mercoledì 13 agosto 2014

Chi ha paura dell'art. 18? Parte seconda.



Allora, le domande con cui ci siamo lasciati erano: è l'art. 18 Statuto dei lavoratori la zeppa che impedisce al meccanismo produttivo di funzionare? A chi da realmente fastidio l'art. 18?

Rispondere alla prima domanda parrebbe intuitivo se si è letta la prima parte: una norma che tutela pienamente il posto di lavoro (perché solo la reintegra lo tutela pienamente, è bene averlo ben chiaro in testa, specie in tempi in cui non è facile trovare un altro impiego) esclusivamente per i licenziamenti palesemente discriminatori (sì, si applica anche ai licenziamenti nei quali la causa addotta è totalmente inesistente o per la quale il CCNL non prevede il licenziamento, ma fidatevi, non esistono casi del genere in pratica...), quindi penalizza solo l'arbitrio puro del datore di lavoro, non può in alcun modo essere considerato un ostacolo alle assunzioni o in generale all'attività produttiva. Chiunque dica il contrario, o non sa di cosa parla (vero Alfano?), o è rimasto alla formulazione originaria dell'art. 18, oltretutto nell'interpretazione anni '70/'80 data dalla giurisprudenza. E allora perché salta fuori adesso il dibattito su questo articolo?

La ragione a mio avviso è duplice.

La prima è che la politica italiana si dibatte negli ultimi anni nella difficoltà di conciliare i vincoli fiscali imposti dall'Europa con la necessità di stimolare la crescita; l'appoggio dato a Monti da parte della quasi totalità della destra e della sinistra al momento del suo insediamento si spiega con la genuina speranza che egli potesse realmente mettere mano nella nostra disastrata economia in crisi e risanare il bilancio statale, ponendo le basi per una crescita del Paese, confidando nelle sue ricette, dure ma necessarie. Con Monti però si è implementato ancor di più un pensiero economico liberista che, si può dire schematicamente, pensa ed agisce solo dal lato dell'offerta, per il quale la competitività perduta è causata dal nanismo delle imprese e dal conseguente mancato o insufficiente investimento in ricerca ed innovazione, dalla tassazione eccessiva sul lavoro e la produzione, oltre che dalla rigidità del mercato del lavoro, in entrata ed in uscita e dal suo costo. Lo Stato nulla può fare, ed anzi deve intervenire il meno possibile attivamente, concentrandosi sul risanamento dei propri conti, attraverso tagli di spesa e temporanei aumenti di tasse, che dovrebbero portare in un secondo tempo a risparmi di spesa per interessi e quindi a meno tasse e sviluppo: la c.d. "austerità espansiva".

Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Ormai però il mantra "più flessibilità" è entrato nell'immaginario sociale e politico e, dato che la flessibilizzazione in entrata ormai consolidata non ha portato ai risultati sperati (come abbiamo visto appena la crisi si è fatta sentire la disoccupazione, soprattutto giovanile, si è impennata, in barba ai contratti di apprendistato, a tempo o a progetto) adesso ci si rivolge a quella in uscita, scaricando sulla supposta rigidità a licenziare la colpa delle mancate assunzioni. Questo per chi è in buona fede.

L'altra ragione è più sottile ed implica una consapevolezza unita al perseguimento di uno scopo preciso: la flessibilità estrema in uscita non interessa il nostro sistema produttivo, fatto in stragrande maggioranza da piccole e medie imprese, ma importa e molto alle grandi imprese e multinazionali estere, che intendono investire in Italia. Vediamo perché.

Le PMI sono caratterizzate dall'utilizzo di un numero limitato di lavoratori: ecco la situazione nel 2012


Oltre il 50% delle imprese italiane ha un numero di dipendenti fra 1 e 49 ed il 71% è classificabile come PMI secondo i parametri europei, che prevedono un limite di 249 addetti.

La caratteristica dei lavoratori delle PMI è che essi sono un vero valore aggiunto, trattandosi in grande maggioranza di c.d. skilled workers, ovvero lavoratori specializzati che sono stati formati all'interno dell'azienda, spesso acquisendo il know how produttivo che la caratterizza, molte volte considerabili quasi degli artigiani per la loro maestria. Questi lavoratori sono un patrimonio per l'imprenditore, che ha speso anni di tempo e fatica per plasmarli e che pertanto non ha alcun interesse a mandar via o sostituire, a meno che non ne sia costretto. Alla PMI pertanto non interessa affatto l'art. 18, neanche quando esso tutelava contro il licenziamento motivato astrattamente da ragioni meramente economiche. L'operaio di una piccola impresa è parte di una "famiglia produttiva" e spesso lo stesso datore di lavoro ne condivide gli orari e la fatica, ne conosce vita e problemi e preferisce dar fondo a tutte le sue risorse economiche piuttosto che mettere sulla strada i propri dipendenti e se non riesce, come purtroppo è successo e succede, si sente talmente in colpa che può arrivare a gesti estremi di disperazione.

A rigore, neanche la flessibilità in entrata interessa il piccolo/medio imprenditore: quando un lavoratore ha acquisito le conoscenze e l'esperienza produttiva il datore di lavoro ha tutto l'interesse a trattenerlo, sia perché c'è voluto, come detto, tempo e fatica per renderlo pienamente produttivo e se fosse a termine si perderebbe quella produttività, sia perché, avendo acquisito i "segreti produttivi" che caratterizzano spesso il successo di un'azienda, lasciarlo andar via significherebbe rischiare che tali segreti siano utilizzati in proprio o peggio acquisiti da un concorrente.

Neanche l'idea che l'art. 18 impedisca alle PMI di crescere, per paura di superare il limite di applicazione della norma, che ricordiamolo è di 15 dipendenti, ha alcuna base concreta: ecco due grafici tratti da uno studio del sito lavoce.info, con dati fino al 1998, ma che si possono considerare tutt'ora attendibili, estremamente illuminanti:

Fonte: La Voce 2012

Fonte La Voce 2012
Il primo mostra la distribuzione delle imprese secondo il numero degli addetti, il secondo la propensione a crescere delle imprese, man mano che raggiungono un certo numero di dipendenti.

Come nota il sito economico nell'articolo che correda lo studio, se l'art. 18 fosse un deterrente a crescere vi sarebbe un ammasso di imprese che si situano poco sotto il tasso soglia di 15 dipendenti e si avrebbe una forte riluttanza a crescere: nel primo grafico la distribuzione a decrescere appare invece omogenea, senza scalini particolari, mentre nel secondo grafico uno scalino c'è, ma è piuttosto irrisorio (la propensione passa dal 35% al 34%), ed è influenzato anche dal fatto che è lo stesso limite dimensionale sopra il quale scatta l'obbligo di assunzione di un disabile.

Assodato che l'art. 18 ha un'influenza pressoché nulla sulle decisioni strategiche delle PMI e che l'interesse di queste a licenziare liberamente i propri dipendenti è estremamente basso, vediamo chi può invece averne maggior interesse, ovvero la grande impresa. Questa è caratterizzata dall'utilizzo in maggioranza di lavoratori "no skilled", in quanto inseriti in processi produttivi standardizzati nel quale l'operaio cura un limitato settore e viene impiegato per mansioni ripetitive o comunque di difficoltà relativa. Anche nei settori di servizi e distribuzione il dipendente è chiamato semplicemente ad imparare pochi concetti: l'utilizzo di certi tasti o procedure del software in uso nell'ambito dei servizi (banche, assicurazioni, servizi postali) o di semplici operazioni di collocamento e controllo merce (supermercati ed altri punti vendita "fai da te"). Nessuno di questi lavoratori acquisisce particolari competenze e know how aziendali, niente che un breve tirocinio non possa riformare in capo ad un nuovo assunto.

In questo tipo di impresa però la possibilità di ristrutturare, chiudere e spostare interi complessi è fondamentale per rispondere a crisi e difficoltà economiche locali, oltre a permettere un controllo maggiore sulla propria forza lavoro, tenuta costantemente sotto pressione dal rischio di perdere il posto di lavoro e quindi, come diceva Kalecki, "tenuta in riga". Una norma quindi, per quanto depotenziata, che astrattamente può inceppare questo meccanismo, anche solo per l'incertezza dell'esito di una causa e per la lunghezza di essa (così si spiega l'interesse espresso più volte dalle società estere di avere una giustizia più rapida per investire maggiormente nel nostro Paese, anelito del tutto condivisibile, ma che, provenendo da multinazionali, mi suona sempre un po' sinistro...) è un ostacolo intollerabile e va quindi rimosso. Siccome in questo momento, per le ragioni che ben sappiamo, l'Italia è un paese in svendita e si avvia ad essere semplicemente un luogo dove avvengono le trasformazioni di materie prime e le lavorazioni intermedie, a beneficio delle produzioni estere, che stanno acquisendo buona parte del nostro tessuto produttivo, con il plauso di certa stampa ed una certa preoccupazione di altra, ecco che il dibattito su quello che rimane dell'art. 18 si fa di nuovo attuale.

Così ha trovato risposta anche il nostro secondo quesito e forse adesso vediamo con più chiarezza il quadro di insieme.

Se volete invitare Alfano o Sacconi o, perché no, Renzi a dare un occhiata a questo post, prima di lanciarsi in battaglie che hanno impatto zero sull'economia italiana, almeno finché rimane tale, avrete tutta la mia sincera gratitudine. Ma che accettino l'invito ci conto poco.


1 commento:

  1. Grazie, un ottimo articolo.
    Mi permetto far notare che per quanto riguarda le grandi imprese il problema di ristrutturare/chiudere/spostare le produzioni non riguarda l'art. 18, che si occupa solo dei licenziamenti individuali. In questo senso l'articolo è ininfluente.
    Fondamentale è invece il secondo aspetto, quello per cui attraverso il depotenziamento/cancellazione dell'articolo è più facile il controllo dei singoli dipendenti, i quali - sentendosi individualmente meno o punto tutelati - avranno maggiori remore ad prendere posizioni scomode per l'azienda (iscrizione a sindacati non graditi, contestazione delle condizioni di sicurezza ambientale ecc).

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