Vediamo di ricapitolare: secondo il messaggio lanciato quotidianamente da politici e media la colpa della crisi è, in ordine di importanza:
1- Perché non abbiamo fatto le riforme strutturali
2- Perché non siamo produttivi e competitivi
3- Perché abbiamo sprecato il dividendo dell'euro
4- Perché abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità
5- Perché le tasse ci strangolano
Il punto 1 e 2 di solito sono complementari con un rapporto di causa ed effetto: non siamo produttivi e competitivi PERCHE' non abbiamo fatto le riforme strutturali; i punti 3, 4 e 5 possono avere un ordine diverso, a seconda del personaggio che in quel momento ci sta facendo la ramanzina: da notare infatti che, tranne il punto 6, la colpa è comunque NOSTRA, del popolo italiano, pigro, furbo e godereccio.
Tutti questi simpatici Savonarola che ci fustigano e che addirittura trovano salutare la crisi spaventosa che stiamo vivendo perché è necessario attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l'individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità hanno veramente ragione?
Siccome in questo blog per principio non ci fidiamo analizziamo questi punti della nostra vergogna. Iniziamo dal più controverso.
NON SIAMO PRODUTTIVI E COMPETITIVI PERCHE' NON ABBIAMO FATTO LE RIFORME STRUTTURALI
Intanto, cosa sono le riforme strutturali? Secondo la vulgata liberista, le riforme strutturali sono quelle che incidono sull'offerta, ovvero sulla produzione, e sono la flessibilità in entrata ed uscita del lavoratore, la moderazione salariale e la spesa per investimenti tecnologici per abbattere i costi di produzione e massimizzare la produttività oraria. In effetti non è vero che nulla è stato fatto: per quanto riguarda la moderazione salariale, fin dal 1992 è stata abolita la c.d. scala mobile e quindi l'indicizzazione dei salari all'inflazione, nel 2003 è stata approvata la c.d. Legge Biagi che ha introdotto la flessibilità dei rapporti di lavoro in entrata, con la creazione di varie tipologie di lavoro a tempo determinato, mentre per gli investimenti, soprattutto in tecnologia e sviluppo, la creazione tutta italiana dei distretti industriali ha permesso alle nostre PMI (il cuore del comparto produttivo italiano) di poter competere con i grandi gruppi industriali del Nord Europa.
Tutto ciò però per i liberisti non è abbastanza: quello che è stato fatto è positivo e giusto, ma dobbiamo avere il coraggio di andare oltre: dobbiamo accettare salari più bassi, meno tutele del posto di lavoro, riformare le infrastrutture e far crescere le PMI con fusioni e incorporazioni, perché diventino grandi gruppi come quelli esteri e così risparmiare per effetto delle economie di scala. E chi non vuole o non ce la fa che chiuda pure: solo così la nostra economia si risolleverà con benefici per i produttori, ma anche per i lavoratori.
Tutto quello che è stato fatto è positivo e giusto? Vediamo qualche dato:
fonte: goofynomics
fonte: goofynomics
L'andamento della quota salari rispetto al PIL nominale ci dice che, con le politiche di contenimento dell'inflazione e quindi con la compressione prima e l'abolizione poi della scala mobile, i lavoratori hanno perso parecchio nella ridistribuzione del reddito prodotto ed infatti dal 1982 in poi l'indice dei salari cresce meno di quello della produttività, il che significa che il guadagno della produzione va meno ai lavoratori e più agli industriali datori di lavoro; notate il crollo dopo il 1992 di tale quota e parallelamente la diminuzione in termini reali del salario rispetto alla produttività. Certo ai lavoratori un gran bene non ha fatto...
La produttività come si vede non muta affatto il suo trend di crescita, anzi dopo il 1996 vi è un appiattimento, per cui le riforme fatte non sembrano abbiano portato benefici neanche agli imprenditori; insomma queste riforme strutturali che erano considerate necessarie per crescere e competere sembrano piuttosto aver depresso una crescita preesistente ed hanno avuto il solo effetto di spostare la redistribuzione dei redditi dai lavoratori alle imprese. Il bello è che prima delle riforme crescevamo eccome, anzi crescevamo come la Germania: basta mettere a confronto i livelli di produttività
fonte: goofynomics
Prima delle riforme, negli anni '70 e '80, quelli considerati orribili per l'inflazione a due cifre dai nostri liberisti, l'Italia cresceva di pari passo alla Germania e, dopo il periodo di stagnazione per la permanenza nello SME, anche più di essa, fino al 1996, poi il declino. Eppure la riforma Biagi del 2003 avrebbe dovuto dare slancio alla produttività, ricordate le dichiarazioni? Ad esempio Brunetta nel 2008: "La Legge Biagi e il pacchetto Treu hanno prodotto più di tre milioni di posti di lavoro, hanno migliorato la funzionalità del mercato del lavoro e hanno dato tanto lavoro ai giovani. Ovviamente sono leggi perfettibili che qualcuno ha demonizzato, soprattutto la legge Biagi". Vediamo se hanno dato tanto lavoro ai giovani: ecco due grafici interessanti
fonte: sovietunit.net
fonte: sovietunit.net
Il primo ci dice che la disoccupazione, che era in calo dal 1998 non ha modificato il suo trend dopo la riforma Biagi, ma il secondo ci dice qualcosa di molto più interessante: dopo la riforma che flessibilizzava il lavoro in funzione, si diceva, di migliorare l'occupazione giovanile, per rendere più facile ai giovani l'inserimento nel mercato del lavoro, quelli che subiscono l'impatto peggiore... sono proprio i giovani! Il tasso di disoccupazione della fascia 20-24 anni e quella 25-34 anni in rapporto alla disoccupazione totale aumenta anche sensibilmente, mentre migliora il rapporto fra disoccupazione dei più anziani e totale dei disoccupati.
Con buona pace di Brunetta, la riforma del lavoro del 2003 non ha creato più posti di lavoro e sicuramente non per i più giovani.
Sia ben chiaro: non sostengo che la Legge Biagi abbia causato essa sola l'aumento della disoccupazione; quello è stato causato soprattutto dal peggioramento della nostra economia, le cui cause sono state spiegate, sia nel nostro manifesto, sia, più tecnicamente ed estesamente in autorevoli blog economici, in articoli come questo o questo. Quello che dico è che la flessibilizzazione in entrata e la creazione di contratti di lavoro modulati non ha portato alcun miglioramento alla tendenza di base ed anzi sembra aver peggiorato la crisi occupazionale.
Se le cose stanno così, perché una maggiore flessibilità, oltretutto con salari più bassi, dovrebbe avere un esito differente? Non è che si vuole ancora una maggiore redistribuzione dei redditi a favore dei produttori ed a scapito dei lavoratori? Ecco queste sono le domande che dovreste farvi la prossima volta che sentite il politico o l'economista o il giornalista di turno chiedere a gran voce le "riforme strutturali". Mi direte: ma tagliare ancora i salari non farebbe comodo neppure agli industriali, perché deprimerebbe una domanda di beni già scarsa: a chi venderebbero i prodotti se la gente non ha i soldi? Non possono vivere solo di export.
Avete ragione. Questa politica di flessibilità e moderazione salariale non è economicamente utile, neanche agli industriali; ma ai datori di lavoro, a chi finora ha vissuto agiatamente, ai grandi capitalisti interessa anche qualcos'altro: la conservazione della propria posizione. Avete fatto caso alla freccia sul primo grafico? Il momento di massima redistribuzione dei redditi a favore dei salariati coincide con la massima affermazione del Partito Comunista. In altre parole, il maggior potere contrattuale dei lavoratori, rappresentato dall'influenza del partito di rappresentanza, attraverso le lotte sindacali aiuta questi ad avere anche il maggior guadagno economico.
Questo si chiama potere.
Tutte le riforme successive hanno un unico scopo, palese od occulto: togliere potere ai lavoratori. Non è una cosa nuova: oltre settant'anni fa un economista (Kalecki) aveva descritto questa lotta fra il benessere economico, garantito dalla piena occupazione, e la necessità di "mettere in riga" i lavoratori. Ecco un estratto
“Certamente, in un regime di permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo come strumento di disciplina [disciplinary measure].
La posizione sociale del capo sarebbe minata e la fiducia in se stessa e la coscienza di classe della classe operaia aumenterebbero.
Scioperi per ottenere incrementi salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche.
E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche l’incremento dei salari risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori è più probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggi così solo gli interessi dei rentier.
Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più apprezzate dagli uomini d’affari dei profitti.
Il loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è sano dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale sistema capitalista.” (Kalecki: aspetti politici del pieno impiego 1942, II.4).
Adesso le ragioni delle riforme strutturali sono più chiare: togliere reddito, diritti e certezze del posto di lavoro, crea sì condizioni di crisi economica, ma la conseguente disoccupazione da meno forza contrattuale alle classi lavoratrici. Questo per le classi dominanti è un bene da perseguire, anche se va a scapito di uno dei capisaldi della famosa competitività: l'innovazione e sviluppo tecnologico delle imprese. Come hanno dimostrato in Italia economisti importanti come Daveri e Parisi nel loro studio “Temporary workers and seasoned managers as causes of low productivity, 2010” o Travaglini in “Alcune riflessioni sulle cause reali della crisi finanziaria, 2009” “Il basso costo del lavoro ha agito da disincentivo per le imprese ad accrescere l’efficienza, rendendo profittevoli attività a basso valore aggiunto, altrimenti marginali... La moderazione salariale quindi oltre che deprimere le retribuzioni e in consumi, favorendo l’indebitamento, ha depresso l’investimento di qualità, i processi innovativi e la crescita della ricchezza nazionale.” (Travaglini, ibidem). Quindi la flessibilità ha creato manodopera a buon mercato ed ha spinto le imprese a tralasciare l'investimento in macchinari migliori o lo studio di processi produttivi più efficienti.
In definitiva, chi chiede sia le riforme del mercato del lavoro, sia l'investimento in ricerca e sviluppo tecnologico, chiede due fattori tra loro incompatibili, poiché il primo implica calo del reddito e della domanda ed abbondanza di manodopera, il secondo, domanda consistente con formazione di utili e manodopera non abbondante da cui necessità di ottimizzare le risorse. La botte piena e la moglie ubriaca.
Il risultato è che finora si è perseguito il primo fattore, deprimendo il mercato interno e provocando calo della produttività e la stagnazione economica, salvo poi lamentarsi che non si è produttivi e competitivi e richiedere ancora più tagli e flessibilità.
No, decisamente i primi due punti sono come sospettavamo: falsi e fuorvianti.
Il prossimo post mi occuperò del punto tre: il mitico dividendo dell'euro. Stay tuned.
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