In uno degli ultimi articoli scritti da Paul Krugman sul New York Times, mi ha molto colpito questa frase: “La Francia ha commesso l’imperdonabile errore di essere fiscalmente responsabile senza infliggere dolore alle classi povere e disagiate. E deve essere punita”. In particolare l’economista americano si riferiva al recente declassamento dell’agenzia di rating Standard&Poor’s, e ai continui ammonimenti della Commissione europea riguardo allescelte di politica fiscale del governo francese (superamento della fantomatica soglia del deficit pubblico del 3%): in pratica, ad avviso delle èlite finanziarie internazionali, non bisogna distruggere l’economia e il tessuto produttivo nazionale solo con gli aumenti delle tasse, come fa Hollande oggi, ma anche e soprattutto con i tagli alla spesa pubblica, in particolare quelli riguardanti il generoso stato sociale concesso ancora ai cittadini francesi. Per rendere rapidamente un paese innocuo e schiavo delle oligarchie transnazionali bisogna mettere a punto quelle fondamentali“riforme strutturali” del mercato del lavoro, del sistema pensionistico, del welfare state, senza le quali un popolo ancora sano, ancora orgoglioso della propria identità nazionale, può avere un giorno o l’altro la forza di riscattarsi dal giogo della dittatura europeista e più in generale dalla minacciosa omologazione globalista. E non a caso il movimento politico anti-europeista più vivace e organizzato del continente sia proprio francese, il Front National di Marine Le Pen.
I francesi insomma sono ancora innamorati del loro paese, e non sono stati condotti lentamente ad odiarlo come è accaduto a noi italiani negli ultimi venti anni: la peggiore classe dirigente di tutti i tempi non solo ha applicato alla lettera tutte le indicazioni ultraliberiste provenienti dai “mercati” e dalla Commissione europea, ma si è anche distinta per essere la prima della classe nella rapida attuazione dei diktat recessivi. Non solo aumenti sproporzionati delle tasse scaricati soprattutto sui ceti più deboli, ma anche tagli lineari e indifferenziati della spesa pubblica che hanno riguardato la sanità, l’istruzione, la ricerca, il sistema previdenziale e assistenziale, le dismissioni, le privatizzazioni. E in un periodo di recessione, il taglio della spesa pubblica è molto più letale dell’aumento delle tasse, perché mentre il primo annulla immediatamente gli effetti diretti di aumento del reddito e indiretti del moltiplicatore fiscale, il secondo spesso incide solo sui risparmi e sui patrimoni accumulati, lasciando inalterato il livello dei consumi (almeno per coloro che avevano ancora dei risparmi e dei patrimoni da utilizzare per pagare le tasse). E non sarà magari un caso che proprio oggi sul blog di Beppe Grillo è apparso un articolo di accusa nei confronti del governo Letta, che dipinge il giovane apprendista stregone piddino come un Quisling e un collaborazionista agli ordini delle potenze e degli interessi stranieri.
Vuoi vedere, mi sono detto, che il lobotomizzato e sonnacchioso Beppe Grillo si è ridestato dal torpore, prendendo spunto dal coraggio e dall’orgoglio nazionale della francese Le Pen? Niente paura, perché proprio alla fine del suo vibrante editoriale, Beppe Grillo si è invece nuovamente qualificato per quello che è: un “idiota”, che non capisce (o capisce perfettamente) che le sue incessanti indicazioni di taglio della spesa pubblica vanno proprio incontro alle premurose richieste dei “mercati” e della Commisione europea, in vista della definitiva distruzione dello Stato italiano e della messa in schiavitù del suo popolo. Ecco le sue testuali parole: “Vanno tagliati gli sprechi, le spese inutili che ammontano a circa 100 miliardi. Queste voragini nel bilancio dello Stato non possono però essere eliminate da chi ne gode i benefici, dai partiti e dai Letta, che appunto per questo vanno mandati a casa.” Ebbene il buffone di corte, senza mai avere alcuna contezza delle teorie keynesiane espresse da certi economisti di cui impunemente si appropria (Stiglitz e Krugman sono i suoi preferiti), vuole addirittura fare un taglio della spesa pubblica di ben 100 miliardi, senza neppure spiegare se questi 100 miliardi verranno in qualche modo reinvestiti dallo Stato o utilizzati soltanto per rimborsare i nostri creditori stranieri. Insomma è come se il nuovo Quisling Grillo voglia mandare questo preciso messaggio ai “mercati” e alla Commissione europea: “fate fare a me, che sono più amato e benvoluto dagli italioti, ciò che i vari Letta o Alfano o Monti non possono più fare perché troppo odiati e sfiduciati”. E’ una vera e propria candidatura al ruolo di sommo collaborazionista e altissimo traditore della patria.
Ma Grillo è talmente “idiota” da non accorgersi che ciò che dice successivamente è in contraddizione con ciò che ha appena scritto (o meglio perfettamente in linea con la sua “idiozia”): “Vanno rinegoziati con la UE il tetto del 3% che ci strangola, che va superato da subito per gli investimenti in attività produttive, ristrutturato il nostro debito, cancellati gli impegni impossibili assunti con il Fiscal Compact con nuove tasse per 50 miliardi all'anno per vent'anni, una pazzia". Ma come, prima vuoi tagliare la spesa pubblica con l’accetta e poi vuoi espandere la soglia del deficit? E cosa vuoi fare prima, il taglio o l’espansione? E visto che la ristrutturazione del debito comporterà un aumento degli interessi, come fai a pagare i costi del nuovo indebitamento, per giunta in una moneta straniera? Potrebbe spiegarci poi Grillo cosa intende per investimento in attività produttive, e quale sia il labile confine con gli sprechi e le spese inutili? Grillo crede davvero che sia possibile rinegoziare con la Germania il Fiscal Compact senza mettere in discussione l’euro, visto che uno è la naturale conseguenza dell’altro? Questo purtroppo è ciò che accade quando si vuole tenere il piede in due scarpe: con una si vuole cavalcare l’onda della rabbia e della rivolta sociale, e con l’altra si cerca di garantire assoluta sudditanza di fronte ai poteri sovranazionali che vogliono continuare a massacrarci. La follia e la pazzia pura. Ecco perché dobbiamo cercare di abbandonare quanto prima Grillo al suo destino, al manicomio, e continuare il nostro percorso verso la riconquista della sovranità nazionale ad ogni livello, che è l’unica premessa per la ripresa politica, economica e sociale del paese.
Sovranismo che non è affatto sinonimo di nazionalismo, chiusura, autarchia, ma un modo alternativo e sostenibile di affrontare le nuove sfide di governo della complessità. Sovranismo deve essere sinonimo diprevalenza dei principi e dei diritti costituzionali su cui si costruisce la democrazia rispetto alle asettiche leggi economiciste su cui si fonda la dittatura finanziaria e commerciale delle oligarchie transnazionali. “L'autonomia individuale non esclude ma anzi implica il senso di appartenenza a un particolare gruppo sociale e culturale. Non c'è autonomia e libertà senza radici nella particolarità di un territorio, senza identificazione intellettuale, sentimentale ed emotiva con una storia, una cultura, una lingua, un destino comune. E non c'è sicurezza ma dispersione e solitudine senza solidarietà, condivisione, un senso di omogeneità, una qualche spontanea intimità nei rapporti sociali. Solo chi dispone di solide radici identitarie riconosce l'identità altrui, rispetta la differenza, cerca il dialogo con gli altri, rifugge da ogni fondamentalismo e dogmatismo, è sicuro che l'incontro fra le diverse culture e civiltà del pianeta non è soltanto la condizione della pace ma è anche un patrimonio evolutivo irrinunciabile per la specie umana. (Danilo Zolo, “Il Tramonto della Democrazia nell’Era della Globalizzazione”). E a tal proposito vi consiglio di leggere questa analisi lucidissima scritta da Fabio Falchi e pubblicata qualche tempo fa sulla rivista Eurasia, in cui l’importanza della sovranità nazionale viene commisurata agli scenari geopolitici che ci attendono.
Di Fabio Falchi
Mentre va in scena l’ultimo (?) atto di “Finale di partita all’italiana”, una commedia dell’assurdo che rischia di finire in tragedia per milioni di italiani, si moltiplicano gli articoli e le prese di posizione contro l’Eurozona (e non solo in rete). Su questo argomento, se particolare importanza hanno le analisi diAlberto Bagnai o Bruno Amoroso, si deve a Jacques Sapir l’aver fatto, con grande chiarezza e semplicità, il punto della situazione nel suo recente articolo “Lo scioglimento dell’euro, un’idea che siimporrà nei fatti”. Sapir infatti dimostra che, mentre i media per ragioni politiche e ideologiche cercano di mettere in evidenza il fatto che la cosiddetta “ripresa” dovrebbe essere già cominciata, in realtà tutti gli indicatori economici provano il contrario.
Invero ciò non dovrebbe stupire granché gli italiani che vivono quotidianamente gli effetti della crisi sula loro pelle. Con l’indice della produzione industriale che ha perso ben venti punti percentuali dal 2007, con il tasso di disoccupazione giovanile che ha superato addirittura il 40%, con una pressione tributaria simile a quella dei Paesi scandinavi ma con servizi da “terzo mondo”, resi ancora più inefficienti o carenti dalla “macelleria sociale” degli ultimi governi, con il potere d’acquisto delle famiglie diminuito del 4,7% e con il diffondersi della povertà in ampi strati della popolazione, anche a causa di una continua redistribuzione della ricchezza verso l’alto, pare ovvio che a un numero crescente di italiani non possa sfuggire quale sia la reale condizione del nostro Paese.
D’altronde, sarebbe difficile mettere in dubbio i vantaggi che l’euro ha arrecato alla Germania, la quale, grazie ad una politica (che alcuni hanno definito “clandestina” o anche “beggar the neighbour”, ossia “frega il tuo vicino”) incentrata sulle riforme del lavoro firmate da Peter Hartz (già capo del personale della Volkswagen), ha “esportato” tra i quattro e cinque milioni di disoccupati nei Paesi più “deboli” dell’Eurozona e incrementato enormemente il surplus della propria bilancia commerciale. In sostanza, fruendo di un cambio favorevole (l’euro di fatto è un “marco leggero”) e aumentando i profitti delle imprese a scapito del reddito dei lavoratori, la Germania, dopo l’inizio della crisi, ha triplicato il saldo positivo della bilancia commerciale con l’Italia, la Francia e la Spagna, che è passato dall’8,44% alla cifra stratosferica del 26,03%.
Un costo pagato anche da molti tedeschi, dato che il 10% della popolazione tedesca possiede il 53% della ricchezza nazionale (cresciuta tra il 2001 e il 2012 di circa 1400 miliardi di euro), mentre i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, ormai riguardano 7,3 milioni di persone (il 70% delle quali non ha alcun altro reddito). Eppure in Germania – in cui comunque vi è ancora unoStato sociale tutt’altro che insignificante o inefficiente (non si deve dimenticare che la Germania ha potuto fare certe scelte partendo da posizioni di altissimo livello per quanto concerne la politica sociale) – è ampiamente diffusa dai media (che possono far leva su alcuni noti pregiudizi che caratterizzano la cultura tedesca) la concezione secondo cui i sacrifici dei tedeschi dipenderebbero dai danni compiuti dalle “cicale” mediterranee. Un quadro ben distante dalla realtà, nonostante non si possano ignorare le gravi responsabilità delle classi dirigenti dell’Europa del sud.
Tra l’altro non è nemmeno vero che gli europei con l’introduzione dell’euro starebbero meglio o che la Germania sia la locomotiva d’Europa. Come scrive Bagnai, i dati provano che l’Eurozona si sta rivelando una sorta di gioco a somma zero in cui la Germania tira da una parte e gli altri da quella opposta. Inevitabile quindi ritenere che «la leadership tedesca abbia portato il nostro subcontinente alla catastrofe, allontanandoci in modo persistente e, nel prossimo futuro, irreversibile, dal tenore di vita dei paesi avanzati ai quali avremmo la legittima aspettativa di appartenere».
Tuttavia, quel che più rileva non è tanto la valutazione dei costi economici e sociali derivanti dall’introduzione dell’euro quanto piuttosto il fatto che non è possibile porre rimedio agli squilibri che si sono generati nell’Eurozona finché si continuerà a difendere la moneta unica europea. Al riguardo, si deve tener presente che il “federalismo europeo” (“bandiera” di quegli europeisti che non sanno neppure distinguere l’Europa dall’Eurozona), oltre ai problemi politici che presenta (com’è noto un buon numero di Paesi dell’Ue, tra cui la Gran Bretagna, la Danimarca, la Svezia e la Polonia, non hanno alcuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità nazionale – ma in realtà ciò vale anche per la Francia e la stessa Germania), implicherebbe un gigantesco trasferimento di ricchezza dall’Europa del nord a quella del sud. E la Germania dovrebbe sopportare il 90% del finanziamento di questa operazione, equivalente a circa 230 miliardi di euro all’anno (circa 2.300 miliardi in dieci anni), ossia tra l’8% e il 9% del suo Pil (altre stime arrivano perfino al 12,7% del suo Pil). Chiunque può pertanto rendersi conto che sarebbe assai più facile che un cammello passasse attraverso la cruna di un ago.
Logico dunque che Jacques Sapir ritenga inevitabile l’abbandono della moneta unica europea e che, dopo aver preso in esame i possibili scenari che possono derivare dalla fine di Eurolandia, concluda: «Lo scioglimento dell’euro, in queste condizioni, non segnerebbe la fine dell’Europa, come si pretende, ma al contrario la sua rimonta nell’economia globale, e per di più una rimonta da cui potrebbero trarre beneficio in maniera massiccia, sia per la crescita che la nascita nel tempo di uno strumento di riserva, i paesi in via di sviluppo dell’Asia e dell’Africa».
Considerazioni e conclusioni – quelle di Sapir e Bagnai – che nella sostanza, a nostro giudizio, non si possono non condividere, anche perché fondate su analisi rigorose, nonché sull’ovvia constatazione che una moneta senza uno Stato è nel migliore dei casi un’assurdità (si badi che buona parte degli economisti che oggi difendono l’euro a spada tratta prima dell’introduzione dell’euro erano decisamente contrari alla moneta unica europea), così com’è assurdo pensare che sia possibile costruire il “federalismo europeo” tramite scelte politiche ed economiche del tutto contrarie agli interessi “reali” di chi dovrebbe compierle. E se ciò non bastasse si potrebbe pure ricordare che senza un “federalismo europeo” nulla o quasi si potrebbe fare contro la “speculazione finanziaria”.
Nondimeno, è palese che non è sufficiente, per comprendere la crisi di Eurolandia, considerare solo le questioni attinenti all’economia e alla finanza. Come spiegare altrimenti il fatto che una classe dirigente come quella italiana non cerchi in alcun modo di contrastare ma anzi favorisca una politica che sta devastando il nostro Paese? Per quale motivo cioè i nostri politici o meglio quei membri della nostra classe dirigente – politici o tecnocrati che siano – che tirano effettivamente le fila della politica italiana non si sono opposti né si oppongono nemmeno adesso a decisioni le cui conseguenze disastrose per l’Italia ormai sono evidenti a tutti coloro che hanno occhi per vedere? Insomma è certo che la Germania riesce a trarre il massimo profitto da una situazione geopolitica estremamente favorevole per la sua economia e che quindi l’euro è solo un aspetto, benché non marginale, del problema che si dovrebbe risolvere.
Non è certo un caso che l’introduzione dell’euro sia avvenuta il più rapidamente possibile dopo il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione della Germania, il cui significato politico può sfuggire solo a coloro che non conoscono (o fanno finta di non conoscere) gli ultimi centocinquanta anni della storia europea. In definitiva, è lecito affermare che la soluzione della “questione tedesca” era e rimane ancora il principale obiettivo dei “circoli euroatlantisti”, i quali non potrebbero tollerare che Eurolandia si sfasci e la Germania venga tentata – anche solo seguendo delle “direttrici geoeconomiche” – di “sbilanciarsi” dalla parte dei Brics (soprattutto in una fase storica in cui l’America, oltre ad avere serie difficoltà economiche, sembra priva di “iniziativa strategica” e incapace di contrastare con successo la crescita di altre potenze o di altri “poli geopolitici”, che cominciano pure a “fare pressione” per una radicale ridefinizione degli equilibri mondiali).
Da qui la necessità, secondo le “direttive strategiche” d’oltreoceano, per la classe dirigente italiana – che a partire dagli anni Novanta ha consapevolmente scelto di “liquidare” il patrimonio strategico nazionale a vantaggio dei “mercati” – di contribuire a qualsiasi costo alla soluzione della “questione tedesca”. E il compito fondamentale dell’Italia, secondo gli “strateghi euroatlantisti” consiste proprio nel favorire il più possibile la Germania (onde “saldarla” all’Atlantico), cedendo la propria sovranità non all’Europa (come invece molti intellettuali e giornalisti italiani affermano, scagliandosi contro gli italiani “brutti, sporchi e cattivi” ma “ignorando” che per milioni di italiani è un problema perfino, come si suol dire, mettere il pranzo insieme con la cena o che parecchie scuole non solo hanno “lesioni strutturali” ma hanno perfino problemi per acquistare la carta igienica), bensì ai tecnocrati di Bruxelles e alla Bce (la cui vera funzione non è un mistero per nessuno, tanto è vero che non occorre precisare a quali poteri la Bce debba rispondere).
Peraltro, si deve tener presente che non si tratta solo di “tradimento” del proprio Paese da parte della nostra classe dirigente (o almeno dei suoi membri più importanti), dato che quest’ultima condivide valori e stili di vita che la portano ad anteporre il cosiddetto “mondo occidentale” all’Italia (problema estremamente serio se si considera pure l’americanizzazione della nostra società, in specie delle nuove generazioni). Inoltre la nostra classe dirigente e, in generale, le classi sociali più abbienti sono perfettamente consapevoli che mettere in discussione l’euro, rebus sic stantibus, comporterebbe anche mettere in discussione quei meccanismi di redistribuzione della ricchezza e quella “riforma” dello Stato sociale in base ai quali sarebbe assai poco significativa per le fasce sociali più deboli (ceti medio-bassi inclusi) perfino una crescita del Pil (che in ogni caso sarebbe assai modesta).
Ma appunto per questo l’euro costituisce quell’anello debole su cui bisognerebbe premere per poter spezzare la “catena geopolitica” che lega il nostro Paese a scelte e decisioni strategiche del tutto opposte a quelle che si dovrebbero prendere se si avesse veramente di mira l’interesse dell’Italia (e di conseguenza della stragrande maggioranza degli italiani), mentre continuando di questo passo tra qualche anno si rischia di non poter nemmeno più difendere alcuna sovranità nazionale, semplicemente perché con ogni probabilità non vi sarà più alcuno Stato italiano, ma solo un territorio deindustrializzato, utile come riserva di manodopera qualificata a basso costo.
E’ indubbio allora che prendere posizione contro l’Eurozona e le misure d’austerità imposte dalla Bce e dai tecnocrati di Bruxelles (indipendentemente dalla questione se sia meglio optare per due euro o tornare alla lira o scegliere altre soluzioni) sia essenziale per recuperare quella sovranità che è il presupposto necessario di ogni autentica politica (antiatlantista) che abbia come scopo quello di sottrarre lo Stato alla morsa dei “mercati”. Questo però è possibile – vale la pena di rimarcarlo – solo a patto che non si perdano di vista i reali rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Ue e si comprenda qual è la vera posta in gioco sotto il profilo geopolitico e geoeconomico, tanto più adesso che in Europa si sta facendo strada la proposta statunitense di creare un “mercato transatlantico”, che renderebbe impossibile una autentica unione politica europea, trasformando l’intera Europa in una “appendice occidentale” degli Usa – ad ulteriore conferma del ruolo determinante del “politico” se non lo si intende come sinonimo di “politica” ma (correttamente) come strategia per la soluzione dei conflitti tra diversi attori (geo)politici e/o sociali.
Si può pertanto ritenere che l’attuale crisi politica italiana possa influire ben poco sulle sorti del nostro Paese, mentre decisivo sarebbe sfruttare la (probabile) fine dell’era (anti)berlusconiana, mettendo da parte lo spirito di fazione, al fine di dar vita ad una nuova forza politica di tipo “nazional-popolare” (che tenga conto cioè anche dei codici culturali ancora, nonostante tutto, condivisi da non pochi italiani), il cui compito principale dovrebbe essere quello di impedire il declino dell’Italia (le cui conseguenze sarebbero gravissime, in primo luogo, proprio per i ceti popolari e medio-bassi). In quest’ottica si dovrebbero cercare collegamenti con altre forze politiche europee, anch’esse interessate ad un rifondazione dell’Europa che non implichi la dissoluzione della identità nazionale nel “mercato globale”, ossia evitando gli eccessi del nazionalismo e di qualsiasi forma di narcisismo identitario, e promuovendo invece sia la nascita di un “polo geopolitico e geoeconomico mediterraneo” distinto da (non opposto a) un “polo baltico” sia una alternativa alle dissennate politiche liberiste. Certo oggi la politica italiana non offre nulla di questo genere, ma una volta che si sia compresa la necessità di difendere le ragioni del cosiddetto “sovranismo” (che pure Jacques Sapir difende) non dovrebbe essere particolarmente arduo poter valutare e giudicare la situazione politica italiana ed europea sulla base di una coerente e “corretta” visione geopolitica, senza lasciarsi fuorviare da “ottusi” schemi concettuali economicistici.
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