi in media del 6%, mentre sono rimasti fermi o sono aumentati in tutti i paesi del sud Europa.
Il punto di svolta è stata la legge Hartz del 2003 che ha deregolamentato il mercato del lavoro, inaugurato il lavoro precario e ridotto i sussidi di disoccupazione e le pensioni. Negli ultimi anni è cresciuto decisamente il divario tra i lavoratori più qualificati e quelli meno qualificati: oggi circa 8 milioni di lavoratori in Germania guadagnano circa 9 euro all’ora, mentre altri 1,4 milioni di lavoratori, con i cosiddetti mini-job, addirittura meno di 5 euro all’ora.
Schröder nel 2005 ha perso le elezioni, anche a causa di un clamoroso scandalo provocato dal suo compagno Peter Hartz, ma ha reso competitiva la Germania verso i “partner” europei. Grazie soprattutto al dumping sul costo del lavoro denunciato da Lafontaine, la Germania ha vinto i suoi concorrenti dell'eurozona che non possono più svalutare la moneta e che devono allora anch'essi svalutare il lavoro, come fece Hartz nel 2005. Il governo rosso-verde ha segnato la rotta. La UE, la BCE, il FMI spingono all'unisono per (contro)riforme del mercato del lavoro alla maniera tedesca: e in Italia i governi cercano di forzare in questa direzione. E purtroppo ci stanno riuscendo.
L'austerità rovina i paesi del sud e arricchisce quelli del nord
In questo contesto, l'unione monetaria tra paesi forti e deboli comporta sistematicamente il dominio crescente di quelli più forti e competitivi (in particolare della Germania) sui più deboli: i primi hanno surplus commerciali, e quindi riserve da prestare ai paesi che comprano i loro prodotti; i secondi invece accumulano deficit commerciali e debiti per coprirli. E' il crescente surplus commerciale della Germania, e sono i corrispondenti deficit commerciali degli altri paesi europei, a creare la crisi dell'euro, e non solo, e non tanto, i debiti pubblici, come invece sostengono le classi dominanti per attaccare il welfare, i diritti sociali, e privatizzare i beni comuni. Germania, Belgio, Malta, Olanda, Finlandia, Lussemburgo sono i paesi dell'euro con una posizione patrimoniale netta internazionale positiva. Tutti gli altri paesi dell'eurozona hanno una posizione debitoria (l'Italia ha una posizione finanziaria netta negativa pari a circa 350 miliardi, il 20% del suo PIL).
Senza valuta sovrana, gli stati in deficit possono solo dissanguarsi per onorare i debiti e/o andare in fallimento. E gli stati e le industrie del nord Europa guadagnano notevolmente da questa situazione di crisi, grazie alla debolezza commerciale dei loro concorrenti e alla massiccia fuga dei capitali a loro favore. L'abbondanza di capitali permette loro di sviluppare l'economia e coprire a costi bassi o addirittura negativi i debiti pubblici e privati.
Il governo Letta cerca di trovare dei margini per sviluppare l'economia e aumentare l'occupazione rispettando i vincoli di Maastricht sul deficit pubblico, ma come avverte Wolfgang Münchau del Financial Times, “la fine dell’austerità è solo una chiacchiera”. L'impresa di Letta è come il lavoro di Sisifo: non può portare ad alcun risultato positivo duraturo per l'occupazione e l'economia.
Con il fiscal compact la situazione è purtroppo destinata a peggiorare drammaticamente. Il fiscal compact – votato dal governo Monti e dai partiti di Berlusconi, Bersani e Casini – impone all'Italia di tagliare ogni anno per venti anni 45 miliardi circa di spesa pubblica (cioè pensioni, scuola, sanità, enti locali, ecc) che vanno ad aggiungersi ai circa 80 miliardi da pagare all'anno per gli interessi. Come ha spiegato Luciano Gallino, per rispettarlo dovremmo fare manovre pari a oltre 100 miliardi di euro all'anno per 20 anni.
Con il fiscal compact ogni politica di crescita è puramente illusoria, e senza crescita non potremo ripagare i debiti e ci dissangueremo.
Che fare?
Come uscire dalla trappola di un euro sopravvalutato che assomiglia sempre di più al marco tedesco? Il dibattito è economico e politico a un tempo, cioè di economia politica. La politica italiana, è quasi assente da questo dibattito, abbagliata dall'ideale dell'Europa e talvolta aggrappata a posizioni governative. La politica fa spesso come le tre scimmiette che non sentono, non vedono e non parlano. Lafontaine invece ha indicato con coraggio la necessità di uscire dalla trappola dell'euro ritornando alle valute nazionali e ad un sistema di cambi flessibili prima della rovina totale. In questo modo i paesi potrebbero svalutare le monete (e non il lavoro) e ritrovare la loro competitività e riaggiustare le loro bilance commerciali.
In una prima fase sarebbe anche necessario il controllo dei movimenti di capitale. E' un'ipotesi drastica ma da esaminare con attenzione e da attuare, se le alternative, come sembra, diventeranno difficilmente praticabili. Certamente un ritorno ordinato alle valute nazionali e la realizzazione di un sistema concordato e flessibile di cambi nell'area europea costituirebbe una soluzione positiva. Tuttavia difficilmente la Germania e gli altri paesi del nord potrebbero concretizzare questa opzione e rinunciare al privilegio dell'euro, a meno di una brusca rovina del sistema che li dovesse mettere con le spalle al muro. Potrebbero ricorrere allo scioglimento dell'euro solo se vedessero che i paesi subordinati dell'eurozona non sono più in grado di ripagare i debiti.
Quali sono le possibili alternative, non necessariamente in contraddizione con il progetto di Lafontaine? Innanzitutto occorrerebbe che il governo Letta-Berlusconi non si inginocchiasse di fronte alla Merkel. Sarebbe necessario dare una sorta di ultimatum al governo tedesco: se la sua politica riguardo alla BCE e agli eurobond non cambierà, saremo costretti a uscire dall'euro, svalutare e ristrutturare i debiti.
Se l'Italia uscisse dall'euro tutto il sistema crollerebbe, e questo la Germania non se lo può assolutamente permettere.
Il governo italiano dovrebbe attivarsi per formare un fronte con i paesi del sud Europa, e possibilmente anche con la Francia di Hollande sempre più indebitata, per abrogare senz'altro il fiscal compact e rilanciare un new deal europeo anche grazie a massicci investimenti pubblici.
Un fatto è certo: l'euro così come è non può durare. Non possiamo dissanguarci per i prossimi venti anni. Se, come appare possibile, la Germania e i paesi del nord non dovessero cedere alle proposte per uscire dal tunnel dell'austerità a senso unico, allora l'ipotesi di Lafontaine diventerà inevitabile. O, peggio ancora! saremo costretti a fallire e a uscire unilateralmente dall'euro.
Fonte: Tratto da un intervista di Enrico Gazzini
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