di Sergio Parrinello (*) da Economia e Politica
Sono convinto che i risultati delle recenti elezioni politiche in Italia siano un segnale chiaro e potenzialmente positivo per i paesi forti dell’Unione Europea, come la Germania e la Francia. Essi sono anche un ammonimento per quei politici italiani abituati ad usare la metafora “Europa” per demonizzare chi invoca o un cambiamento degli accordi europei o, se ciò non fosse realizzabile, qualche sganciamento da quegli accordi. Sono anche convinto che i maggiori partiti tradizionali italiani, da un lato, e i governi europei, dall’altro, si assumeranno una grande responsabilità se non sfrutteranno appieno tale segnale continuando a dipingere effetti apocalittici per l’Italia, se, con un’altra metafora, il paese “uscisse dall’euro”.
Perché non prefigurare effetti altrettanto apocalittici se si continua a perseverare con le politiche liberiste di austerità? Ora sappiamo, oltre il fatto che l’Italia è un’economia importante per l’Europa, che gli italiani con il voto sanno protestare in modo democratico contro gli effetti ingiusti di trattati ingiusti e che i compiti a casa li deve fare (anche) l’Europa.
L’Italia non è una piccola economia, non è un piccolo debitore e non è un paese dove si può spaventare la maggioranza degli elettori contro cambiamenti dello status quo con vuote minacce verbali o soltanto con la (non vuota) salita dello spread. L’Italia ha una grande economia, è un grande debitore (con un peso maggiore di quanto lo avrebbe se fosse un piccolo debitore come ci insegna il mondo degli affari) e una parte del suo corpo elettorale non si spaventa a fronte di quelle minacce. Ciò costituisce una specifica forza contrattuale a livello internazionale e, se i suoi rappresentanti politici fanno gli interessi del proprio paese, questi politici possono usarla in sede di Parlamento Europeo senza bisogno di gridare o di lamentarsi e senza bisogno di assumersi il ruolo di mosche cocchiere quando vi si conseguono i vantaggi di piccole concessioni ottenute.
Finora siamo stati intimiditi nel sentirci ripetere “che cosa succederebbe se l’Italia uscisse dall’Euro”. Il segnale espresso dalle elezioni suggerisce invece il seguente controfattuale alternativo: che cosa succederebbe in Italia e in Europa, se non si allentassero i vincoli di bilancio finora imposti e non si istituisse una Banca Centrale Europea come vero prestatore di ultima istanza. In tale contesto fa parte del gioco discutere senza perdere la calma i costi e benefici di un piano B o C, che costituisca una via resa obbligata di sganciamento dagli attuali accordi di Maastricht, nel caso in cui quei governi europei rimanessero sordi a tali istanze di cambiamento.
Io credo che il PD con Bersani e il Movimento a Cinque Stelle con Grillo si assumerebbero anch’essi una pesante responsabilità se non trovassero un accordo su pochi punti precisi, ma che uno di questi punti debba essere un impegno forte per ottenere in sede europea e in tempi brevi una inversione di politicaindirizzata all’occupazione ed alla crescita e che la forza di tale impegno deriva dal segnale trasmesso dagli elettori italiani: che la partecipazione dell’Italia all’Europa dell’Euro non durerà a qualsiasi costo economico-politico-sociale.
Una tale minaccia sarebbe credibile e potrebbe avere un effetto-domino per il consenso di altri paesi europei su quella linea strategica. Sarebbe troppo immaginare una Primavera Europea? Proviamoci.
(*) ordinario di economia politica all’Università di Roma La Sapienza. Fonte: economiaepolitica.it
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