martedì 4 novembre 2014

Il "blocco" costituzionale alle norme internazionali: una chiave di lettura sovranista


Ha avuto un notevole risalto mediatico per il tema trattato (risarcimento dei danni di guerra causati dal Terzo Reich) la sentenza della Corte Costituzionale del 22 ottobre che ha sancito l'inapplicabilità della norma consuetudinaria internazionale che stabilisce l'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile, recepita dalla Legge 14.01.2013 n° 5 nel nostro ordinamento, in quanto in violazione dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell'uomo tutelati dalla nostra Costituzione. La decisione in sé ripercorre il filone di altre sentenze della Consulta emesse in riferimento a norme comunitarie, o del Concordato con la Santa Sede, secondo le quali "il limite che segna l’apertura dell’ordinamento italiano all’ordinamento internazionale e sovranazionale è costituito […] dal rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo, elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale" (sentenze n 30/1971 Gualtieri e 31/1971, Ghisotti-Siliprandi).

Quello che la rende interessante è però le modalità, espresse nella sentenza, con cui si attua questo limite: secondo la Corte infatti esiste un "blocco" all'entrata nel nostro ordinamento di una norma internazionale o sovranazionale, recepita ex art. 10 Cost., che sia in violazione dei diritti e principi fondamentali che costituiscono l'assetto del nostro sistema, come delineato nella Carta. Questo controllo, che avviene ex post, può essere effettuato esclusivamente dalla Corte Costituzionale, poiché le norme così recepite assumono rango equivalente a quello di norme costituzionali, ma una volta che ne sia stabilita la violazione è obbligo del giudice statuale di non considerarle esistenti e quindi vi è il potere/dovere di non applicarle.

Ě da rilevare che i Giudici ritengono pertanto sottoponibile al sindacato della Corte anche una norma di diritto internazionale c.d. “generale”, ovvero di tipo consuetudinario prevalente, recepita appunto ex art. 10, norma che ha una forza quale fonte di diritto certamente superiore a quelle “pattizie” che trovano la loro legittimazione nell’art. 11 Cost.: mentre infatti le prime trovano la loro legittimazione nell'avere alle spalle un uso anche secolare, nell'essere universalmente riconosciute come cogenti nei rapporti internazionali, le seconde trovano la loro legittimazione appunto in un patto, che può essere modificato o sciolto, e che ha una forza derivante esclusivamente dalla volontaria sottoposizione degli stati firmatari allo stesso. Risulta evidente che se è ammissibile un sindacato di legittimità persino di una norma consuetudinaria fondamentale, tanto più la Corte avrà il diritto di valutare una norma "pattizia": come infatti giustamente evidenzia Barra Caracciolo nel suo commento alla sentenza, “Se quanto così affermato vale rispetto al diritto internazionale generale di cui all'art.10 Cost, a maggior ragione opera come limite al diritto internazionale "da trattato", ancorchè "europeo", che è fonte di rango inferiore, in Costituzione e nel diritto internazionale, rispetto al d.i. "generale” (http://orizzonte48.blogspot.it/2014/10/corte-costituzionale-sentn238-del.html)

Questa ricostruzione dogmatica quindi stabilisce una volta per tutte che nessuna norma di diritto internazionale può essere considerata di rango superiore a quelle costituzionali fondamentali e che sussiste sempre il potere/dovere della Consulta di valutare il contemperamento fra le prime e le seconde per stabilire se le prime abbiano o meno e in quali limiti il diritto di entrare nel nostro ordinamento ed essere applicate.

Tale posizione sembra modificare ancora una volta il percorso "sofferto" di integrazione delle norme comunitarie con il diritto interno e che ha visto la nostra Consulta passare dal primato della norma costituzionale rispetto a quella comunitaria, considerata di diritto comune, attraverso il riconoscimento della norma statuale di applicazione, e quindi superabile da una legge posteriore (sentenze 14/1964, Costa/ENEL e 98/1965, Acciaierie San Michele), ad una posizione di equivalenza del diritto comunitario con quello costituzionale, essendo la norma comunitaria "veicolata" dall'art. 11 Cost., cosa che che le permette di essere immediatamente precettiva e di prevalere sulla norma statuale anche successiva, con essa incompatibile (sentenze 183/1973, Frontini e 232/1975, Industrie Chimiche), alla posizione più recente di "autonomia" dell'ordinamento comunitario rispetto al diritto interno, il quale viene semplicemente ignorato nell'applicazione dal giudice ordinario, ogniqualvolta esso sia in contrasto con il precetto sovranazionale (a partire dalla sentenza 170/1984, Granital).

Ciò avvicina la nostra Corte alle posizioni di quella tedesca, che, a più riprese, ha affermato il dovere di esaminare qualsiasi accordo internazionale o decisione per valutarne la congruità ed il non contrasto con la Costituzione tedesca: basta ricordare l'opposizione al programma OMT di Draghi, che i Giudici tedeschi hanno considerato in violazione del principio di controllo della spesa fiscale del contribuente tedesco, il quale spetta esclusivamente al Bundestag, rimettendo sì la questione alla Corte di Giustizia Europea, come previsto dall'art. 263 TFEU, che stabilisce la giurisdizione esclusiva di quest'ultima sugli atti della BCE, ma non prima di averla esaminata direttamente, senza sospendere il ricorso in attesa della decisione della CGUE, e soprattutto dando preventivamente indicazioni sulla illegittimità e proponendo alla stessa CGUE le modifiche da attuare per renderla per i tedeschi accettabile.

La Corte tedesca è arrivata così a porre un vero e proprio “ultimatum” alla Corte di Giustizia, sia sui tempi che sui modi della decisione, con l’affermazione espressa che in caso contrario verrà considerata anticostituzionale e disapplicata dalla Germania, in barba al principio della vincolatività delle decisioni della CGUE (vedi sul punto e per un esame approfondito delle conseguenze della presa di posizione della Corte di Karlsruhe, Barra Caracciolo “La questione "OMT" e la morte virtuale della facciata cooperativa dell’euro” su http://orizzonte48.blogspot.it/2014/02/la-questione-omt-e-la-morte-virtuale.html.)

La sentenza della nostra Corte è più morbida nel suo dettato e non compie lo “strappo” di quella tedesca rimanendo nell’alveo delle proprie decisioni più recenti, in quanto considera, non il mero contrasto con qualunque principio costituzionale, anche di competenza dei poteri impositivi, come quella tedesca, ma solo quello con le norme fondamentali per l'assetto democratico e di tutela di diritti inviolabili; nonostante ciò appare essere una leva che potrebbe sollevare il macigno, formato dalle norme europee in materia economica recepite nel nostro ordinamento, che opprime la nostra economia e la nostra società.

La decisione della Consulta ridà infatti dignità alla tutela dei principi e dei diritti cardine su cui si basa l'Italia, affermandone l'incomprimibilità, qualsiasi sia il livello (internazionale, sovranazionale, consuetudinario o pattizio) delle norme che vogliono incidere su tale assetto. Ogni limitazione di sovranità e diritti dei singoli, in quanto riconosciuti e tutelati dalla Carta, pur se accettati o ratificati in trattati che si considerano vincolanti e cogenti, come quello UE, deve sottostare al sindacato di coerenza con il dettato costituzionale, per valutarne la necessità e le finalità che non possono essere diverse da quelle dell'art. 11, e che pur perseguibili in via diretta o indiretta, sono sempre e comunque "controlimite" all'applicazione di accordi che diminuiscano la piena potestà statuale e comprimano i diritti sociali ed economici dei cittadini, riconosciuti fondanti dagli artt. 1, 2 e 4 Cost..

Evidentemente secondo questa logica non possono essere considerati accettabili, qualsiasi siano le finalità ultime espresse astrattamente nei trattati, e devono essere quindi considerate mai entrate nel nostro ordinamento, tutte quelle norme che direttamente stabiliscano una cessione definitiva di parti di sovranità nazionale, sovranità che si esplica con il diritto di stabilire un'imposizione fiscale coerente con i principi e le finalità dell'art. 3 Cost. comma II o che impone di perseguire a deficit politiche di ridistribuzione e sostegno dei redditi o di tutela e sviluppo del welfare, e che non può, per implicita ratio ex art. 11 Cost., essere ceduta permanentemente, od anche quelle norme che impongano per la loro attuazione o per il perseguimento delle finalità che impongono, una trasposizione in legge ordinaria. Vengono in mente ad esempio le regole del fiscal compact, che impongono un certo deficit ed il perseguimento di una riduzione del debito pubblico incompatibile con lo sviluppo economico in un periodo di ciclo economico recessivo.

Ma, a mio avviso, la sentenza permette un'interpretazione ancora più incisiva: dovendosi sempre e comunque valutare la norma internazionale "pesandola" con l'assetto costituzionale sul quale va ad incidere, anche un trattato che si autoproclami esplicitamente "un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni" secondo il dettato dell'art. 11 Cost. - e questa è sempre stata la chiave per respingere alla fonte ogni contestazione della legittimità costituzionale degli articoli dei trattati europei ("le precise e puntuali disposizioni del Trattato forniscono sicura garanzia, talché appare difficile configurare anche in astratto l'ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana." così ad esempio Corte Cost 183/1973 si esprimeva, con un certo ottimismo, sul trattato di Roma) - non può sic et simpliciter essere considerato "giusto" in ogni suo aspetto ed in ogni sua determinazione.

Nel momento in cui si riscontri che l'applicazione di norme comunitarie non direttamente lesive provochi situazioni che mettano in pericolo il Paese, nella sua consistenza economico/produttiva (come è noto dall'inizio della crisi abbiamo perso il 25% del nostro tessuto produttivo) o che provochino per il loro rispetto l'annullamento di fatto dei diritti su cui è basata la Nazione (prima di tutto l'effettività e la dignità del lavoro) è mio parere che l'eventuale questione di costituzionalità di tali disposizioni comunitarie o delle leggi ad esse riferentesi debba essere sollevata avanti alla Corte Costituzionale, la quale sarà tenuta a valutarne l'impatto sull'assetto economico/sociale fondante lo Stato italiano.

Ciò comporta l’ulteriore conseguenza che a rigore lo stesso trattato TFUE possa e debba essere considerato nella sua interezza per valutare la congruità dell’impianto stesso dell’accordo con i principi fondanti della Repubblica. Se infatti si eliminano una volte per tutte le pregiudiziali di coerenza ed adesione del Trattato UEM con le finalità di “pace e giustizia fra le Nazioni” costituzionalmente previste per l’ammissibilità del suo inserimento nel corpo legislativo nazionale, se quindi ci si toglie quel paraocchi, quel filtro buonista-europeista che non ha mai permesso un esame obiettivo delle reali finalità del Trattato, considerando sufficiente il vago richiamo all’inizio dell’art. 3 TFUE alla volontà di “promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli”, ci si accorge che la reale portata del TFUE è ben diversa da quanto apoditticamente affermato, e si prende coscienza del fatto che esso tende a contrastare ed ostacolare i compiti istituzionali dello Stato, come previsti dalla nostra Carta all'art. 3 comma II.

Basta già considerare quanto lo stesso art. 3 TFUE candidamente ammette nel suo terzo comma, dove fra le caratteristiche dell’accordo spicca il fatto che sia basato “su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva” per poter cominciare a dubitare della reale volontà sottesa al Trattato. Come nota puntualmente Barra Caracciolo “certamente l'Unione economica e, ancor più, monetaria europea, - priva di ogni riferimento al perseguimento della pace e della giustizia tra le Nazioni, e giuridicamente cresciuta e stratificata come insieme di regole caratterizzate dall'instaurazione di un libero mercato fortemente competitivo che privilegia la stabilità dei prezzi e la piena occupazione ad essa connessa, cioè unicamente in quanto compatibile con tale stabilità, instaurando la competizione mercantilista tra gli Stati coinvolti,-  non ha nulla a che vedere con un'organizzazione che svolge la promozione della pace sia all'interno dei partecipanti sia, collettivamente, verso l'esterno” (http://orizzonte48.blogspot.it/2014/07/lart11-cost-e-adesione-allue-cosa-dice.html).

Evidentemente quello che viene alla luce è l’illegittimità tout court di un vincolo esterno limitativo della sovranità nazionale, che non trova realmente fondamento nell’art. 11 Cost. e quindi l’impossibilità ab origine della sua accettazione nel corpo legislativo statuale. Non è un caso che i Costituenti avessero negato l’accenno nel corpo dell’articolo in questione all’unità europea: essi sentivano che non sarebbe stato corretto dare una “patente di legittimità” a priori ad una costruzione europea, perché, come notava lucidamente il presidente della Commissione Costituente, On. Ruini, “Non si può prescindere dalla indicazione dello scopo. Vi possono essere organizzazioni internazionali contrarie alla giustizia ed alla pace”.

Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti, ma questo spunto deve e può essere ulteriormente sviluppato, per permettere un impianto teorico immediatamente applicativo, volto a contrastare ulteriori cessioni ed al ripristino di quella sovranità che, in nome di ideali astrattamente affratellanti, si sta illegittimamente cedendo, con il plauso ed il complice accordo di pressoché tutta la nostra classe politica, avendone in cambio solo competizione mercantilistica e conseguente ed inevitabile corsa alla distruzione dei diritti dei singoli, in ossequio ad un ideale liberista che coltiva la disuguaglianza e la sacralizzazione del profitto.


2 commenti:

  1. Per la serie: come rendere accessibile un argomento ostico. Grazie davvero.

    RispondiElimina
  2. Sono lieto che risulti comprensibile. Gli stessi operatori del diritto non sono per lo più coscienti delle implicazioni del TFUE e dei sui rapporti con la nostra Costituzione, cosa che peraltro ad osservatori esterni, come la J.P. Morgan, risultava palese: o il Trattato, con impianto iperliberista, o le Costituzioni democratico-sociali.
    Tertium non datur.

    RispondiElimina