Per questo post tecnico ma chiarissimo volevamo ringraziare il blog Tempesta perfetta che come sempre fornisce ottimi articoli per capire la situazione economica Europea e globale ed i reali motivi della crisi che ci attanaglia. Buona lettura.
Molte persone sono ancora ferme a considerare lasovranità monetaria come un semplice concetto economico-finanziario, da cui dipendono alcune scelte di politica monetaria e poco altro: secondo questo approccio generalista, la sovranità monetaria consentirebbe ai governi di "stampare" moneta creando inflazione, mentre la mancanza di sovranità monetaria premierebbe la cultura della stabilità sia fiscale che finanziaria e favorirebbe l’indipendenza delle banche centrali dai governi. Non è affatto così. La sovranità monetaria, oggi come oggi, è un vero spartiacque giuridico-istituzionale fra gli stati che possono ancora ambire ad essere democratici e quelli che ormai hanno deciso di calpestare le costituzioni nazionali in nome di non meglio precisati interessi privati e di casta. Continuare a presentare la sovranità monetaria come un principio retrogrado e nazionalista, superato ormai da più moderni ed efficienti meccanismi di gestione dei flussi finanziari, fa parte di un preciso disegno dei regimi oligarchici, che hanno interesse da una parte a separare i governi dalla loro naturale funzione monetaria e dall’altra a controllare i maggiori organi di informazione affinchè l’opinione pubblica venga sempre di più allontanata dalla verità dei fatti. La democrazia dai suoi doveri egualitari e redistributivi. I cittadini e i lavoratori dai loro diritti umani e sociali acquisiti nei secoli.
Non è un caso che all’interno del pastrocchio istituzionale dell’eurozona, dove la sovranità monetaria dei singoli stati membri è stata messa al bando per favorire la nascita del comitato d’affari facente capo alla banca centrale autonoma e indipendente BCE, continuano a susseguirsi infrazioni su infrazioni delle consolidate norme costituzionali che da un centinaio di anni almeno tutelano la dignità dei cittadini in Europa. A settembre scorso siamo rimasti con il fiato sospeso in attesa che la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe si pronunciasse sulla legittimità del Meccanismo Europeo di Stabilità, mentre
in questi giorni è stata la Corte Costituzionale del Portogallo a contestare alcune delle misure del piano di austerità del governo perché ampiamente discriminatorie nei confronti di certi cittadini (in particolare ci riferiamo ai lavoratori, pubblici e privati, e ai pensionati) a favore di altri (i maggiori beneficiari del comitato d’affari di Bruxelles: grandi imprenditori, politici, banchieri, rentiers). A ottobre prossimo toccherà invece di nuovo alla Corte Costituzionale tedesca emettere il verdetto di condanna o assoluzione sulle nuove iniziative di acquisto illimitato di titoli intraprese (almeno a parole) dalla BCE. Nessuna notizia perviene invece dalla Corte Costituzionale italiana, che si accapiglia sui cavilli più insignificanti dei decreti legislativi del governo e del parlamento ma non ha mai visto tutto ciò che è stato fatto alla nostra tanto osannata carta costituzionale negli ultimi trent’anni, con l’adesione agli scellerati accordi monetari europei. Da che mondo è mondo, spostare una trave è sempre stato molto più complesso e faticoso che giochicchiare con una pagliuzza. Soprattutto se quella trave è stata messa lì con la compiacenza e il tacito assenso di chi dovrebbe essere incaricato a spostarla.
in questi giorni è stata la Corte Costituzionale del Portogallo a contestare alcune delle misure del piano di austerità del governo perché ampiamente discriminatorie nei confronti di certi cittadini (in particolare ci riferiamo ai lavoratori, pubblici e privati, e ai pensionati) a favore di altri (i maggiori beneficiari del comitato d’affari di Bruxelles: grandi imprenditori, politici, banchieri, rentiers). A ottobre prossimo toccherà invece di nuovo alla Corte Costituzionale tedesca emettere il verdetto di condanna o assoluzione sulle nuove iniziative di acquisto illimitato di titoli intraprese (almeno a parole) dalla BCE. Nessuna notizia perviene invece dalla Corte Costituzionale italiana, che si accapiglia sui cavilli più insignificanti dei decreti legislativi del governo e del parlamento ma non ha mai visto tutto ciò che è stato fatto alla nostra tanto osannata carta costituzionale negli ultimi trent’anni, con l’adesione agli scellerati accordi monetari europei. Da che mondo è mondo, spostare una trave è sempre stato molto più complesso e faticoso che giochicchiare con una pagliuzza. Soprattutto se quella trave è stata messa lì con la compiacenza e il tacito assenso di chi dovrebbe essere incaricato a spostarla.
Ma siccome noi siamo diffidenti per natura e non ci fidiamo di quei personaggi oscuri, notoriamente complottisti e sovversivi, nascosti sotto la toga di giudici e magistrati che vivono asserragliati nelle alte corti di Germania e Portogallo, abbiamo bisogno di toccare con mano, con i dati, con i fatti, quali siano effettivamente le differenze fra un paese che mantiene ancora intatta la propria sovranità monetaria e un altro che invece ha deciso di calpestarla, in nome della pace e del progresso del mondo (con particolare riguardo del proprio conto in banca). Sul sito Economonitor, l’economista americano Ed Dolan si è sbizzarrito a confrontare l’andamento di alcuni indici di prestazione di due paesi agli antipodi in tutti i sensi, come Stati Uniti e Grecia, per capire in quale maniera i rispettivi sistemi economici e finanziari hanno reagito alla crisi, prefigurando dei possibili scenari futuri. Anche perchè alcune bizzarre analisi economiche, condizionate da precise influenze politiche ed ideologiche, associano spesso il comportamento degli Stati Uniti a quello della Grecia, paventando ai primi il medesimo destino dei secondi. Alla fine scopriremo invece che le scelte di entrambi governi in materia di politica economica sono state pessime, ma un paese, gli Stati Uniti, riuscirà a salvarsi e ad uscire dalla crisi per il solo fatto di avere mantenuto la propria sovranità monetaria, mentre l’altro, la Grecia, continuerà ad essere annientato e distrutto fino a quando i tedeschi non decideranno di consentirgli di uscire dall’eurozona e di tornare alla propria moneta sovrana nazionale, la dracma. E tirando le somme, possiamo anche affermare che gli Stati Uniti avrebbero tutte le potenzialità e le leve fiscali per essere un normale paese democratico ma a causa delle solite resistenze delle classi egemoni e dominanti preferiscono non esserlo fino in fondo; mentre al contrario, la Grecia non può più garantire ai propri cittadini nessuno dei diritti costituzionali e sta sprofondando nel limbo degli stati non stati che non hanno più una loro identità e autonomia, ma sono eterodiretti dall’esterno e da organismi sovranazionali. Unacolonia insomma, buona solo per essere sfruttata e depredata.
Il fatto più curioso è che se ci limitassimo ad osservare l’andamento del solo deficit pubblico rapportato al PIL nazionale degli ultimi venti anni (guarda grafico sotto), noteremmo una notevole similitudine fra ciò che è avvenuto negli Stati Uniti e in Grecia. In effetti, la squilibrio nei conti pubblici greci registrato nel 2009 è stato molto più profondo di quello americano, ma la circostanza che ha cambiato drasticamente le sorti di entrambi i paesi è come sono stati utilizzati questi ampi deficit governativi e ciò che hanno messo concretamente in moto. Mentre in Grecia siamo ancora in piena depressione economica, con vertiginosi crolli del reddito nazionale e una disoccupazione da paese del terzo mondo, negli Stati Uniti si registrano i primi timidi segnali di inversione del ciclo e una più sostenuta ripresa degli investimenti e dell’occupazione. In pratica, se guardiamo soltanto i dati cumulati, vediamo che sia il debito pubblico della Grecia che quello degli Stati Uniti è quasi raddoppiato dal 2002 ad oggi (dal 101% al 181% il primo, dal 57% al 107% il secondo), ma mentre il debito greco è servito a rimborsare oneri finanziari crescenti, per lo più dovuti alla dinamica inarrestabile degli interessi da corrispondere ad investitori esteri, quello americano è andato in parte a finanziare le imprese nazionali, la ricerca, lo stato sociale, creando i presupposti sia per un rilancio della domanda interna che delle esportazioni. Una differenza dovuta appunto al fatto che gli Stati Uniti hanno una propria moneta sovrana, il dollaro, di cui hanno un pieno controllo riguardo alle scelte di politica monetaria e fiscale, mentre dal 2002 ad oggi, dal momento dell’ingresso nella zona euro, la Grecia non ha potuto fare alcuna scelta né nell’uno né nell’altro senso, avendo deciso di adottare una moneta straniera come l’euro e di attenersi ai vincoli di bilancio imposti da Bruxelles.
Fra l’altro, la sovranità monetaria degli Stati Uniti ha consentito al governo e alla banca centrale di modulare il tasso di cambio del dollaro rispetto alle altre valute internazionali per aumentare i margini di competitività durante il periodo di recessione e dare maggiore impulso alle esportazioni americane. Invece il tasso di cambio fisso dell’euro rispetto ai maggiori partners commerciali europei, non ha consentito alla Grecia di recuperare alcun margine di competitività e ricevere a monte benefici da una possibile svalutazione monetaria, scaricando a valle tutti i costi degli aggiustamenti e degli squilibri nei conti con l’estero sui lavoratori, sui cittadini, sui tagli alla spesa pubblica, sull’aumento delle tasse, che se da una parte hanno ridotto le importazioni, dall’altra hanno anche depresso la domanda interna e il tessuto produttivo locale. E’ vero che il valore di cambio dell’euro può oscillare rispetto a quello delle altre valute internazionali, ma è altrettanto vero che questi cambiamenti dipendono da politiche monetarie e commerciali dell’intera area euro nel suo complesso, le quali ignorano del tutto le esigenze delle economie più deboli come quella greca e favoriscono al massimo le economie dei paesi più forti come la Germania.
Per capire meglio questo meccanismo, possiamo esaminare l’andamento del tasso di cambio effettivo reale, che è una media ponderata dei tassi di cambio della valuta nazionale rapportata ai differenziali di inflazione con i maggiori partners commerciali e rappresenta un ottimo indice di competitività del paese in questione. Dopo aver raggiunto un picco nel 2009, il dollaro ha deprezzato il suo cambio reale del 12,7%, cosa che ha aumentato significativamente le esportazioni americane. Al contrario l’euro greco si è svalutato soltanto del 5%, privando la produzione interna dello slancio necessario a far uscire il paese dalla recessione. Questo diverso comportamento del cambio è associato con le diverse politiche monetarie adottate dalle banche centrali: la Federal Reserve ha imboccato una decisa strategia espansiva, fornendo soprattutto liquidità alle banche con le successive operazioni di quantitative easing, mantenendo i tassi di interesse praticamente a zero e sostenendo le manovre fiscali del governo, mentre la BCE ha continuato la sua rigida osservanza alla politica monetaria restrittiva imposta dai tedeschi, con qualche piccola deviazione necessaria riguardante le due operazioni LTRO(i cui effetti calmieranti sul mercato dei titoli di stato avranno una durata ben determinata e saranno sterilizzati a partire dal 2014, quando i prestiti alle banche arriveranno a scadenza) e l’intenzione soltanto annunciata ma mai diventata operativa di acquistare illimitatamente titoli di stato sul mercato secondario tramite l’OMT.
L’altro vantaggio di avere una propria moneta sovrana è da ricondurre al minor rischio di default percepito dai mercati, che si traduce in un più basso tasso di interesse da corrispondere ai possessori di titoli di stato. Un paese che ha una propria moneta sovrana non può mai essere costretto a dichiarare default sul rimborso delle proprie obbligazioni denominate in valuta nazionale, perché all’occorrenza può emettere tutto il denaro necessario per rispettare le varie scadenze di pagamento. I problemi possono sorgere soltanto nei casi in cui la moneta comincia a svalutarsi eccessivamente uscendo dal circuito dei mercati valutari, gli afflussi di capitali esteri si interrompono e si creano le premesse per una fiammata inflazionistica interna, mettendo il paese nelle condizioni di dichiarare default per altra via e chiedere ugualmente il supporto finanziario del FMI. Questo meccanismo è ampiamente riconosciuto dai mercati, che grazie anche al ruolo primario del dollaro come moneta di riserva internazionale, non assegnano agli Stati Uniti tale rischio, accettando tranquillamente i bassi interessi sui titoli di stato stabiliti dalla Federal Reserve. Cosa invece, che fin dall’inizio degli incerti programmi di salvataggio della trojka, i mercati non hanno riconosciuto alla Grecia, la quale ha in pratica dovuto dichiarare un default parzialesul pagamento dei propri titoli, uscendo di fatto dal mercato internazionale dei capitali per eccesso di rischio ed elevato interesse. Nel grafico seguente si può vedere la drammatica divergenza fra i tassi di interesse dei titoli di stato USA e della Grecia. Il solo pagamento degli interessi ha eroso una quota di spesa pubblica corrente pari al 5,4% del PIL greco, rispetto all’1,7% corrisposto dagli Stati Uniti. La bassa percentuale del PIL dispersa per il pagamento degli interessi e la maggiore fiducia degli investitori internazionali ha consentito agli Stati Uniti unmaggiore spazio di manovra per attuare le sue politiche fiscali.
La politica fiscale ideale di un governo, come già sappiamo, dovrebbe essere sempre anti-ciclica, nel senso che dovrebbe produrre ampi deficit governativi, tagli alle tasse e aumenti di spesa pubblica in periodo di recessione per compensare la caduta dei redditi e creare le premesse per la ripresa, mentre dovrebbe tendere ai surplus di bilancio durante i periodi di espansione e di elevata occupazione per evitare un eccessivo surriscaldamento dell’economia e impedire a monte fiammate inflazionistiche. La politica fiscale pro-ciclica fa invece esattamente il contrario, allungando i periodi di recessione e rallentando la ripresa con aumenti di tasse e tagli alla spesa pubblica, e allargando invece i deficit quando l’economia è in crescita, con conseguente riduzione degli effetti benefici delle politiche fiscali espansive quando queste diventano davvero necessarie e urgenti.
Tuttavia per stabilire se la politica fiscale di un paese è pro-ciclica o anti-ciclica abbiamo bisogno di un misuratore affidabile, che riesca ad eliminare gli effetti del ciclo economico in corso e altri fattori transitori e non strutturali. Iniziamo con la definizione del potenziale reale di crescita di un’economia, che è il livello reale di PIL che si avrebbe se l’intero sistema economico sfruttasse appieno i suoi fattori produttivi e seguisse i normali trend di crescita di lungo periodo. L’output gap è la differenza fra questo livello potenziale reale e il PIL nominale registrato effettivamente periodo per periodo. L’output gap è negativo durante i periodi di recessione, perché i fattori produttivi non sono sfruttati appieno, e positivo durante le fasi di espansione, perché in certi casi la domanda aggregata può superare l’offerta aggregata creando fenomeni inflattivi e i fattori produttivi vengono sfruttati oltre le loro normali capacità (si pensi per esempio agli straordinari richiesti ai lavoratori o al funzionamento eccessivo dei macchinari, anche durante gli orari notturni). In un’economia stabile ed efficiente è chiaro che l’output gap dovrebbe essere sempre pari a zero. In secondo luogo ricalcoliamo il bilancio pubblico scorporando gli effetti degli stabilizzatori automatici, quali le imposte sul reddito (maggiori entrate) e i sussidi di disoccupazione (maggiori uscite), che si mettono in moto spontaneamente espandendo i surplus durante i periodi di espansione e i deficit durante le recessioni. In questo modo otteniamo il saldo strutturale di bilancio, che è l’avanzo o il disavanzo fiscale che avremmo qualora l’economia avesse un output gap pari a zero. Decurtando adesso da questo primo saldo il pagamento degli interessi dal lato della spesa pubblica corrente, ricaviamo il saldo primario strutturale di bilancio. Se facciamo un’operazione in più, eliminando da questo ultimo saldo gli effetti delle misure una tantum come i ricavi derivanti da privatizzazioni e i condoni fiscali, otteniamo il saldo fiscale primario implicito (underlying primary fiscal balance).
Le variazioni del saldo primario implicito forniscono un quadro di riferimento più preciso sulle politiche fiscali adottate dal governo. Una corretta politica fiscale anti-ciclica dovrebbe spostare il saldo primario implicito verso i deficit durante le recessioni, mentre l'andamento di questa grandezza dovrebbe tendere verso i surplus quando l’economia attraversa una fase di espansione. Un’errata politica fiscale pro-ciclica agisce invece in modo opposto, perché amplifica i deficit del saldo primario implicito in periodi di espansione e tende verso i surplus durante le fasi recessive. Analizzando il grafico riportato sotto, dove vengono comparati i saldi fiscali primari impliciti di Stati Uniti e Grecia in relazione al corrispondente andamento degli output gap, si può notare che le politiche fiscali dei due paesi sono state entrambe pro-cicliche nell’ultimo decennio e in particolare nel periodo più profondo della crisi, dal 2009 in poi. I saldi primari impliciti tendono in entrambi i casi a muoversi verso i surplus quando invece dovrebbero espandere i loro deficit.
Il grafico mostra come gli Stati Uniti abbiano mantenuto un output gap positivo per più di dieci anni, dal 1997 al 2008, compreso il breve periodo di recessione del 2001. La politica fiscale è stata nel complesso pro-ciclica durante questo decennio, perchè ha cominciato con un incoraggiante avanzo primario implicito del 3% del PIL e si è conclusa con un deficit primario implicito del -1,9%. Fra i fattori che hanno contribuito a determinare questo scarto del 4,9% verso il deficit bisogna includere i ben noti tagli fiscali generalizzati, le spese militari per la difesa dell’amministrazione Bush e l'espansione della copertura sanitaria del programma Medicare. Segue un breve periodo di politica fiscale anti-ciclica dal 2008 fino al 2010, che comincia con gli sgravi fiscali di Bush nella primavera del 2008 e continua con il pacchetto di stimolo fiscale dell'amministrazione Obama, approvato dal Congresso nel febbraio 2009.
Le misure di stimolo fiscale combinate con i tagli alle tasse probabilmente hanno ridotto la gravità della recessione, ma non sono stati sufficienti a garantire una ripresa sostenuta dell’economia. Uno dei motivi che hanno causato questo recupero troppo lento e graduale è da addebitare ancora una volta all’errata politica fiscale, che è tornata di nuovo a diventare pro-ciclica nel momento in cui doveva essere espansiva. Il pacchetto di stimolo fiscale e di spesa pubblica si è concluso nel 2012 e a causa del contorto meccanismo del Fiscal Cliff, dovuto al mancato accordo del Congresso sull’approvazione del bilancio federale, porterà ad un nuovo programma recessivo di tagli e aumenti delle tasse, che avrà l’effetto negativo di ridurre sostanzialmente il disavanzo primario implicito quando l’economia nel suo complesso pare essersi stabilizzata al di sotto delle sue prestazioni potenziali, visto che l’output gap risulta ancora negativo. Si prevede che questa tendenza verso la politica di consolidamento fiscale proseguirà per tutto il 2013 e il 2014, anche se gli Stati Uniti sono ancora lontani da raggiungere un dannoso surplus di bilancio. A conti fatti, sebbene le pressioni ideologiche e politiche di certi gruppi di potere abbiano costretto il governo americano a perseguire la rigida disciplina di bilancio nel momento meno opportuno rallentando indubbiamente la ripresa, ciò non ha ancora provocato un’improvvisa battuta d'arresto dell’economia come sta avvenendo altrove, soprattutto nell’eurozona.
Se la politica fiscale degli Stati Uniti non è stata sicuramente adeguata e all’altezza, quella adottata in Grecia, sulla spinta della trojka, è stata invece un tragico disastro. L’andamento generalmente pro-ciclico della politica fiscale in Grecia era stato simile, ma ancora più pronunciato rispetto agli Stati Uniti, durante il periodo di espansione dell’economia greca, dal 2002 al 2007, con l’output gap che balza dal -1,2% al + 7,4%. Durante questa fase in cui si doveva quantomeno compensare la crescita con un restringimento della spesa pubblica, la politica fiscale è stata invece fortemente espansiva, con il deficit primario implicito che aumenta dal -0,8% al -5,8%. Durante i successivi due anni, non appena il PIL greco ha cominciato a contrarsi, il governo ha provato a contrastare questa tendenza con una politica ancora più espansiva e il deficit primario implicito è aumentato fino al -10.3% del PIL. Poi sono arrivati i piani di “salvataggio” della trojka, le misure di austerità, il rigore suicida e le cose sono andate rapidamente in rovina.
Il momento chiave dell’inizio della fine della Grecia avviene nell’ottobre del 2009, quando con l’insediamento del nuovo governo, il primo ministro neo-eletto, George Papandreou, è stato costretto ad ammettere che la Grecia aveva falsato i dati di bilancio per rientrare nei parametri imposti dall'UE, con il disavanzo stimato per il 2009 che non era affatto del -3,7% del PIL, ma del -12,5%. Sotto le forti pressioni della trojka, il governo ha intrapreso così un programma di austerità d'emergenza che ha aumentato le tasse e ridotto la spesa pubblica. Nonostante le feroci proteste di piazza, già nel 2011 il saldo primario implicito era tornato in surplus e ha inesorabilmente continuato a salire fino ad oggi, quando si prevede che raggiungerà il 6,5% del PIL entro il 2013. Non sorprende quindi che tale politica fiscale fortemente pro-ciclica e contraria alle più elementari norme di buon senso, abbia spinto l'economia reale in caduta libera, con l’output gap previsto per il 2013 al -17.5% del PIL. Praticamente un’intera economia, un intero paese è fermo, con i fattori produttivi inutilizzati, con uno spreco ingiustificato di risorse umane e finanziarie, da sacrificare inutilmente sull’altare dell’austerità. E circostanza ancora più assurda quanto prevedibile, questo scempio politico e sociale non ha portato alcun risultato sulla strada tanto invocata del consolidamento fiscale, dato che il deficit di bilancio corrente per il 2013 dovrebbe attestarsi intorno al -5,6% del PIL, a causa soprattutto degli oneri finanziari e degli interessi da corrispondere ai creditori istituzionali o privati.
In buona sostanza, se dovessimo dare un giudizio complessivo alle politiche fiscali applicate dai due paesi, nè gli Stati Uniti nè la Grecia meriterebbero la sufficienza, perchè entrambi i governi hanno condotto politiche sistematicamente pro-cicliche. Come già anticipato, avendo sia la Grecia che gli Stati Uniti mantenuto ampi deficit primari impliciti nel periodo di maggiore espansione economica durante il primo decennio del 2000, si sono trovati poi con un insufficiente spazio di manovra fiscale per condurre un’adeguata risposta anti-ciclica quando il mondo intero è precipitato nella crisi finanziaria globale. Ma la vera differenza fra Grecia e Stati Uniti, che ha determinato gli attuali esiti divergenti, è stata la mancanza di sovranità monetaria, che ha costretto il governo greco a dichiarare default parziale sul debito pubblico, a pagare interessi esorbitanti sui propri titoli di stato, a chiedere un programma di salvataggio esterno, a subire le imposizioni folli della trojka e a non potere utilizzare lo strumento della svalutazione monetaria per rilanciare la propria economia, senza scaricare tutti gli oneri di aggiustamento sulle spalle dei lavoratori e dei cittadini. Facendo leva proprio su questo strumento giuridico-istituzionale prima ancora che economico-finanziario, in grado da solo di concedere ampia libertà di manovra delle proprie politiche fiscali e monetarie, gli Stati Uniti hanno invece potuto superare abbondantemente le prestazioni della Grecia durante lo stretto passaggio attraverso la crisi finanziaria globale.
E fin qui non abbiamo parlato degli effetti redistributivi delle politiche fiscali e monetarie, che sia negli Stati Uniti che in Grecia hanno ampliato a dismisura il divario fra i pochi ricchissimi e la massa indistinta di poveri e disperati. Non dimentichiamo infatti che malgrado il sostegno diretto all’economia reale, come nel caso degli aiuti di stato all’industria automobilistica, negli Stati Uniti le operazioni di quantitative easing di salvataggio delle banche, degli investitori finanziari e della borsa di Wall Street sono stati notevolmente maggiori di qualsiasi manovra fiscale espansiva messa in campo dal governo. Eppure, nonostante questa evidente disparità redistributiva, la coesione sociale e l’autorevolezza delle istituzioni democratiche nel continente americano sono state ampiamente garantite, cosa che non si può dire nell’eurozona, dove i dubbi sulla legittimità degli apparati sovranazionali di Bruxelles e delle loro direttive autarchiche continuano a cozzare con i principi fondamentali delle costituzioni democratiche e a creare ampie sacche di dissenso e mobilitazione nel popolo vessato. E se proprio vogliamo fare un esempio di come la sovranità monetaria possa funzionare ancora meglio in senso democratico, consiglio di rivolgere l’attenzione verso il Giappone e di leggere l’interessante dossier curato da Renato Brunetta (quando si dice che il centrodestra sta superando a sinistra il patetico e inqualificabile centrosinistra italiano!).
In poco più di tre mesi il nuovo governo guidato dal primo ministro Shinzo Abe ha cambiato il pluriennale trendnegativo del paese nipponico, agendo sulla monetizzazione dei deficit pubblici, favorendo una svalutazione del cambio, costringendo la banca centrale a mantenere una politica monetaria espansiva di bassi interessi e acquisti illimitati di titoli sia sul mercato primario che secondario per stimolare il credito bancario alle imprese produttive, programmando un grande piano di spesa pubblica e infrastrutture per la ricostruzione delle regioni colpite dallo tzunami del 2011, stabilendo misure per la competitività, l’innovazione e lo sviluppo delle aziende, finanziando investimenti necessari a rafforzare la sicurezza e lo stato sociale, l’occupazione, la sanità, l’istruzione. Questo è in sintesi il modo più corretto in cui può e deve funzionare una democrazia vera, moderna, efficace, che senza smantellare l’industria finanziaria e bancaria, la mette invece al servizio del benessere collettivo. E ribadiamo che questo tipo di democrazia si può costituzionalmente conseguire soltanto mantenendo la propria sovranità monetaria. Non esiste altro modo per difendere l’equità, la giustizia sociale, la libertà di impresa, la capacità del governo di contrastare le crisi economiche e invocare istanze democratiche dal basso senza queste premesse.Non esiste democrazia senza sovranità monetaria. Tutto il resto è robaccia varia, arte del compromesso e della mistificazione, difesa ad oltranza dei privilegi e delle posizioni dominanti, delicati equilibrismi da professionisti della menzogna. Eurozona insomma.
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